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    Gesù inside out

    Ludwig Monti


    1. Introduzione, gioia, stupore

    Le emozioni primarie
    Vi sarà forse capitato di vedere Inside Out, un bel film di animazione di qualche anno fa. Magari lo avete proposto ai vostri figli piccoli o ai vostri nipotini. Poi piano piano vi siete appassionati anche voi, prima guardando distrattamente, poi sedendovi sul divano, infine, forse, pensando e ripensando a una storia non solo (o non proprio) per bambini. E magari applicandola alla vostra vita, ai vostri vissuti.
    Per chi non sapesse di cosa si tratta, solo un breve riassunto della trama, una sorta di trailer in parole. Riley, una ragazzina di undici anni, all’improvviso si trova costretta a trasferirsi con i genitori dal Minnesota a San Francisco per via del lavoro del padre. Qui le emozioni di gioia, tristezza, paura, rabbia e disgusto entrano in gioco sotto la forma di pupazzetti animati dai colori e dagli atteggiamento diversi, caratterizzando i vari momenti della giornata di Riley. Attraverso questo stratagemma, accompagnato dalle varie vicende che scandiscono un anno della vita della ragazzina, Inside Out ci spinge a riflettere sull’importanza delle emozioni nella nostra esistenza quotidiana, “Dentro-Fuori” di noi.
    Ora, dietro a questa semplicissima trama vi sono le teorie di Paul Ekman, uno dei più famosi psicologi contemporanei, il quale sulla base degli studi di Charles Darwin ha approfondito il tema delle emozioni e ne ha studiato il collegamento con le espressioni del viso. Egli è giunto così a individuare sei emozioni primarie, universali: per l’appunto gioia, tristezza, paura, rabbia e disgusto, alle quali va aggiunto lo stupore/sorpresa, che alcuni ritengono una mescolanza di gioia e di paura.

    Gesù, uomo in tutto come noi
    Ebbene, tutto questo ha qualcosa da dire alla nostra vita cristiana, cioè umana dell’umanità vissuta da Gesù Cristo? Ha scritto un grande teologo recentemente scomparso: “Ciò che Gesù ha di eccezionale non è di ordine religioso, ma umano … Ci è dato di vedere la luce di Dio riflettersi dalla sua figura umana su ogni volto umano e possiamo lasciarci guidare da essa fino a Dio sulle vie di umanità che Gesù ha tracciato” (Joseph Moingt). O ancora, ascoltiamo le parole di Romano Penna, nell’introdurre un bel libro sui sentimenti di Gesù:
    Come poteva essere esente dalle passioni un uomo come Gesù di Nazaret? Certo nei suoi confronti è esistito (e forse esiste ancora) un giudizio, che lo esclude da una umanità ritenuta eccessiva. Ma si tratta nient’altro che di una tentazione monofisita, che considera indegna contaminazione mondana la condivisione da parte sua di ciò che è umano, magari considerato troppo umano! Eppure, come si esprimeva un antico adagio patristico, quod non est assumptum non est redemptum! E invece, Gesù ha assunto tutta intera la nostra umanità, compresi gli affetti che segnano tanto a fondo la nostra identità quotidiana.
    Queste parole a prima vista difficili esprimono una verità fondamentale, in quanto fondamento della nostra fede: approfondire le emozioni e i sentimenti di Gesù significa prendere sul serio l’incarnazione, l’umanizzazione di Dio (cf. Gv 1,14), il quale ha voluto vivere dall’interno, in lui, la nostra umanità. Sì, Gesù è nostro fratello in umanità (cf. Eb 2,11): contemplare le sue emozioni, come ci vengono raccontate dai vangeli, significa conoscerlo meglio e, insieme, sentirlo vicino a noi nelle esperienze emotive che viviamo ogni giorno. Fino a comprendere che dalla nostra vita spirituale cristiana non possono essere escluse le emozioni umane. Al contrario, solo integrandole nel nostro rapporto con il Signore potremo andare a lui con tutta la pienezza della nostra persona.
    Dedichiamoci dunque a questo appassionante compito, suddividendo in due puntate l’analisi di come Gesù ha vissuto e affrontato le sei emozioni primarie di cui sopra.

