Le origini della società contemporanea

La favola delle api

di Mandeville

Carlo Sini *


Nel 1705 un olandese di trentacinque anni vendeva agli angoli delle strade di Londra una breve favola in versi che si intitolava L’alveare scontento, ovvero i furfanti resi onesti. Il tono e le tesi paradossali del poemetto ebbero rapida e straordinaria fortuna, nonostante lo scandalo delle argomentazioni o forse proprio per quello. L’autore, Bernard de Mandeville, era quel che si dice un bel tipo. Nato a Rotterdam nel 1670, laureato in filosofia e medicina a Leida, si trasferì a Londra nel 1699, dove prese casa, si sposò e cominciò a esercitare la professione medica con successo.

Nel 1714 il dottor Mandeville pubblicò una nuova versione del suo componimento, col titolo La favola delle api, ovvero vizi privati e pubblici benefici e allora la faccenda da scherzosa si fece seria. Il libro, subito ristampato e ripubblicato con varie aggiunte e appendici sino al 1733 e oltre, sollevò un immenso scandalo e accuse pubbliche da parte delle autorità e dei cittadini cosiddetti onesti.
L’autore, che era di fatto uno scrittore molto colto e brillante, se ne difese con altre opere e scritti di morale, di religione e con analisi, oggi diremmo, sociologiche, come gli Scritti sulla prostituzione e sulle impiccagioni del 1725. Ma che cosa c’era di così sconvolgente nelle tesi di Mandeville? Ricordo in sintesi il contenuto delle tre parti di cui si compone la Favola. La prima, “L’alveare florido”, si può riassumere con le parole stesse del suo autore: «Ogni parte era piena di vizio, ma il tutto era un paradiso». I vizi che caratterizzavano il vivere e l’agire di tutti generavano però straordinari benefici: ecco l’incredibile tesi.
Il teatro di questa tesi è, palesemente, la Londra del primo ‘700 (Locke era morto nel 1704, Newton morirà nel 1727), cioè una delle prime grandi metropoli dell’età moderna, considerata alle origini della rivoluzione manifatturiera, mercantile e industriale. La prima causa della sua fortuna è infatti la presenza di una gran massa di individui, che si sforzano di favorire e di sfruttare a proprio vantaggio, dice Mandeville, la concupiscenza, la vanità e gli interessi degli altri. Produttori di beni innumerevoli e consumatori assidui dei medesimi, essi diffondono automaticamente una vita varia, volubile, appagante, piena di vizi e di lussi. Con un po’ di fortuna, tutti possono in teoria aver successo, sfruttando le ricchezze ereditarie di pochi, ma per raggiungerlo devono abbandonare ogni scrupolo e farsi (l’elenco è di Mandeville) truffatori, ruffiani, parassiti, giocatori, ladri, falsari, ciarlatani e indovini. Chi non ne è capace va a infoltire la gran massa dei disperati che consumano una vita dedita ai mestieri più duri, faticosi e logoranti.
Nessuna professione, nessun mestiere è peraltro privo di trucchi e di inganni. La bella e fiorente società è in realtà una congrega di lestofanti, di ipocriti e di profittatori: medici (evidentemente se ne intendeva), avvocati, commercianti, preti; per non parlare della corte sovrana: ministri e funzionari; quindi giudici e poliziotti; infine i militari... In breve, «ogni parte era piena di vizio, ma il tutto era un paradiso», appunto, perché non c’era al mondo città più florida, più ricca e più potente. Questa alleanza tra vizio e virtù è, secondo Mandeville, l’essenza stessa dell’arte politica nonché il fondamento dell’economia e dell’industria. I ladri e gli assassini danno lavoro ai poliziotti, ai giudici e al boia, per non parlare delle chiavi, delle catene, dei lucchetti, della costruzione delle prigioni. E così persino il «vizio strano e ridicolo della moda, la più stupida e fatua delle passioni»: essa era come una ruota che fa muovere il gran commercio dei vestiti, delle calzature, degli ornamenti, degli arredamenti, appetiti da una folla di vanitosi preoccupati più di ciò che si mettono in testa che di ciò che vi sia dentro.
