Rileggendo l’enciclica di Francesco

Fratelli tutti: ricchi e poveri 

Roberto Ruozi *

 

Uno dei principali problemi sollevati nell’enciclica Fratelli tutti di Papa Francesco è quello dei rapporti fra ricchi e poveri, punto nevralgico della fratellanza umana, già trattato in precedenti scritti del pontefice, che nell’enciclica sono riassunti in un corpo unitario. 
Uno di questi aspetti riguarda la funzione sociale della proprietà, la quale dovrebbe garantire che ogni persona viva con dignità e abbia opportunità adeguate al suo sviluppo integrale. Il problema è stato posto da Gesù, come narrano i Vangeli, ed è stato attuato dalle prime comunità cristiane, nelle quali i beni venivano messi e utilizzati in comune. Il principio che stava a monte di questo comportamento era che – come dice Papa Francesco – «se qualcuno non ha il necessario per vivere con dignità è perché un altro se ne sta appropriando». In proposito cita San Giovanni Crisostomo, secondo cui «non dare ai poveri parte dei loro beni è rubare ai poveri, è privarli della stessa loro vita; e quanto possediamo non è nostro, ma loro». Cita anche San Gregorio Magno, il quale ha scritto che «quando distribuiamo agli indigenti qualunque cosa, non elargiamo roba nostra, ma restituiamo loro ciò che ad essi appartiene».
I beni e le cose di cui si tratta sono spesso frutto dell’attività di imprenditori che dovrebbero mirare a produrre ricchezza e a migliorare il mondo possibilmente per tutti.
A questo fine è necessario che le loro capacità siano orientate anche al progresso delle altre persone e al superamento della miseria, specialmente – dice ancora Papa Francesco – attraverso la creazione di opportunità di lavoro diversificate.
Le opinioni del papa non possono non essere condivise dal mondo cattolico, molti problemi del quale sorgono proprio perché i rapporti fra i ricchi e i poveri non sono sempre quelli indicati da Gesù soprattutto nei Vangeli di Luca e di Marco. Quando un tale chiese al Salvatore che cosa avrebbe dovuto fare per avere la vita eterna gli venne risposto che non soltanto avrebbe dovuto osservare i comandamenti, ma anche vendere quello che aveva e darlo ai poveri, concetto che è stato ribadito anche nel Vangelo di Matteo.
In realtà, le idee di Papa Francesco non dovrebbero essere condivise solo dai cattolici, ma anche da coloro che praticano altre religioni e pure da quelli che non credono in Dio. Il problema dell’uguaglianza fra gli uomini, che passa necessariamente attraverso determinati tipi di rapporti fra ricchi e poveri, è infatti generale, come del resto molti altri aspetti trattati nell’enciclica in esame.
Le cose cambiano se si passa all’attuazione pratica di una redistribuzione della ricchezza mirante ad una certa uguaglianza degli uomini e delle donne. Essa infatti non è un’impresa facile tanto è vero che, facendo ancora riferimento ai Vangeli di Luca e di Marco – ma anche a quello di Matteo – è molto difficile che i ricchi vi partecipino attivamente. Luca ricorda addirittura che Gesù disse: «È più facile che un cammello entri nella cruna di un ago che un ricco entri nel Regno dei Cieli».
A questo proposito mi pare tuttavia utile sottolineare che i brani evangelici sui ricchi sono stati elaborati in un’epoca in cui le grandi ricchezze erano accumulate più con la forza e la sopraffazione che con la laboriosità di chi le deteneva. In questo senso i ricchi si appropriavano di beni che avrebbero dovuto essere dei poveri. Con il passare dei secoli il mondo è profondamente cambiato ed oggi buona parte dei ricchi, specie quella rappresentata dagli imprenditori, agisce e produce in modo molto diverso e quindi le loro ricchezze sono differenti da quelle che avevano in mente gli estensori dei testi prima citati. C’è in sostanza ricchezza e ricchezza e giudicare l’una e l’altra in modo uguale è sbagliato.