    Gesù esultò di gioia nello Spirito
    Partiamo dalle due emozioni di segno positivo. O almeno, certamente lo è la prima: la gioia.
    La gioiosa notizia che è il Vangelo è racchiusa in una grande inclusione tra l’annuncio della “grande gioia (charà)” suscitata dalla nascita del Salvatore a Betlemme (cf. Lc 2,10-11) e la “grande gioia (charà)” esplosa all’alba del primo giorno dopo il sabato, il giorno della resurrezione (cf. Mt 28,8). E non a caso la prima parola rivolta da Gesù risorto alle donne accorse al sepolcro è: “Gioite! (chaírete)” (Mt 28,9).
    Nella sua vita, accanto a ore di tristezza – di cui ci occuperemo la prossima volta – Gesù ha conosciuto anche momenti di grande gioia. In un caso Luca parla addirittura di esultanza (verbo agalliáo). Al ritorno dei discepoli pieni di gioia per aver annunciato con frutto il Vangelo, Gesù “esultò di gioia nello Spirito santo e disse: ‘Ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e agli intellettuali, e le hai rivelate ai piccoli’” (Lc 10,21). Gesù trasale di gioia nello Spirito perché intuisce e comprende che i misteri del Regno – in definitiva di quel Regno che lui è in prima persona – sono rivelati dal Padre a persone semplici, a quanti cioè si lasciano ispirare e sanno accogliere la sua semplice novità. Per chi invece si sente saggio, per chi pensa di conoscere la verità, tutto è velato, nascosto…
    Ed è proprio per aver vissuto questa gioia profonda che Gesù può annunciarla ripetutamente. Al culmine delle beatitudini, paradossale annuncio di gioia secondo Dio, egli afferma: “Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Gioite ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli” (Mt 5,11-12; cf. Lc 6,22-23). Grande consolazione: tale ricompensa ha la sua caparra già nel nostro oggi. Nella misura in cui accogliamo le beatitudini, infatti, pur a caro prezzo possiamo sperimentare già qui e ora la felicità che consiste nel vivere come Gesù, nel vivere con lui.
    Per questo, in tutt’altro contesto, nel quarto vangelo, congedandosi dai suoi amici nei cosiddetti “discorsi d’addio”, Gesù insisterà a più riprese: “Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena” (Gv 15,9-11). Dall’esortazione si passa poi alla promessa, accompagnata dall’invito alla preghiera: “Ora siete nel dolore; ma vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno potrà togliervi la vostra gioia … In verità, in verità vi dico: se chiederete qualche cosa al Padre nel mio nome, egli ve la darà. Finora non avete chiesto nulla nel mio nome. Chiedete e otterrete, perché la vostra gioia sia piena” (Gv 16,22-24). E infine è lui stesso a pregare il Padre: “Ora io vengo a te e dico questo mentre sono nel mondo, perché abbiano in se stessi la pienezza della mia gioia” (Gv 17,13). Questo l’orizzonte che ci attende, radicati nella gioia di Gesù Cristo, con lui, per lui e in lui.

    Le parabole della gioia
    Annota il cardinale Gianfranco Ravasi:
    Luca è per eccellenza l’evangelista della gioia, nello spirito appunto dell’“evangelo” proclamato da Gesù che è la buona e festosa notizia della salvezza offerta da Dio. Si pensi che l’evangelista usa ben 5 verbi greci diversi per espimere la gioia in 27 passi del suo vangelo. Cristo è venuto a comunicare il lieto annunzio di liberazione, come egli afferma nel suo discorso programmatico della sinagoga di Nazaret (cf. Lc 4,17-19). I primi due capitoli dedicati all’infanzia di Gesù sono intarsiati di canti gioiosi di lode entrati nella liturgia cristiana, … mentre pieni di felicità sono coloro che vengono perdonati e salvati, nelle parabole della misericordia (cf. Lc 15).
    Ecco, proprio queste tre parabole – la pecora smarrita, la moneta perduta, il Padre misericordioso e i due figli – potrebbero essere a ragione definite anche “parabole della gioia”, vista la frequenza di questa parola nei commenti fatti da Gesù tra le varie storie raccontate: “Vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione … Vi è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte” (Lc 15,7.10). Rileggete con calma questi brani e vi renderete conto che le parole appena citate manifestano i sentimenti del cuore di Gesù, venuto per annunciare la gioia ai peccatori che si riconoscono tali e si sanno bisognosi di perdono… Lui che è venuto a dirci, con tutta la sua vita: “Entra nella gioia del tuo Signore” (Mt 25,21.23).
    Una gioia che – ricordiamolo – nel Nuovo Testamento può addirittura essere comandata dagli apostoli: “Rallegratevi, siate nella gioia!” (chaírete: 2Cor 13,11; Fil 2,18; 3,1; 4,4; 1Ts 5,16; cf. Rm 12,12.15; 1Cor 12,26). In quale senso? Perché la gioia profonda non è un sentimento, bensì uno stato da ricercare con impegno. È per l’appunto gioia “nel Signore” (Fil 4,4.10), in quanto gioia del Signore in primo luogo, del Dio che si rallegra e comunica la sua gioia ai suoi amati; e nel cristiano tale gioia nasce dall’essere “in Cristo”, dal sapere che Cristo vive in lui (cf. Gal 2,20). Davvero, come si legge in uno splendido passo biblico, “la gioia del Signore è la nostra forza” (cf. Ne 8,10).

