Riscoprire il

dialogo educativo

Conversazione con Raffaele Mantegazza (*)


a cura di Anna Giulia Garneri (**)


Anna Giulia Garneri. La nostra conversazione prende le mosse dal titolo del Suo bellissimo libro La scuola dopo il Coronavirus scritto nell'aprile del 2020 per Castelvecchi. Come vede questa forzata convivenza? Occorre aggiornare il testo? Probabilmente chi vi si accosta, pensa che si tratti di un vademecum guarnito di soluzioni, invece Lei solleva tantissime domande: su che cosa vuole provocare il lettore?

Raffaele Mantegazza. Ho scritto con la forte esigenza di dire che la scuola è e rimane uno dei luoghi che ci può aiutare a uscire da questa crisi; anzi da certi punti di vista è proprio grazie alla scuola che ci salveremo da questa emergenza sul piano umano, culturale e sociale. Per certi versi durante il primo lockdown avevo già avvertito la malinconia per le scuole vuote, per quel silenzio che talvolta sembrava intollerabile, ma anche nella seconda o terza fase è evidente che la scuola resta irrinunciabile.
Nella vita di un bambino, di un adolescente, di un giovane in questo momento la scuola è indispensabile. Magari fra cent'anni inventeremo qualcos'altro, però coloro che pensavano che la scuola fosse anacronistica e si potessero escogitare alternative pure legittime, dovrebbero capire che in realtà è ancora un centro di elaborazione di senso in cui possiamo scoprire insieme il significato di quello che sta accadendo, perfino se è una tragedia e se siamo presi dalla paura, dall'angoscia, dall'ansia. Più che provocazioni espongo domande riguardo a quanto siamo consapevoli del fatto che i giovani vogliono la scuola e la amano anche quando risulta faticosa, perché sanno che a scuola gli adulti li ascoltano, li accolgono, sanno come comunicare e relazionarsi con loro. Infatti la scuola permette di avere paura o di avere il coraggio di esprimerla e di trovare nella disciplina, nella cultura, nell'apprendimento un modo per essere meno soli. Perciò era proprio un libro che sentivo di dover scrivere come sostegno alla scuola nel momento in cui l'umanità, la nostra civiltà, ha più bisogno di questa istituzione, ossia di relazioni che sono uniche.

G. Siamo ripartiti a gennaio con il 50% dei liceali che si trovavano a casa da molto tempo dopo il lockdown dell'anno scolastico precedente. Lei come avrebbe predisposto il rientro?
M. Certamente la priorità era cogliere quel momento come un'occasione di festa, vivendolo con il buon umore senza la preoccupazione di recuperare il programma e di affrontare le verifiche. Innanzitutto viene la gioia di stare insieme, di ricominciare, di riconnettere i fili, di ricostruire quanto era successo. Perciò avrei domandato ai ragazzi che cosa portassero con sé dell'esperienza della didattica a distanza, perché è molto importante che percepiscano che gli insegnanti sono sempre stati con loro e non li hanno abbandonati.
La scuola italiana ha risposto egregiamente a questa emergenza: siamo riusciti a tenere gli esami di terza media, la maturità, le discussioni di laurea. Dico 'noi' perché l'anno scorso ho fatto il presidente di maturità, concludendo l'anno scolastico in una maniera che è stata quasi un mezzo miracolo. Nessuno avrebbe scommesso sulla capacità di resilienza della scuola, invece abbiamo lavorato tutta l'estate per corrispondere alle misure di sicurezza richieste dal Governo. Dopo la ripartenza le scuole superiori hanno chiuso di nuovo, ma nonostante ciò tutti i ragazzi hanno imparato. Quindi bisogna che i ragazzi comprendano che siamo stati al loro fianco, raccontando che cosa è andato bene oppure male, che cosa si sarebbe potuto fare di meglio e che cosa hanno scoperto con la didattica a distanza. Ad esempio, molti ragazzi timidi hanno appreso a intervenire a lezione perché si sentivano più protetti dal giudizio dei compagni. Dato che questa è una grande conquista, gli allievi devono essere aiutati a mantenere tale risultato anche quando la classe sarà riunita. La prima cosa quindi è ricevere dai ragazzi il racconto di che cosa hanno scoperto di sé, degli insegnanti e delle materie durante i mesi di distanza.