Con questa avvertenza ricordo che Luca è l’evangelista che più degli altri ha trattato il problema dei ricchi e dei poveri, iniziando con le note affermazioni «beati i poveri» e «ma guai a voi, ricchi», premessa cruciale per capire le relazioni che dovrebbero essere instaurate fra gli uni e gli altri. A questo fine invita a vendere ciò che si ha per darlo in elemosina, primo basilare concetto della redistribuzione della ricchezza di cui tratterò successivamente, complementare a quello con il quale Gesù conferma che «chiunque di voi non rinunzia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo». Anche la descrizione del rapporto fra un uomo ricco e il povero mendicante Lazzaro, quando si incontrano in vita e nell’aldilà, illustra bene i rapporti che il Signore vorrebbe fossero instaurati tra i ricchi e i meno abbienti. Come esempio virtuoso di un rapporto del genere Luca ricorda Zaccheo, che diede la metà dei suoi averi ai poveri. Riporta infine il caso dei ricchi che gettarono le loro offerte nel tesoro del tempio e quello di una povera vedova che vi gettò due spiccioli e che Gesù ammirò molto perché aveva messo più degli altri offrendo tutto quanto aveva per vivere. E come sintesi di quanto precede, Luca riporta questa affermazione di Gesù: «Guardatevi e tenetevi lontani da ogni cupidigia, perché anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende dai suoi beni». Del resto Matteo ricorda che è proprio ai poveri che è stata annunciata la buona novella.
Nonostante tutte le suddette difficoltà, nelle prime comunità cristiane una volontaria redistribuzione della ricchezza sembra essere stata possibile, come ci ricorda ancora Luca, questa volta negli Atti degli Apostoli.
Bisogna rilevare che si trattava di comunità piuttosto omogenee dal punto di vista spirituale e materiale, poco numerose e con i membri che si conoscevano tutti piuttosto bene. In esse era facile distinguere i ricchi dai poveri, le differenze fra i quali erano meno pronunciate di oggi ed era facile per i ricchi sapere come redistribuire i loro patrimoni ai meno abbienti. In questo modo, scrive Luca, non vi era nessun bisognoso fra di loro perché quando possedevano terreni o case li vendevano e poi, preso il prezzo delle cose vendute, lo deponevano ai piedi degli apostoli che lo distribuivano a ciascuno secondo il suo bisogno. L’evangelista ricorda anche, sempre negli Atti degli Apostoli, che quando, sotto l’imperatore Claudio, ci fu una grande carestia i discepoli decisero di inviare, ciascuno secondo le proprie disponibilità, soccorsi ai fratelli che si trovavano nella Giudea.
Faccio queste considerazioni per cercare di far capire come difficilmente le idee di Papa Francesco potrebbero essere oggi tradotte in pratica in un mondo in cui le caratteristiche delle singole persone e della società di cui fanno parte e quelle degli ambienti in cui tali persone vivono sono diverse da quelle dei primi secoli dell’era cristiana.
Preciso peraltro che il papa non ha la pretesa di convincere tutti a seguire i suoi comandamenti a questo riguardo, ma mira a fissare un principio valido per tutti e che tutti quindi dovrebbero seguire, sapendo che poi ciascuno farà quello che vorrà.
Fra le differenze suddette ricordo che la popolazione mondiale è oggi pari a quasi 8 miliardi di persone, di cui poco più di 2,3 miliardi sono cristiane. Questo immenso universo è diverso da molteplici punti di vista e anche i rapporti fra ricchi e poveri si pongono in maniera molto differente nei singoli continenti, nei singoli Paesi che li compongono e, all’interno di ciascun Paese, fra i diversi territori che ne fanno parte. Lo stesso concetto di ricchi e di poveri – che è difficile definire in modo preciso nonostante tutte le metodologie che sono state inventate in argomento e che ci costringe quindi a darlo per scontato anche se scontato non lo è affatto – è peraltro cambiato nel corso dei secoli. Anche il limite al di là del quale si presume che si passi dalla ricchezza alla povertà è mutato in termini assoluti e relativi ed è quindi sempre più difficile identificare chi dovrebbe in qualche modo disfarsi dei propri beni per devolverli ai più bisognosi.
Quel che è certo è che, specie negli ultimi decenni, la ricchezza del mondo si è progressivamente concentrata nelle mani di nuclei sempre più ristretti della popolazione. Il numero dei ricchi in verità aumenta in termini assoluti, ma si riduce in termini relativi. La percentuale del numero dei ricchi rispetto a quello dei poveri, infatti, diminuisce, ma il valore totale dei patrimoni dei primi sul valore totale del patrimonio della popolazione del globo continua a salire.