    La stupita meraviglia di Gesù
    Lungo tutti i vangeli lo stupore è uno dei sentimenti più diffusi tra quanti entrano in relazione con Gesù, motivato dalla sapienza delle sue parole e dall’autorevolezza del suo agire. Così avviene per le folle, per i discepoli, per gli uomini religiosi, diverse volte anche per Pilato. È quello stupore che potrebbe essere riassunto in una domanda: “Chi è costui?”.
    Quanto a Gesù, conosciamo bene le sue attitudini di meraviglia e stupore di fronte alla bellezza del creato, che lo spingeva a contemplarlo e a creare poeticamente racconti e parabole. Ma solo due volte gli evangelisti attestano esplicitamente che egli si meraviglia (verbo thaumázo). La prima volta è Marco a dirci che, quando Gesù ormai adulto fa ritorno a Nazaret, il villaggio della Galilea in cui è cresciuto, la gente non riesce a capacitarsi che la sua sapienza e i prodigi dalle sue mani vengano proprio da lui, cresciuto in mezzo a loro. Perciò si domandano: “Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle, non stanno qui da noi?” (Mc 6,3). Sottinteso: “Cosa vuole? Perché dovrebbe avere una missione speciale?”.
    La risposta è l’inciampo, lo scandalo, l’incredulità. Gesù è costretto a reagire di conseguenza: “non vi poté fare alcuna opera potente, ma curò solo pochi malati imponendo loro le mani. E si meravigliava, si stupiva della loro mancanza di fede” (Mc 6,5-6). Grande insegnamento: se non mettiamo fiducia in Gesù, se non lo accogliamo così come si manifesta ma, al contrario, facciamo prevalere i nostri schemi “religiosi”, proiettandoli anche su di lui, lo rendiamo impotente. Senza ricevere da parte nostra fede-fiducia, Gesù non può fare nulla, non può mutare nulla nella nostra vita, e noi restiamo in una chiusura mortifera eppure all’apparenza così rassicurante. Beati noi se, invece, ci lasciamo inquietare da lui!
    Non è dunque un caso che la seconda volta in cui Gesù si stupisce sia, all’opposto, proprio a motivo di una manifestazione di fiducia (cf. Lc 7,1-10). Saputo del comportamento di un centurione romano, dunque di un pagano, che ama il suo servo e resta accanto a lui nell’ora della sofferenza, chiamato da lui Gesù fa quanto è in suo potere per aiutarlo, incamminandosi verso la sua casa. Mentre è per strada, il centurione manda però a dirgli: “Signore, non darti disturbo: non sono infatti in condizione di farti entrare sotto il mio tetto; per questo non mi sono neppure ritenuto degno di venire da te. Ma di’ una parola e il mio servo sarà guarito!” (Lc 7,6-7). L’evangelista commenta: “All’udire queste parole, Gesù si meravigliò/stupì di lui e, rivoltosi alla folla che lo seguiva, disse: ‘Vi dico che neppure in Israele ho trovato una fede così grande!’” (Lc 7,9).
    Non dimentichiamolo: Gesù sa discernere la fede o l’incredulità di chi incontra (ben al di là dell’appartenenza religiosa!), e da esse è toccato in profondità, fino a esserne stupito. A noi di aderire a lui con le nostre forze, di fidarci di lui, per gioire in lui e provare una stupita meraviglia a causa del paradosso della sua folle sapienza e della sua potente debolezza (cf. 1Cor 1,18-25). Anche a noi, infatti, egli non si stanca di chiedere ogni giorno, chiamandoci allo stupore: “Non avete letto questo passo della Scrittura: ‘La pietra che i costruttori hanno rigettato, proprio questa è stata posta a testata d’angolo; è opera del Signore questa ed è una meraviglia ai nostri occhi (Sal 118,22-23)’?” (Mc 12,11; cf. Mt 21,42).