G. Con le ristrettezze e le incertezze dei tempi di previsione che sembrano ridursi al periodo compreso fra due DPCM, la pandemia rende più difficile uno dei compiti principali della scuola: costruire la fiducia nel futuro. Come si potrà essere fiduciosi sul lungo termine?
M. Dopo la ripresa all'inizio di quest'anno scolastico un'insegnante delle medie, mia amica, aveva detto: "Quando arriva il venerdì, saluto i ragazzi e ho l'angoscia di non sapere se li rivedrò lunedì". Le ho risposto: "È sempre stato così, anche se ce ne rendiamo conto solo adesso", nel senso che la condizione umana è di non avere mai certezze. Il coronavirus, come tutte le tragedie, ci ha messo spietatamente di fronte a ciò che siamo. Di certo dobbiamo programmare, sognare, immaginare il futuro: la grandezza dell'essere umano sta proprio nel fare progetti, crearsi un avvenire, sapendo però di non avere garanzie. Perciò ci tocca imparare che non tanto la scuola, quanto in generale la relazione tra l'adulto e il ragazzo ci mostrano come vivere in quell'ineliminabile precarietà che non ci deve bloccare, perché fa parte della vita. Dobbiamo trovare la forza di dire: "Vi assegno un compito per lunedì. Se non ci vedremo in presenza, ci vedremo da remoto e, se salterà anche la connessione, troveremo il modo, perché siamo dotati di fantasia, di creatività. Se non lunedì, lo correggeremo insieme martedì e, se non sarà attraverso uno schermo, ci telefoneremo".
Questo è un altro elemento di grandezza della scuola: saper gestire un presente precario senza rinunciare a pensare al futuro. Sa la pandemia ci ha messo di fronte alla brutalità che hanno le situazioni tragiche, dobbiamo ripartire esattamente da qui con un po' meno di arroganza e un po' più di capacità di vivere l'oggi. Dire a un ragazzo di undici anni: "Impara questa cosa perché ti servirà quando avrai trent'anni" non ha senso prima di tutto perché non abbiamo la minima idea di come sarà il mondo quando quel ragazzo avrà trent'anni, poi perché lui vuole impararla perché è bella, perché gli piace, per cui stiamo certi che, se la imparerà, gli servirà anche a trent'anni. Si tratta di restituire il gusto di fare le cose perché sono belle.

G. A proposito Lei scrive: "La scuola è sempre stato il luogo del piacere rimandato. Non si studia mai per il presente ma sempre per un dopo. Alle primarie si studia per le medie, alle medie per le superiori, alle superiori per l'università. Ovviamente c'è anche un moto uguale e contrario: se il rendimento dei ragazzi all'università è scarso, è colpa delle superiori, se vanno male al biennio è colpa delle medie e così via". Come funziona questo gioco di rimandi? Si può veramente studiare con piacere e come?
M. Sì, da un lato questo continuo scaricare sul livello più basso equivale a non assumersi la responsabilità dí fare la propria parte. Di certo possiamo porre obiettivi formativi dai tre ai diciotto anni e vedere come ogni segmento li interpreti attraverso la propria progettualità pedagogica, però la mutua collaborazione deve essere effettiva. Ad esempio, in Italia abbiamo le scuole dell'infanzia migliori del mondo: vengono perfino dal Giappone per studiarle. Allora noi professori universitari possiamo imparare dagli insegnanti della scuola d'infanzia; naturalmente non perché dobbiamo trattare i ventenni come loro trattano i bambini di quattro anni, ma perché hanno qualcosa da insegnarci sulla relazione. In quest'ottica la scuola è una grande comunità in cui chi insegna ai più grandi non è più bravo di chi insegna ai più piccoli, anzi la logica imporrebbe di dare uno stipendio più alto a chi lavora con i bambini perché ha maggiore responsabilità, per cui il suo eventuale errore pesa molto di più rispetto all'errore che posso commettere io con dei ventenni, sebbene debba comunque evitarlo.
Dall'altro lato credo che sia davvero importante provare gusto nelle cose che si imparano, anche se sono difficili. Molto spesso quando nelle scuole si parla del futuro, si prospetta una specie di via crucis: "Ragazzi, siamo in quinta elementare, vedrete alle medie", come se fosse l'anticamera dell'inferno. Quando tengo i colloqui con i ragazzi di quinta superiore che mi chiedono dell'università, la prima cosa che dico è che l'università è bellissima perché si è grandi, autonomi e si incontrano tante persone, poi è chiaro che occorrono la serietà e l'impegno. Però nel trasmettere un senso del piacere che non escluda il dovere, la fatica e l'impegno, deve crederci anche l'insegnante, perché se è il primo ad avere un rapporto negativo con la scuola o con la propria disciplina, questo atteggiamento passa prepotentemente ai ragazzi.