Lette oggi, le considerazioni di Mandeville sono straordinariamente acute. Molto prima di Smith e della società propriamente industriale, egli coglie, in una società manifatturiera e mercantile, la grande differenza tra la vita in piccole comunità assediate dalla povertà e dai disagi della natura e la vita concentrata nelle sempre più popolose metropoli. Nelle prime le virtù dell’onestà, dell’aiuto reciproco, della preoccupazione per la comunità sono indispensabili alla sopravvivenza; nelle seconde tutto il contrario: ognuno pensa agli affari che lo riguardano e si mette in relazione con gli altri non per condividere i loro fini, ma i propri. L’egoismo regna sovrano, ma l’effetto è una grande ricchezza collettiva di opportunità e di beni.
Di essa certo i cittadini godono con grandi disparità economiche: pochi divengono molto ricchi, i più sono poveri e tali devono rimanere, per incrementare la produzione dei beni di lusso, il lavoro dipendente e il commercio.
Mandeville, molto in anticipo sulle fandonie moralistiche del liberismo otto-novecentesco, per esempio a partire dalla immaginaria provvidenza economica inventata da Smith, non racconta la favola che nella società capitalistica alla fine tutti diventeranno ragionevolmente ricchi; dice però, e in questo manifesta di nuovo la sua modernità, che anche i poveri della società industriale, caratterizzata da immense disparità economiche e gravi ingiustizie, vivono nondimeno in essa con più conforti degli stessi ricchi delle società preindustriali di un tempo, chiusi nei loro gelidi castelli.
Tutti però, si dice dunque nella Favola, scandalizzati per i vizi altrui e insieme ciechi nei confronti dei propri, levano grandi clamori, sino a spingere Giove a prendere provvedimenti: di colpo tutte le api sono liberate dal vizio e colmate di virtù. Ecco allora la seconda parte del racconto: “L’alveare decaduto”.
Il prezzo della carne al mercato ribassa immediatamente di molto. Debitori e creditori gareggiano in generosità, i primi a pagare, i secondi, benevoli, a dimenticare. Gli avvocati restano senza clienti e senza cause.
Le carceri chiudono, i giudici, le guardie e il boia vanno in pensione. I preti abbandonano la tradizionale lussuria e aiutano davvero i poveri; i funzionari ministeriali lavorano assiduamente e, per conseguenza, si riducono molto di numero. I ricchi rinunciano a possedere immense terre e grandi palazzi, e perciò crolla il prezzo dei latifondi e delle case: architetti, artigiani, scalpellini perdono il lavoro.
Chi va al ristorante, guarda il conto e giura di non tornarci più. La moglie dell’oste deve rinunciare al suo bel corredo di abiti alla moda. Tutte le prelibatezze dell’Oriente, mobili, monili, tessuti d’oro e d’argento fatti arrivare dalle Indie, non interessano più nessuno.
Commercianti e armatori vanno in malora con le loro navi e i loro mercati.
Insomma, l’alveare diviene sempre più povero, minacciato dai nemici esterni e impossibilitato a difendersi. I pochissimi che ancora sopravvivono abbandonano infine la città in rovina e si rifugiano nel cavo di un albero: onesti sì, ma poverissimi. In sostanza la metafora di Mandeville è chiara: le api residue regrediscono dalla civiltà e dalla cultura alla pura vita naturale. Curioso annuncio (e inversione) delle future tesi di Rousseau: il buon selvaggio congiunge, in natura, miseria e virtù, se vuoi la ricchezza ti devi aprire contemporaneamente al vizio e alla corruzione.
La terza parte della Favola enuncia la morale conclusiva. Vivere nell’agio e nella potenza senza fare spazio anche a grandi vizi è una inutile utopia che si aggira nelle nostre teste. Frode, lusso, orgoglio, prepotenza, ingiustizia devono prosperare, almeno fino a un certo punto, se desideriamo anche i vantaggi che involontariamente essi producono. Il vizio, sfrondato e contenuto dall’esercizio di una politica accorta, diviene benefico. Se un popolo vuole essere grande il vizio gli è necessario quanto la fame, per avere un gran numero di solerti lavoratori salariati. Chi vuole tornare alla mitica età dell’oro deve tenersi pronto per l’onestà come per le ghiande (secondo la favola platonica di una società originaria priva di vizi e di ingiustizie, la cui povera dieta è rappresentata appunto dalle ghiande per i porci).