    2. Tristezza, paura, rabbia e disgusto

    L’umanità di Gesù, narrazione del volto di Dio
    Proseguendo il nostro itinerario alla scoperta delle emozioni e dei sentimenti di Gesù, in questo secondo contributo ci dedichiamo a quelle a prima vista percepite come negative: tristezza, paura, rabbia e disgusto. In realtà si tratta di emozioni ambivalenti, come vedremo.
    Ci introduciamo a questo percorso con una splendida apertura di orizzonte disegnata da Bruno Maggioni:
    L’umanità di Gesù è la “trasparenza” del volto di Dio, non l’involucro che lo nasconde. I tratti umani di Gesù – la storia concreta e precisa che egli ha vissuto, le sue scelte, i suoi comportamenti e i suoi sentimenti – sono importanti non soltanto per conoscere l’uomo Gesù (in altre parole, se così posso dire, il lato umano della sua persona divina), né soltanto per conoscere il progetto di uomo che gli ci ha offerto, ma per conoscere – e non è un paradosso – il lato divino della sua persona. Non basta credere che Gesù è Messia e Figlio. Quale Messia? Quale Figlio? La novità del volto del Dio cristiano è rivelata dall’umanità di Gesù. Su questo punto i primi cristiani non avevano dubbi.

    Tristezza secondo Dio e secondo il mondo
    La tristezza è un sentimento ambivalente, come si legge in un passo di Paolo, avvio di una lunga tradizione spirituale: “La tristezza secondo Dio produce un pentimento irrevocabile che porta alla salvezza, mentre la tristezza secondo il mondo procura morte” (2Cor 7,10). Non è un caso che questa seconda forma di tristezza sia stata annoverata dalla tradizione cristiana orientale tra gli otto “pensieri malvagi” (da cui discendono i sette “peccati capitali” della tradizione occidentale): si tratta di quell’ombra che ci paralizza e ci deprime, spegnendo poco per volta in noi la voglia di vivere.
    D’altra parte esiste anche una tristezza buona: quell’afflizione dovuta alla sofferenza per la propria lontananza da Dio, che può condurre fino alla compunzione, al sentire il proprio cuore trafitto da Dio stesso che ci invita a ritornare a lui. A tale proposito, una sana tristezza può contenere tesori inattesi: ci insegna a riconoscere ciò che non è più ma un tempo ci ha resi felici; ci aiuta a divenire consapevoli delle nostre colpe, ammaestrandoci a discernere il bene dal male; ci rende umili, attestando che nella vita ci manca qualcosa e, nel contempo, ci rende disponibili a incontri non previsti, chiamandoci fuori dalla mortifera autosufficienza.