G. Prima ha elogiato la scuola perché è riuscita a svolgere i suoi compiti principali, come gli esami finali; poi ha chiarito che molti di noi sanno che quello che stiamo perdendo con le aule chiuse è l'essenziale della scuola. Ma qual è l'essenziale della scuola?

M. Basterebbe ascoltare una canzone molto bella: Compagni di scuola. Per un motivo che non conosco, Antonello Venditti è un autore che quando parla di scuola, ne fa rivivere veramente la materialità. In particolare quel testo descrive l'attesa davanti alla scuola, la prima campanella, l'ingresso in classe, la seconda campanella, il professore, il crocifisso, la foto del Presidente della Repubblica, ossia la concretezza scolastica nella sua ritualità. Pensiamo: la lezione inizia alle otto con la didattica a distanza, quindi, se ti svegli alle sette e cinquantacinque, riesci solo a lavarti la faccia giusto perché altrimenti la mamma ti sgrida. Se invece devi andare a scuola, ti svegli alle sei e trenta, fai la doccia, ripassi, prepari la cartella, prendi il pullman dove incontri gli altri ragazzi, socializzi davanti all'istituto, entri in classe... Dunque la scuola è tutta questa ritualità: l'intervallo, le pause, la sbirciatina agli appunti durante la verifica; e questo è il sostegno all'apprendimento. Ricordiamo quando la volpe dice al piccolo principe che l'essenziale è nei riti? I riti della scuola sono fondamentali e sono corporei: cambiarsi per educazione fisica, andare in bagno ma tornare entro cinque minuti perché il professore interroga, alzare la mano per intervenire, escogitare il modo per suggerire al compagno senza farsi scoprire: questo è la scuola. I contenuti, che sono fondamentali, hanno senso solo dentro a questa dimensione.
È curioso che sebbene i dispositivi elettronici ci permettano di sapere in un secondo quando è morto Napoleone, i ragazzi vadano a scuola per impararlo, perché là ci sono i loro compagni, il loro banco, la loro sedia, i loro professori. "Io voglio impararlo da te e insieme ai miei compagni": lo ripeto, questa motivazione resta insostituibile. Certo che non bisogna sbagliare la data di morte di Napoleone, ma vale in quel contesto perché l'importante non è che cosa i ragazzi imparano, ma quale relazione hanno con quanto imparano. Me ne sono reso conto in maniera straordinaria grazie all'esperienza di presidente di commissione di maturità l'anno scorso, quando dei ragazzi eccezionali mi hanno fatto capire quanto sia stato importante per loro studiare Ungaretti durante il lockdown. Secondo me conoscevano Ungaretti perfino meglio di chi l'aveva studiato l'anno precedente, perché era diventato vitale occuparsene per poter sostenere l'orale, rivedere i professori e fare bella figura con una buona prova.

G. Il tema della relazione mi suggerisce un'altra domanda collegata a un passaggio del Suo libro: «A scuola si impara solo per e con gli altri», che rimanda a una raccomandazione a noi molto nota di padre Arrupe (Generale dei Gesuiti dal 1965 al 1983) nella quale ci riconosciamo, ossia di formare uomini e donne per e con gli altri. Ci sono punti di contatto tra la Sua affermazione e l'invito di padre Arrupe?
M. Non lo conoscevo, ma la consonanza è ancora più significativa perché il modo in cui impari è in stretta relazione con quello che diventerai imparando. Non si può insegnare la nonviolenza attraverso la violenza, non si può insegnare il dialogo attraverso l'assenza di dialogo, se vogliamo formare l'uomo e la donna completi e aperti che abbiano questa socialità quasi come una loro seconda pelle e sappiano vivere per e con gli altri. Il processo formativo deve avere questa caratteristica, anzi le stesse caratteristiche del tipo di umanità che vogliamo formare.
Il sapere è straordinario perché è l'unico bene che aumenta se lo condividiamo. Supponiamo che veda un film che mi piace e dica al mio amico di andare a vederlo, poi lui osserva che una certa scena avrebbe potuto risultare migliore. In questo caso il mio sapere aumenta perché mi viene presentato un aspetto che non avevo notato e quanto più condivido, tante più persone mi aiutano a conoscere meglio il film. Perciò quando mi domandano perché ho fatto l'insegnante, ricordo sempre quello che mi aveva detto un mio amico fraterno, compagno di liceo: "Tu non potevi fare altro che l'insegnante perché al liceo, quando leggevi un libro o vedevi un film, insistevi perché lo conoscessimo anche noi. Non riuscivi a non condividere una cosa che ti era piaciuta". In questo senso l'insegnante è chi desidera che gli allievi partecipino della sua passione culturale: quando i ragazzi lo incontrano, si interessano per vedere se riusciranno a essere felici come lui imparando la sua materia.

