Cancel culture
la pratica che intossica la democrazie
Angelo Perrone
La cancel culture, o cultura della cancellazione, non va confusa con la critica dei comportamenti riprovevoli. Questa pratica individua personaggi e avvenimenti ritenuti scorretti ma non promuove la discussione, non invita a imparare dagli errori, preferisce boicottare il presente e rimuovere il passato. Il nuovo lessico si nutre del mito della purezza e vorrebbe riscrivere la storia a piacimento.
È emersa soprattutto negli ambienti giovanili, aule universitarie e campus del nord America, ma poi ha preso piede altrove, pure in Italia, con differenti accezioni. Decollata tramite i Social, colpisce a 360 gradi ciò che è scorretto, riprovevole, politicamente opinabile. Con un profilo internet, il gioco è fatto. Si individua il bersaglio e scatta la riprovazione, si attizza un fuoco che divampa in fretta. È la cancel culture, ovvero la cultura della cancellazione, una pratica adottata per contestare personaggi pubblici, colpevoli di comportamenti eticamente censurabili o politicamente scorretti, e persino per mettere in discussione, usando gli stessi criteri, pagine intere di storia. Un fiume inarrestabile sull’alveo dei parametri di oggi. Tutto è preso di mira: letteratura, musica, spettacolo, economia, e ovviamente – stavolta con qualche ragione – la politica.
Il presente e il passato sono riletti e ripensati senza sconti
Nessuna distinzione di epoche, né di situazioni. Solo bianco o nero, non contano le sfumature. Lo sguardo è rivolto a fatti di oggi quanto a quelli di altri tempi, e non importa a quando risalgano o cosa li abbia determinati. Sono tutti comunque “attualizzati” nell’analisi e nel giudizio, riportati all’oggi, considerati come materiali per il dibattito corrente. Estrapolati dal contesto storico, vengono trasferiti di peso nel nostro tempo, senza distinguo o eccezioni. Il presente e il passato sono riletti e ripensati in modo severo, senza sconti, posti al vaglio della critica più spietata. Magari certe conclusioni sono ragionevoli e condivisibili, ma c’è una generalizzazione, un eccesso: così i soggetti – esaminati con uno sguardo contemporaneo – non ne escono mai indenni, il loro destino è segnato, le conseguenze pesanti: additati al pubblico disprezzo, portatori di uno stigma indelebile e vergognoso.
La cancel culture si abbatte sulla storia degli Stati Uniti
Gli effetti? Può essere la fine di una carriera di successo, con il ritiro del supporto e del gradimento nella professione, qualora si tratti di personaggi viventi, oppure l’eliminazione, con effetti ridicoli, delle tracce lasciate da figure o avvenimenti portatori di valori anacronistici. La battaglia era cominciata proprio in America nel 2005 in South Carolina, a proposito della bandiera dei secessionisti che sventolava ancora sulla cupola del parlamento locale: dopo la strage in una chiesa afroamericana, lo stesso governatore repubblicano ritenne intollerabile che rimanesse al suo posto, simbolo di odio e sopraffazione nei confronti dei neri. In fatto di simboli, la stessa pratica si è accanita financo sulle statue raffiguranti svariati personaggi storici. Erano monumenti in verità dimenticati nei parchi e nei viali ma improvvisamente sono tornati in auge perché associati a episodi disdicevoli o gesta esecrabili. Tra le prime colpite, le statue della Confederazione sudista, espressione di razzismo sistemico e arrogante supremazia bianca, ma poi anche le altre: personaggi celebrati per i meriti nella costruzione del paese. D’un colpo, hanno perso credibilità i padri della patria, Abraham Lincoln e Thomas Jefferson: il loro paese è fondato sulla schiavitù. E perfino Cristoforo Colombo non si è salvato dalla tempesta. Non conta che abbia aperto la rotta che ha portato gli Usa a diventare la prima potenza. Era un colonizzatore, indelebile la macchia del genocidio dei nativi.
Si denuncia la nascita di una “atmosfera soffocante”
Dalla storia all’attualità: sempre in America, l’attore Kevin Spacey ha smesso di essere il più ricercato degli attori quando sei giovani lo hanno accusato di molestie: da allora, cancellato dai set e dagli schermi. Oscurato sui media. Nessuna citazione sulle pagine. A proposito di cinema, si è davvero esagerato con tutti i film western: in fondo celebrazione dell’invasore bianco e dello sterminio delle tribù pellerossa, esaltazione di avidità e prevaricazione. Sotto la mannaia, è caduto un po’ di tutto, anche i personaggi dell’immaginario collettivo, quelli che hanno accompagnato, e reso felice, la nostra infanzia: censurate la povera Biancaneve (non era consensuale il bacio del Principe?) e tante figure delle favole. Le statue dedicate agli eroi colonizzatori sono rovinate a terra. Ci hanno rimesso persino i classici greci o latini, indegni, per qualche aspetto, di essere studiati dai nostri ragazzi. Ha fatto molti passi la “decostruzione” del pensiero occidentale fondato sul politicamente scorretto.