    Quanto a Gesù, la forma radicale di tristezza che egli ha sperimentato è stata quella della notte del Getsemani, quando, “preso da paura e angoscia” (cf. Mc 14,33 e par.), ha dovuto dare un senso alla sua fine ignominiosa. Egli ha lottato e vinto quella tristezza mediante un pieno abbandono alla volontà del Padre (cf. Mc 14,36 e par.), riuscendo a intravedere nella passione ormai prossima una logica di amore per Dio e per gli tutti gli umani. In tal modo ci ha insegnato che solo quando si percepisce che l’amore può essere la ragione del vivere e del morire, allora cessa la tristezza e si fa strada la beatitudine, la gioia profonda, dono dello Spirito santo (cf. Gal 5,22). Ma è interessante notare due particolari del racconto di Luca, che testimoniano la radicalità di tale tristezza: Gesù, in agonia, cioè nella lotta, è sconvolto così intensamente che il suo sudore assume la forma di gocce di sangue; i tre discepoli, poco distanti da lui, quasi per contagio sono “assopiti a causa della tristezza” (cf. Lc 22,44-45).
    Commenta con la solita intelligenza di fede Bruno Maggioni:
    Gesù non si è perso nella nostra tenebra, ma ha innalzato fino a sé la nostra angoscia. Ecco una rivelazione inattesa e capovolta: proprio questo uomo sbigottito è il Figlio di Dio. Non si è posti di fronte a un uomo che si manifesta con la gloria di Dio (come nell’episodio della trasfigurazione), ma a un Figlio di Dio che si manifesta nella debolezza dell’uomo. Tuttavia anche nel Getsemani Gesù manifesta di essere Figlio. Non però nei gesti della potenza, ma nel miracolo della obbedienza e della fede nuda, che anche nell’angoscia più profonda riconosce la paternità di Dio, invocandolo con confidente tenerezza: “Abbà”.
    Lungo tutta la sua vita Gesù ha sperimentato la tristezza anche di fronte al peccato della “durezza di cuore” dei suoi interlocutori, soprattutto gli uomini religiosi che lo avversavano e non lo comprendevano. Ma ci torneremo tra breve, poiché tale sentimento si fonde con quello della giusta collera…
    Infine, Gesù ha manifestato la sua vulnerabilità anche mediante quel linguaggio più eloquente di ogni parola che sono le lacrime. Come dimenticare che, alla notizia della morte del suo caro amico Lazzaro, “Gesù scoppia in pianto”, tanto che i presenti commentano: “Guarda come lo amava!” (Gv 11,35-36)? Non solo, alla vista di Gerusalemme, subito dopo il suo trionfale ingresso messianico, egli piange, lamentandosi del fatto che la città santa non abbia riconosciuto l’ora della sua visita: venuto per portarle la pace, egli è stato rigettato e crocifisso come un malfattore (cf. Lc 19,41-44).
    Comprendiamo dunque perché lo stesso Gesù abbia potuto coniare la paradossale beatitudine: “Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati” (Mt 5,4); “Beati voi, che ora piangete, perché riderete” (Lc 6,21). Si piange per la tristezza; si piange per l’ingiusta sofferenza; si piange per i propri peccati. Lacrime non inutili, ma raccolte da Dio in un otre (cf. Sal 56,9), perché lui stesso nel Regno porrà fine alla morte e a tutto ciò che contraddice la vita in pienezza, con un gesto semplicissimo e così carico di amore: asciugherà le lacrime da ogni volto (cf. Ap 21,4).