G. L'ultimo capitolo del Suo libro è dedicato proprio agli insegnanti: "Insegnante come antivirus". Come esce la figura dell'insegnante da questa pandemia: depressa o rimotivata?
M. Penso che ne esca rinforzata e che siano i ragazzi stessi a riconoscerne finalmente il ruolo. Nella didattica a distanza succedeva che, mentre l'allievo seguiva la lezione, il papà, la mamma o il fratello passassero vicino e molte volte esprimessero compiaciuti il proprio interesse. Come docente universitario anch'io ho tenuto un semestre a distanza: entrando nelle case degli studenti, innanzitutto chiedo il permesso: "Se volete accendere la webcam mi fa piacere, però siete a casa vostra, quindi vi chiedo scusa se invado la vostra intimità". Questo riguardo è stato potentissimo perché ha mostrato anche a certe famiglie che magari hanno un po' di pregiudizi, quanto il lavoro dell'insegnante sia difficile ma bello.
Da parte loro i ragazzi hanno constatato che gli insegnanti non li hanno abbandonati. Conosco insegnanti che durante il lockdown si recavano con l'autocertificazione a portare il computer al ragazzino che non ne aveva la disponibilità. Quando un allievo non si connetteva, alcuni insegnanti gli telefonavano e se non rispondeva, chiedevano a un compagno di chiamarlo. Quindi l'amore e l'affetto dimostrato dalla maggior parte degli insegnanti è stato riconosciuto e ritornerà moltiplicato nell'amore e nell'affetto che gli studenti avranno per loro. Credo veramente che i ragazzi siano stati orgogliosi dei loro insegnanti anche quando pretendevano un alto rendimento. Se in questa crisi la scuola è stato uno dei pilastri che hanno tenuto, è da qui che bisogna ripartire, come quando trovi un punto di riferimento durante l'uragano.

G. Lei scrive: "La scuola non potrà più fingere che non esista la paura", mentre gli studenti, provocati, commentano: "Ho paura dell'altro. Ognuno si mostra come un possibile nemico. Mi sento in ansia quando gli altri si avvicinano. La paura sta diventando una costante della mia vita. Ho paura di non tornare più alla normalità e di non tornare più a scuola. Fino a un anno fa la vita si basava su certezze che ora non sono più valide. Solo ignorando la paura si può crescere". Come possiamo aiutarli a superare e a convivere con queste paure e non a ignorarle, come invece suggerisce l'ultima affermazione?
M. La legittimazione della paura è un'operazione importantissima e la paura peggiore è quella di avere paura, perché si tratta di un sentimento evolutivo. Probabilmente la specie umana si sarebbe estinta se la paura non l'avesse soccorsa. Ad esempio, la paura del fuoco ha portato ad addomesticarlo oppure, se non avessi paura, andrei a trecento all'ora in autostrada. La paura è legata al fatto che voglio vivere, di conseguenza temo tutto ciò che potrebbe farmi male e cerco di affrontarlo.
In realtà la paura più profonda, più ancestrale, più difficile da nominare, sperimentata molto spesso dagli adolescenti, è quella esistenziale che per certi versi è una forma di angoscia. La scuola può rassicurarli dicendo che anche gli adulti provano paure e incertezze, però non se ne lasciano paralizzare. Non è vero che quando si diventa grandi i problemi si risolvono, eppure si riesce a vivere anche con problemi irrisolti senza permettere che ti distruggano. Pensiamo a come Poe, Leopardi, Manzoni abbiano trasfigurato la paura grazie le persone che hanno paura, sono condividono mediante le proprie capacità e non bisogna vergognarsi di avere paura, ami ama è tanto più pericolosa quanto meno si avvertono i pericoli.