Un processo di ridimensionamento di figure celebri
Al vaglio anche condotte di singoli, non importa se non proprio chiari. Quel manager (come si chiamava?) costretto a dimettersi per aver insultato (perché?) una famiglia filippina in un certo ristorante della California; quel batterista dei Police messo all’indice, additato addirittura d’essere complice di genocidio (quale?), perché “figlio di una spia”; infine quel tal altro giornalista del New York Times, mandato via dall’oggi al domani per aver pubblicato un testo (di altri, e da qualcuno non condiviso). In Italia, non è andata meglio, e la spregiudicatezza non ha avuto il limite della decenza. Ha rischiato grosso, e non si sa come finirà, la statua di Indro Montanelli di cui è stata riesumata la vicenda della “sposa bambina”, una dodicenne africana, per tacciarlo d’essere colonizzatore fascista oltre che pedofilo. Una storia, non si sa neppure se vera, ritornata d’attualità nel processo di ridimensionamento di figure celebri. E stava per essere esposta al pubblico ludibrio anche quella libraia romana che si era rifiutata di vendere la biografia di Giorgia Meloni.
Sui più svariati argomenti incombe la minaccia della cancel culture. Se all’inizio in America sembrava che i temi prevalenti fossero quelli dell’equità razziale, della lotta alla discriminazione, della difesa delle minoranze, genericamente di sinistra, in nome della lotta ai privilegi, la tendenza si è estesa, e in Europa è stata adottata anche da destra. Il boicottaggio può essere neutro quanto a colore politico. La lettera, sulla rivista americana Harper’s, firmata da 150 intellettuali tra cui Noam Chomsky, J.K. Rowling, Salman Rushdie e Margaret Atwood, in difesa della libertà di parola, ha chiarito l’equivoco insito nella cancel culture, erroneamente legittimata come manifestazione del pensiero progressista, o genericamente della libertà di critica, riguardo ai temi dell’uguaglianza e della dignità umana. Per quanto non sia esplicitamente citata, il documento rappresenta una risposta alla cancel culture quando si denuncia la nascita di una “atmosfera soffocante” che mette in pericolo proprio la libertà di parola nonostante gli scopi dichiarati. Perché la pratica pone davanti alla “falsa scelta tra giustizia e libertà” (l’una non può esistere senza l’altra), non lascia spazio alla sperimentazione, alla possibilità di prendersi dei rischi e fare errori. È esattamente l’atteggiamento illiberale della cancel culture: individuare bersagli e colpirli con “l’ostracismo e la pubblica umiliazione”.
L’atteggiamento reazionario sa travestirsi di progressismo
C’è una questione di metodo ma anche di sostanza. Soprattutto in rete si diffonde un lessico che si rovescia sulla maggioranza. Determina un sovvertimento della cultura democratica fondata sulla libertà di critica, sul senso etico e sul rispetto della dignità, quindi sul dubbio come metodo di elaborazione del pensiero critico. Non a caso in quell’appello si segnala che «il modo di sconfiggere le idee sbagliate è metterle in luce, discuterne e criticarle, non cercare di metterle a tacere». O magari cancellare ciò che non piace e non è conforme alle nostre idee. L’atteggiamento reazionario sa travestirsi di progressismo. Usa parole moderne, finge di essere evoluto, ma punta a ripristinare metodi oscurantisti. Il senso morale e la critica intellettuale devono essere rigorosi, ma non hanno bisogno di guardiani della verità, censori del politicamente corretto, paladini dell’intransigenza.
La cancel culture e il mito della purezza
La cancel culture non è un movimento, non ha leader, né una trasparente ideologia di fondo, ma è trasparente la sua logica. Lo si vede da come riesce a spaziare in ogni campo e dai metodi che usa. Utilizza l’anatema e l’intolleranza, il boicottaggio e la censura, in nome del mito della purezza incontaminata da qualsiasi macchia, persino il dubbio. È disposta, questa “cultura” della cancellazione, a riportare indietro le lancette della storia e riscriverla a piacimento. Per i nuovi talebani del pensiero, è comunque inaccettabile il colore del passato. Non può essere tollerato. Piuttosto che ignorare o cancellare la storia, sarebbe più utile imparare dagli errori commessi e cercare di non ripeterli. Ma non interessano realmente la dinamica dei fatti, i documenti e le prove. La sentenza è già scritta. Si parte dalla fine per tornare all’inizio. Il radicalismo fa a pugni con la ragione, l’equilibrio e il buon senso.
(https://www.leurispes.it - 12 novembre 2021)