La visione di Mandeville è aspra, amara, a suo modo realistica. Disegna una società dove convivono molteplicità di interessi, di fini e di valori. Essi generano comportamenti altamente individualistici, indifferenti a valori comuni e condivisi. In una società complessa non è necessario il senso di appartenenza morale alla comunità: basta e avanza la cooperazione rivolta esclusivamente al proprio personale interesse. Persino l’agire delittuoso e asociale promuove, nonostante tutto, il benessere di altre parti della popolazione. È vero infatti che in una società complessa non vi è coincidenza tra bene privato e bene pubblico. Si può essere generosi e delicati con i propri ospiti in salotto e spietati e inflessibili, in ufficio, con i concorrenti dei nostri pubblici affari. Comportamenti che non sono né gradevoli né apprezzabili negli individui, sono invece utili per l’insieme della società, o almeno così sostiene Mandeville, nemico efficace del moralismo astratto e dell’ipocrisia borghese.
Resta il fatto, però, che la sua mancanza di senso storico non può essere taciuta. In realtà è proprio la società complessa che fa lievitare e ingigantisce le differenze tra ricchi e poveri, imponendo ai più i fini di pochi o addirittura di pochissimi. Questa non è una condizione naturale, come Mandeville, che realisticamente la comprende e la descrive, sembra credere. Nella società complessa partorita dalla navigazione degli della tecnica e delle conoscenze, dalla tratta degli schiavi (vero e proprio indispensabile volano perché potesse innescarsi in Europa l’accumulazione primaria, generatrice della società capitalistica), dalla creazione del denaro moderno e della Borsa, si crea una condizione di morte certa per coloro che non accettino, facendo di necessità virtù, di vendere la loro naturale forza lavoro a coloro che sono in grado di comprarla. Solo così, ponendo la propria sventurata vita a vantaggio di quella di pochi altri avventurati, essi eviteranno, neppure sempre o per lo più, la fame e la morte.
Dalla struttura mercantile del mondo di Mandeville alla società industriale moderna si sviluppa indubbiamente quella “ricchezza delle nazioni” di cui parleranno già Shaftesbury (1671-1713), Adam Smith (1723-1790) e molti altri ancora. Merito perenne di Mandeville è di averne coraggiosamente denunciato i lati oscuri e le conseguenze drammatiche per molti, aiutandoci a ravvisare alcuni dei pregiudizi della economia liberistica: una teoria tuttora fiorente negli Stati Uniti e non solo, dove addirittura i neoconservatori attuali (ricordo per tutti Michael Novak) pretendono di assimilare ai loro fini la morale tradizionale del cristianesimo cattolico. Resta nondimeno da chiedersi se sarà mai possibile collegare concretamente in futuro e rendere compatibili giustizia sociale e sviluppo, uguaglianza ed efficienza, interesse pubblico e opportunità individuali. Tito Magri, studioso di Mandeville e brillante traduttore della sua Favola, ha ragione di osservare che questo è il dilemma che nasce in Mandeville e che è ancora con noi, e soprattutto davanti a noi.

Riferimenti bibliografici
Borghesi, M., Francesco. La Chiesa tra ideologia teocon e “ospedale da campo”, Jaca Book, Milano 2021.
Mandeville, B. de, La favola delle api, a cura di T. Magri, Laterza, Roma-Bari 2002.
Novak, M., Lo spirito del capitalismo democratico e il cristianesimo, Edizioni Studium, Roma 1987.
Papi, F., Mandeville, il lusso e la crisi economica, in “Il Protagora”, gennaio-giugno 2010, pp. 171-6.
Sini, C., Del viver bene. Filosofia ed economia, Jaca Book, Milano 2015.
Stiglitz, J., La globalizzazione e i suoi oppositori, Einaudi, Torino 2002.

* Socio nazionale dell’Accademia dei Lincei

(FONTE: Notiziario della Banca popolare di Sondrio n. 145 - aprile 2021)