G. Nel Suo testo pone un'altra domanda: Accetteremo ancora di abitare scuole invivibili dal punto di vista fisico?». Le risposte dei ragazzi sono abbastanza inaspettate e vi riaffiorano i riferimenti ai riti e alle condizioni materiali della scuola di cui parlavamo: "Non mi pesano le ore seduto al banco, ciò che rende la scuola accogliente è la possibilità di guardare negli occhi la persona con cui sto parlando. La scuola deve essere fatta di sedie scomode, banchi e cattedra: è una questione di tradizione. Lo stare fisicamente seduti al banco è necessario non solo per l'apprendimento, ma è una vera e propria esperienza di vita formativa per ogni studente". Però c'è anche chi dice: "In didattica a distanza ero molto più tranquilla, ad ogni cambio d'ora uscivo in giardino, ascoltavo una canzone mentre guardavo il sole". Allora la semi-immobilità delle lezioni e la quantità di ore di concentrazione richieste sono davvero funzionali all'apprendimento? La scuola è a misura di studente o a misura di programma?
M. L'alternativa è che non sia a misura né dell'uno né dell'altro. Credo che non si possa educare al bello in posti brutti o meglio si può solo perché gli insegnanti hanno la capacità di farlo. Tuttavia dobbiamo prenderci cura delle nostre scuole.
È molto significativo l'accenno alle sedie scomode: capisco la disciplina corporea dello stare seduti composti, però è importante anche un angolo con il divano confortevole dove ti siedi nell'intervallo o per un momento di riflessione. Perché non arredare la scuola sulla base dell'esigenza di momenti belli? Ricordo che i miei insegnanti in terza liceo scientifico ci avevano autorizzato ad appendere dei poster sulla parete di fondo dell'aula un po' scrostata. Vi lascio immaginare il risultato, però era diventata proprio la nostra classe, la nostra aula. Questo è un modo intelligente di dare vita, certamente meglio della parete scrostata nonostante il patchwork di immagini inguardabili. Poi il professore di filosofia aveva riservato un pezzettino di muro vicino alla finestra in modo che ogni settimana un insegnante potesse collocarvi un articolo di giornale o la fotocopia di una figura. In queste piccole cose ci vuole il genio dell'insegnante lasciando spazio ai ragazzi per arredare l'ambiente, per quanto occorra comunque il minimo vitale, cioè che i bagni siano funzionanti, gli spogliatoi accessibili, le scale a norma; ma soprattutto bisogna trovare la disponibilità di aree gradevoli perché nel brutto è molto difficile imparare ed educarsi al bello.

G. Mi ha divertito il capitolo intitolato "Verifiche à gogo", anche se dai commenti dei ragazzi è emersa un'altra paura: "Ho notato una grande voglia da parte dei prof di fissare verifiche una dietro l'altra. Per quanto riguarda i programmi gli insegnanti si stressano perché devono assolutamente finirli, gli alunni sono stressati perché devono studiare per tutte le verifiche su tutti gli argomenti. Una persona non può corrispondere a un voto, ma deve rendersi conto dei propri errori; i giudizi espressi con le lettere 'a b c' sono un buon metodo per sostituire i voti". Dopo la didattica a distanza è ancora pensabile riproporre gli stessi ritmi di prima, lo stesso numero di verifiche, gli stessi programmi oppure sarebbe meglio rivedere l'organizzazione generale?
M. Possiamo anche fare finta che non sia successo niente, ma è dall'aprile dell'anno scorso che condivido l'urgenza di rivedere i contenuti e gli obiettivi, dato che la parola 'programma' non si usa più. Dobbiamo renderci conto che l'anno prossimo i nostri corsi saranno frequentati da ragazzi che non hanno seguito il secondo quadrimestre dell'anno precedente né il primo di quest'anno. Per questo sollecito continuamente i miei colleghi a ripensare tutto il progetto didattico per le matricole.
Un'altra questione è come si faccia a pensare che una persona possa svolgere tre verifiche nella stessa mattina dando del proprio meglio in ciascuna. In realtà non è possibile e neanche auspicabile. Perché il ragazzo che ha la partita di calcio, la domenica si sveglia tutto eccitato e contento, mentre al mattino della verifica si alza con l'ansia? Perché non possiamo provare a fare in modo che la verifica di latino mobiliti le stesse emozioni del calcio? Anche se a me piace il calcio, non redo che il latino sia meno appassionante, salvo che non sia obbligato a una verifica ogni settimana. D'altronde mi stufo anche se gioco con la stessa squadra ogni domenica. In realtà le verifiche dovrebbero essere momenti desiderati dai ragazzi; per esempio molti miei allievi hanno voglia di sostenere l'esame perché desiderano condividerne quello che hanno imparato e fare bella figura, tanto che il voto viene quasi da sé ed è un aspetto secondario di cui parlo con lo studente, anche se lo decido io, perché in questo caso la responsabilità è mia. Invece talvolta la nostra scuola riduce tutto l'accadere educativo alla valutazione e riduce la valutazione al voto; ma la valutazione è un pezzo di ciò che accade a scuola e il voto è un pezzettino della valutazione, per quanto resti importante perché ha un valore pubblico.
Un'ultima considerazione riguarda la collegialità che rientra nelle nostre competenze professionali. Ad esempio, se annuncio che martedì terremo la verifica, ma i ragazzi mi fanno notare che nel medesimo giorno è già stata programmata quella di matematica, concordo con il collega di spostare la mia, chiedendogli di lasciar fissare prima a me la data della prossima. Se invece insistessi a mantenerla quello stesso martedì, farei crollare tutti i discorsi pedagogici del mondo.