    Perché avete paura?
    Stando alla lettera dei vangeli, Gesù non ha mai propriamente sperimentato la paura (phobós/phobéomai, in greco). È ancora Maggioni a venirci in aiuto, mettendo in evidenza come, sempre nell’ora del Getsemani,
    si parla dell’angoscia di Gesù. Marco utilizza due verbi che denotano l’emozione più intensa possibile: ekthambéisthai e ademonéin. Il primo ha come significato base lo sbalordimento, che rende attoniti, impietriti e sconcertati, come quando qualche cosa di terribile accade di colpo davanti agli occhi; fissa soprattutto quel momento in cui per la sorpresa si resta come impietriti, incapaci di reagire. Il secondo verbo denota uno stato di grande ansietà, di irrequietezza e di angoscia. Smarrimento, angoscia e tristezza mortale: questi i tre sentimenti di Gesù.
    Pur in preda a tale sgomento, Gesù non cede però alla paura.
    Paura che, certamente, in alcuni casi può anche essere positiva, perché denota il giusto amore per sé e può essere il “carburante” del coraggio: per esempio, ci induce spontaneamente a difenderci dai pericoli di morte, a sottrarci a chi vuole compiere gesti violenti nei nostri confronti.
    D’altra parte, per tutte le Scritture la paura, in senso negativo, è la grande nemica della fede/fiducia. Fin dal giardino dell’in-principio, quando Adamo, alla voce di Dio che lo chiama nella brezza del giorno, chiedendogli: “Dove sei?” (Gen 3,9), risponde: “Ho avuto paura e mi sono nascosto” (Gen 3,10). Oltre ad avere come destinatari alcuni volti sbagliati di Dio, la paura è anche, in ultima analisi, paura della morte, definita da Giobbe “il re delle paure” (Gb 18,14). Sì, la morte è alla radice di ogni paura. Per questo, in un passo straordinario della Lettera agli Ebrei si legge che “Gesù mediante la sua morte ha ridotto all’impotenza colui che della morte ha il potere, cioè il diavolo, e così ha liberato quelli [noi!] che per paura della morte erano soggetti a schiavitù per tutta la vita” (Eb 2,14-15).
    Si comprende in tal senso il suo monito rivolto a numerose persone incontrate sul suo cammino: “Non avere paura, non abbiate paura!”. Eco delle stesse parole tante volte indirizzate da Dio a coloro con i quali è entrato in relazione di alleanza, da Abramo fino a Maria. L’atteggiamento di Gesù trova una sorta di sintesi definitiva in quella pagina straordinaria che consiglio di meditare a te che mi stai leggendo, chiunque tu sia e in qualsiasi momento della vita ti trovi: la cosiddetta “tempesta sedata” (cf. Mc 4,35-41 e par.). Al suo vertice, durante una notte difficile in cui in mezzo al mare la barca dei discepoli e di Gesù è travolta dalla burrasca, di fronte all’urlo stizzito dei suoi amici: “Maestro, non t’importa che siamo perduti?”, egli reagisce con due domande: “Perché avete paura? Non avete ancora fede?”. Ciascuno mediti, comprenda, risponda nel suo cuore…
    Non posso però esimermi dal notare come si concludeva la versione primitiva del vangelo secondo Marco, quello più antico. Nell’alba del primo giorno della settimana le donne discepole si recano al sepolcro per ungere il corpo di Gesù. Entrate nella tomba ormai vuota, “videro un giovane, seduto sulla destra, vestito d’una veste bianca, e furono prese dallo sgomento (verbo ekthambéomai)” (Mc 16,5). Sconvolte, le donne non sono in grado di accogliere l’annuncio di questo giovinetto: “Non vi sgomentate (verbo ekthambéomai)! Voi cercate Gesù Nazareno, il crocifisso. È risorto, non è qui. Ecco il luogo dove l’avevano posto” (Mc 16,6), né il successivo invito a portare la buona notizia della resurrezione a Pietro e agli altri discepoli (cf. Mc 16,7). No, “esse uscirono e fuggirono via dal sepolcro, piene di spavento e di stupore. E non dissero niente a nessuno, perché avevano paura (verbo phobéomai)” (Mc 16,8). Assordante silenzio, pietra tombale ben più pesante di quella appena rimossa dall’ingresso del sepolcro…
    Eccoci dunque di fronte alla domanda seria: siamo in grado di sconfiggere con la fede la paura, o almeno di lottare contro di essa? Ovvero: la nostra adesione fiduciosa a Gesù Cristo, vincitore della morte, cambia qualcosa nella nostra vita? In estrema sintesi, la lotta contro la paura ha come arma fondamentale ciò che è più forte anche dei nostri dubbi e della nostra incredulità, l’amore. “Forte come la morte è l’amore” (Ct 8,6), più forte della morte è stato l’amore vissuto e insegnato da Gesù, il quale ci ha aperto la strada per la vita eterna, in quella fiducia gioiosa, anche se a caro prezzo, che niente e nessuno ci potrà rapire. Ogni giorno la sua voce mormora nel cuore di chi si dispone ad accoglierla: “Coraggio, io sono la resurrezione e la vita, non avere paura!” (cf. Mc 6,50; Gv 11,25).

