Umanità e poesia

del personaggio Gelsomina

nel film di Federico Fellini: La strada


Lucio Coco

Di recente, nell’intervista a Dario E. Viganò, Papa Francesco è tornato a citare La strada e ha fatto riferimento al «percorso di Gelsomina che con la sua umiltà, con il suo sguardo pienamente limpido, riesce ad ammorbidire il cuore duro di un uomo che aveva dimenticato come si piange».
In una lettura spirituale di questa opera il teologo domenicano Guy Bedouelle aveva inserito il film tra quelli dove si affronta «il mistero della santità» (L’invisible du cinéma, 2006). Spesso infatti si è portati a credere che il santo sia un essere che cerca la perfezione di se stesso. Uno che a prezzo di rinunce e di sacrifici riesce a vincere ogni tentazione e a tener lontano ogni peccato, un essere che controlla tutte le sue passioni e per questo può aspirare al fregio dell’aureola. La strada ci parla invece di una santità altra che è sì rinuncia a se stessi ma è prima di tutto apertura all’altro.
Il santo è un «essere-per» prima di essere ogni altra cosa. La santità di Gelsomina non si misura sul suo essere una persona pura, una semplice, una povera in spirito (cfr. Matteo 5, 3), queste doti semmai potrebbero rivelarci la sua condizione di beatitudine che le fa affrontare la vita dal punto di vista difficile ad acquisirsi dell’umiltà.
La santità di Gelsomina si rivela nell’andare incontro all’altro anche a costo di rompere, di frantumare questo suo mondo interiore, a costo di infrangerne la struttura con il rischio di perdersi, di smarrirsi e di non sopravvivere all’impatto e all’urto: una forma di martirio senza carnefici che indica la complessa e ardua strada della santità. Il santo intuisce che è lì, su quella frontiera, che si decide la sua vita. Tutto il viaggio fatto prima sono solo tappe di avvicinamento, non c’è niente di eroico o di straordinario ai suoi occhi. La strada diventa veramente strada là dove essa materialmente cessa e ci si incammina in un oltre non segnalato, non indicato dove si combatte la lotta più dura quella con se stessi per raggiungere e salvare l’altro.
Gelsomina percorre con Zampanò diverse miglia. Sono tante le tappe del suo viaggio. Soffre per i suoi rifiuti, per la durezza del suo cuore. Continuamente si fa avanti con una offerta gratuita di amore e continuamente subisce il rifiuto, l’incomprensione, la crudeltà dell’altro. Nella dinamica dei sentimenti c’è sempre uno squilibrio di questo tipo: nel rapporto a due c’è sempre la persona più forte e quella più debole e la più debole è quella che ama più generosamente senza un calcolo e senza riserve. Gelsomina sconta ogni momento la sua dedizione, il suo servizio, il suo darsi all’altro, il suo essere-per-l’altro. Il suo viaggio prosegue così: stare vicino a qualcuno, servirlo, amarlo. Non chiedere niente, non fare confronti, ma essere concentrati su questa cura a costo di tutto, di essere trattati male, respinti, umiliati. Sarebbe materia sufficiente questa per farne un personaggio esemplare, per indicare virtù e qualità.
Ma se il viaggio si fermasse qui, se la strada si interrompesse qui, si potrebbe pensare che Gelsomina ha poco da insegnarci. Noi non siamo così, non ci sentiamo così. Prendiamo atto di questa sua follia che la lega quasi masochisticamente a una persona che la fa solo soffrire. La strada non può essere questa. La strada deve per forza indicare un percorso comune dove, non dico tutti, ma molti possono andare. Altrimenti è un sentiero, qualcosa di interrotto e vago che non porta in nessun luogo se conduce a uno solo o a pochissimi.
La prova di Gelsomina comincia dopo, con l’incontro con il Matto, l’acrobata che passa la sua vita su una fune sospeso per aria. E proprio dove il percorso della donna sta per finire — lei infatti se ne vuole andare perché nella sua semplicità si è accorta dello scompenso, dello squilibrio della relazione con Zampanò — il Matto le indica un’altra direzione che non è quella della sua disperazione. «Io non servo a nessuno… Ecco, mi sono stufata di vivere», aveva detto lei e si era sentita rispondere dal funambolo che anche un sasso ha un significato e un senso a questo mondo e «se questo è inutile allora è inutile tutto, anche le stelle». Il Matto le rivela così il mistero del senso («E anche tu, Gelsomina, servi a qualcosa, tu, con la tua testa di carciofo») e le conferma che il suo posto è lì accanto a Zampanò perché non è lo stesso che lei stia accanto a lui o a un altro.
L’amore è un sentimento che si nutre di unicità, non ammette la pluralità e la molteplicità semplicemente perché non sarebbe più amore. L’amore conosce solo l’uno. L’amore vuole che continuamente ci sforziamo fino a fare violenza a noi stessi per recuperare questo rapporto, per salvarne l’autenticità a condizione che se ne rispetti l’unicità. Gelsomina sente tutto questo e vede, dopo quelle parole, la possibilità che altra strada si aggiunga a quella, faticosa e dura, già percorsa. Il Matto le ha indicato un senso, le ha rivelato un perché. E lei adesso, che si sente di nuovo capace di sopportare ogni cosa, è pronta a tollerare ogni come. Si tratta di un cammino umano che ancora non comprende, o perlomeno non si spinge alla santità come orizzonte e meta. Gelsomina non sa che per realizzare questo senso sarebbe dovuta giungere fino al sacrificio di se stessa, al suo martirio. Lei capisce soltanto che il suo posto è ancora accanto a Zampanò. Lei si sente necessaria in quel posto perché in fondo fin dall’inizio aveva intuito che Zampanò aveva bisogno di lei. Il suo abbandono avrebbe significato smarrire insieme con l’altro anche il senso di sé.
Ma a quale prezzo questa sua fedeltà deve realizzarsi? Due episodi, il furto nel convento e l’uccisione preterintenzionale del Matto, mettono violentemente Gelsomina nel suo dramma. Fin qui lei aveva sempre sopportato. La sua capacità era stata quella di incassare. Stavolta deve togliersi del suo. Stare con Zampanò significava perdere parti di se stessa. È l’inizio del suo martirio. Amare fino all’assurdo per salvare l’altro. Nel film questo sacrificio ha una gradazione: con le suore del monastero si era trattato di un perdere la fiducia e tradire le religiose facendosi complice del ladro di arredi sacri; nel caso della morte del Matto, non è lei che va a fare scudo con il suo corpo per salvarlo dai pugni e dalle botte feroci di Zampanò. Non è lì il martirio. Il suo martirio avviene quando per rimanere fedele alla prova che le era stata data (stare vicino a Zampanò) sceglie di consumarsi e di lasciarsi morire.
L’ultimo tratto della «strada» lo fa da solo Zampanò. Il suo pianto sulla spiaggia e il suo sguardo al cielo stellato, cinque anni dopo, significano che i semi di Gelsomina erano maturati in lui. Il miracolo di Gelsomina è la conversione del cuore, le lacrime del pentimento dell’uomo che sgorgano dal fondo della sua anima fino ad allora insensibile e dura come una pietra. È questo il fiore che sboccia nel finale amaro del film. La santità di Gelsomina si misura su questo ultimo atto, su quanto di buono è riuscita a mettere con il suo amore nel cuore dell’altro.

(L’Osservatore Romano, 30 luglio 2021)