G. A proposito di questo sadismo ci aveva fatto sorridere l'ironia del passo in cui scrive: "Un virus che risparmia i ragazzi e permette loro di non andare a scuola, suscita una tremenda invidia inconscia negli adulti". Peraltro in precedenza ci siamo confrontati sulle enormi restrizioni richieste nel periodo di confinamento e dalle risposte dei ragazzi abbiamo constatato la grande consapevolezza di dover affrontare i sacrifici con razionalità e senso civico al punto che ritengono di avere assunto un atteggiamento perfino più responsabile rispetto agli adulti. Secondo Lei perché nel trattare la prevenzione contro la diffusione del contagio c'è stato un accanimento non solo mediatico verso i più giovani?
M. Se mi è permessa una battuta, forse alcuni di noi non accettano di invecchiare e invidiano i ragazzi come qualcuno da criminalizzare. Prima dicevamo: "Non stare sempre davanti al computer, esci un po'"; invece adesso chiediamo: "Non è così importante uscire, rimani a casa per cinque ore a fare la DAD". Secondo me i ragazzi pensano che siamo matti senza un minimo di coerenza. Un conto è dire: "Non dovete uscire perché ci sono delle norme", un altro è dire: "Capiamo l'enorme sacrificio che state facendo e vi ringraziamo perché obbedite, non uscite, avete delle precauzioni, usate la mascherina".
È importante sapere che dovremo lavorare insieme a questi ragazzi per recuperare la socialità. L'altro giorno ho incontrato i rappresentanti di terza, quarta e quinta di un liceo per il quale abbiamo organizzato un ciclo di attività sul tema della didattica, ma in realtà proprio sul significato del fare scuola. Dato che mi avevano scritto un elenco di considerazioni così serie da commuovermi, ho detto: "Però fate anche un po' gli stupidì ogni tanto, ricordatevi di avere sedici-diciotto anni". Quindi ho raccontato un paio di stupidate che facevo al liceo perché li vedevo troppo abbattuti. In effetti l'iper-responsabilizzazione rischia di far vivere l'adolescenza in modo triste, per cui occorre restituire loro il diritto di vivere la propria età. Sono gli adulti a doversi assumere i carichi maggiori, domandando aí giovani dí fidarsi e di essere spensierati.