    Anche Gesù si arrabbia
    Anche la rabbia, l’ira su cui si apre la letteratura occidentale (“Cantami, o dea, l’ira del Pelide Achille”: Iliade I,1), è un’emozione ambivalente. Può essere uno dei peccati capitali: la collera che si nutre di risentimento, che cova dentro di sé come una rabbia sorda, fino a manifestarsi attraverso lo scoppio di atti di terribile violenza, volti a cancellare fisicamente l’altro. Più in profondità, il sentimento della collera è un male quando diviene una presenza costante nei nostri rapporti con gli altri; quando è il segno del disprezzo e dell’odio nei loro confronti. La collera è in tal caso la negazione dell’altro; è la contraddizione per eccellenza alla comunicazione e al dialogo; è il terreno su cui germina l’aggressività e si sviluppa la violenza. Essa corrisponde allora all’atteggiamento giudicato da Gesù alla stregua di un omicidio (cf. Mt 5,21-22).
    Esiste però anche una rabbia positiva, segno di quel giusto pathos che deve contraddistinguere il rapporto con gli altri e con la realtà, lungi dalla mortifera indifferenza: quando teniamo a qualcuno, lo manifestiamo anche adirandoci e litigando. Si tratta di una sorta di zelo, di impeto positivo che è necessario manifestare di fronte al male, all’ingiustizia, alla sofferenza delle vittime: è la collera “santa”, causata dall’amore. In questo senso, la Bibbia ci descrive la collera dei profeti di fronte allo stravolgimento del culto reso a Dio o di fronte all’ingiustizia (cf. Es 32,15-24; Ger 25,14-38); in questo senso si possono intendere i “Guai!” pronunciati da Gesù (cf. Mt 23,13-32: attenzione però, non si tratta di maledizioni!) o la rabbia che lo spinge a scacciare con decisione i venditori dal tempio (cf. Mc 11,15-19 e par.; Gv 2,13-17).
    Ma ci sono due situazioni paradigmatiche della “rabbia vitale” di Gesù. Anzitutto l’ira con cui reagisce alla vista di un uomo affetto da lebbra (cf. Mc 1,41: verbo orghízomai), malattia che a quei tempi costringeva a una vera e propria segregazione sociale. Egli va in collera ribellandosi contro il male, contro la situazione di intollerabile schiavitù che mina la dignità della persona e rende come morto l’essere umano. Di seguito purifica e guarisce quell’uomo (cf. Mc 1,42-46), ma non può non fremere per l’ingiustizia della sua condizione, muta preghiera che sale al cospetto di Dio.
    D’altra parte Gesù prova rabbia, a più riprese, per la “durezza di cuore” dei suoi interlocutori, sentimento di chiusura a Dio e alla vita, in nome dei propri schemi umani e religiosi. Così avviene nei confronti dei suoi discepoli, quando scacciano i bambini dalla sua presenza, credendo di interpretare il suo volere (cf. Mc 10,14). Ma soprattutto è il caso della rabbia verso alcuni uomini religiosi che, chiusi nell’osservanza legalistica del precetto del sabato, non vorrebbero che Gesù in sinagoga guarisse un uomo dalla mano paralizzata. Allora egli, “volge intorno lo sguardo su di loro con rabbia (orghé), rattristato (verbo syn-lupéomai) per la durezza del loro cuore” (Mc 3,5). E accompagna questo sguardo con una domanda semplicissima, che pure non cessa di metterci in questione: “È lecito in giorno di sabato fare il bene o fare il male, salvare una vita o ucciderla?”. Elementare, si direbbe. “Ma essi tacevano” (Mc 3,4). Perché? Perché pongono la legge religiosa al di sopra del bene dell’essere umano, della vita. Preferiscono mettere in cattiva luce Gesù piuttosto che riconoscere che ha ragione, cioè mettere in discussione ss stessi. In fondo, non riescono a fare spazio in sé all’alternativa secca prospettata da Gesù, per loro inconcepibile: non fare il bene possibile in favore dell’altro, significa ucciderlo!
    Non sarebbe dunque lecito arrabbiarsi di fronte a tale chiusura alla vita? Necessario, più che lecito. È così che potremo assumere anche il dis-gusto di Gesù, la sua capacità di reagire a ciò che è contrario al gusto, ossia allo stile di una vita pienamente divina perché pienamente umana. Cammino affascinante, quello per giungere ad “avere in noi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù” (cf. Fil 2,5), per tendere all’“uomo compiuto, alla statura della pienezza di Cristo” (Ef 4,13): cammino che ci chiede di assumere la coscienza dei suoi sentimenti, che sono anche i nostri.

    * * *

    BIBLIOGRAFIA MINIMA

    G. Barbaglio, Emozioni e sentimenti di Gesù, EDB, Bologna 2009.
    B. Maggioni, Era veramente uomo. Rivisitando la figura di Gesù nei vangeli, Àncora, Milano 2001.
    A. Miranda, I sentimenti di Gesù. I verba affectuum dei Vangeli nel loro contesto lessicale, EDB, Bologna 2006.
    G. Ravasi, Piccolo dizionario dei sentimenti. Amore, nostalgia e altre emozioni, Il Saggiatore, Milano 2019.

    (Fonte: CREDERE 36/2021
    Dossier su “Le emozioni e i sentimenti di Gesù”, settembre 2021)


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