G. Ho chiesto ai ragazzi se vorrebbero salvare qualcosa della DAD. Alcuni hanno risposto di no, altri che la didattica a distanza ha permesso una maggiore responsabilizzazione e una migliore organizzazione del tempo, anche se è evidente che tutti hanno patito la lontananza. Ad esempio una studentessa mi aveva comunicato che le era mancato l'accompagnamento nel sapere: mi ha ricordato lo smarrimento di Dante nel purgatorio, quando teme di essere stato abbandonato da Virgilio perché non vede la sua ombra. In quanto insegnanti, come possiamo accompagnare la classe in modo fisico e percettivo, rendendola una comunità ermeneutica anche in didattica a distanza?
M. Un ragazzo mi ha raccontato che alcuni compagni avevano avuto la tentazione di lasciare, anche se in quarta liceo si trovavano a un passo dalla fine. Una sua frase mi ha colpito molto: "Li abbiamo ripresi per i capelli e riportati in classe": è questa la responsabilità dei diciottenni che in un mondo egoistico e in una situazione di isolamento si fanno carico dei compagni che non ce la fanno più. Gli insegnanti di quella classe dovrebbero valorizzare la loro esperienza, cercando di capire come hanno fatto a motivare i loro compagni depressi, perché l'insegnante che sa accompagnare, sa anche farsi guidare, imparando dagli allievi. Ad esempio, in certi licei esistono progetti nati per iniziativa dei ragazzi, nei quali chi frequenta la quarta e la quinta dà ripetizioni a quelli di prima e seconda. Una mia amica preside mi ha confidato che si era messa a piangere quando i rappresentanti di quarta e quinta le avevano illustrato questa proposta meravigliosa: in effetti si tratta di un mezzo miracolo.
Personalmente sulla DAD ho imparato tantissimo da studenti che mi hanno aiutato ad applicare funzioni informatiche che non conoscevo, dimostrando di tenere al fatto che la lezione si faccia insieme. Naturalmente all'adulto spetta di accogliere tutto e di dare l'orientamento, ma sempre a partire dall'ascolto educativo che non significa fare quello che vogliono i ragazzi, bensì conferire una direzione di senso. Entrare nel loro mondo desta sempre stupore, perché vi si trova quella freschezza in grado di intuire soluzioni alle quali non avremmo mai pensato. Quindi la competenza dell'adulto è di ricevere i suggerimenti dei giovani e di inserirli nel progetto educativo della scuola.

G. Concluderei con la riflessione di una studentessa che suggerisce che cosa possiamo salvare della didattica a distanza: "La scuola del futuro sarà tecnologica: la carta sarà sostituita dai tablet e dai pc, i compiti potranno essere svolti e corretti su piattaforme in collaborazione tra studenti e docenti, l'insegnante di lingua potrà collegarsi dall'estero e sarà più facile condividere esperienze, conoscenze e contributi con gli studenti di altri Paesi". Con uno sguardo così fiducioso verso il futuro la sua idea di allargare la partecipazione al sapere mi sembra positiva.
M. Molto bella, a parte la sostituzione della carta su cui non mi trova d'accordo, però è vero che dobbiamo ricavare tutto il nuovo e il positivo dalla DAD e dall'evoluzione dei mezzi tecnologici. Ad esempio, è possibile registrare una lezione entusiasmante per rivederla a casa oppure caricare su Google Drive materiali da consultare con calma.
Un collega mi ha detto che durante il primo lockdown uno studente di terza media seguiva le lezioni asincrone, rallentando la velocità di trasmissione del video, perché parlava troppo velocemente; perciò da professionista ha imparato a rallentare. Non è meravigliosa la voglia di apprendere di quell'allievo?
Confesso un piccolo segreto professionale: quando riprendono le mie conferenze, riguardo i video eliminando la voce per concentrarmi sulla gestualità con l'intento di migliorare. Perché non provarci anche in classe? Se uno studente è disponibile a lasciarsi riprendere, potrebbe rivedere l'interrogazione per farsene un'idea. D'altronde grazie alla LIM (Lavagna Interattiva Multimediale) un docente di storia dell'arte può proiettare un quadro di Caravaggio in formato naturale o perfino ingrandirne i dettagli, sebbene rimanga uno strumento di cui decide liberamente l'impiego insieme agli allievi. Quindi la scuola più tecnologica è ottima se la tecnologia resta al servizio della relazione, non se la relazione diventa schiava della tecnologia: l'alternativa fondamentale è questa.

(*) Raffaele Mantegazza insegna Scienze pedagogiche presso il dipartimento di Medicina e Chirurgia dell'Università di Milano-Bicocca. Organizza corsi e incontri di formazione per insegnanti, studenti, genitori, personale sanitario, educatori.

(**) Anna Giulia Garneri insegna discipline letterarie e latino nei Licei dell'Istituto Sociale di Torino.

(FONTE: Itinerari 2/2021, pp. 49-62)