In sostanza – secondo Oxfam, una confederazione internazionale di organizzazioni no profit dedicate alla povertà globale – le 2.153 persone più ricche del mondo posseggono oggi più di quanto posseggono altri 4,6 miliardi di persone. In sostanza l’1,2% più ricco detiene più del doppio della ricchezza dei circa 8 miliardi di individui. Il 50% più povero ne possiede invece globalmente meno dell’1%. In Italia il 20% più ricco possiede circa il 70% della ricchezza nazionale.
Questi dati possono dare una primissima idea del fenomeno in esame, recentemente analizzato in modo approfondito dal World Inequality Database – commentato in anteprima da Thomas Piketty su Le Monde del 15/11/2020 – dal quale emerge l’estrema complessità delle ineguaglianze fra la popolazione del globo. Le prime e più importanti impressioni che se ne trarrebbero sono, da un lato, l’estrema diffusione del problema, che esiste in tutti i 173 Paesi esaminati e, dall’altro lato, l’enorme eterogeneità delle situazioni nazionali, che si accompagnerebbero anche a non indifferenti disomogeneità fra le relative zone territoriali.
Queste considerazioni, peraltro, non impediscono una trattazione generale del problema, che deve essere interpretato e gestito in modo consono alle singole situazioni.
In ogni caso tutti i dati citati dimostrano in modo inequivocabile che una redistribuzione anche solo parziale e una tantum della ricchezza sarebbe in grado di migliorare la situazione dei poveri, anche se forse più in un’ottica di breve periodo che non nel lungo termine, orizzonte sul quale si dovrebbe misurare il miglioramento o il peggioramento della vera fratellanza umana.
Tornando invece anche ai soli dati sintetici prima esposti, essi non abbisognano di particolari commenti anche se, da un lato, dimostrano che il problema della redistribuzione della ricchezza è più che serio e, dall’altro lato, lasciano capire che, come si è anticipato qualche riga fa, esso non è semplice. È sicuro che trattarlo a livello mondiale, cercando cioè soluzioni pratiche che possano riguardare l’intero pianeta, non ha alcun senso. A questo livello può essere posto il problema nei suoi aspetti teorici, spirituali, morali, religiosi e via dicendo, ma ci si ferma lì, il che non sarebbe tuttavia irrilevante se la condivisione della soluzione per esso trovata dalla dottrina cristiana riuscisse a far capire al mondo che la stessa convivenza pacifica fra le persone potrà essere assicurata solo se le idee egualitarie in esame diventeranno patrimonio di tutti o di quasi tutti. Su questo aspetto del problema si era del resto assai ben espresso Papa Paolo VI nella rivoluzionaria enciclica Populorum Progressio del 1967, la quale interpretò in modo nuovo per l’epoca il rapporto fra il mondo industrializzato e quelli che allora si chiamavano i Paesi sottosviluppati, modo ante litteram di trattare le relazioni fra ricchi e poveri. In particolare, la grande intuizione di Paolo VI fu quella di cercar di far capire che solo un deciso e stabile sviluppo economico globale, specialmente quello dei Paesi più poveri, sarebbe stato in grado di ridurre la povertà.
Nel mondo di oggi è meno facile identificare i ricchi e i poveri, quale che sia la definizione che di essi si vuole adottare. È anche molto difficile mettere in contatto gli uni con gli altri a livello globale. Il contatto potrebbe invece essere più facile quando riguardasse singoli individui delle due classi. Mi spiego meglio. Una persona ricca, che volesse distribuire a favore dei poveri tutto o parte del proprio patrimonio, non avrebbe difficoltà nell’identificare potenziali beneficiari con i quali entrare in contatto direttamente. Se preferisse, potrebbe anche avvalersi di un intermediario, ad esempio costituendo una fondazione, come hanno effettivamente fatto negli anni recenti anche molti noti personaggi del mondo dell’economia e della finanza.
Il problema che si pone è tuttavia un altro.
A che cosa servirebbero a quei poveri le ricchezze loro distribuite? Con ogni probabilità servirebbero ad alimentare i loro consumi, partendo da quelli elementari che per definizione, riguardando i poveri, dovrebbero essere in buona parte al di sotto dei livelli di sussistenza.
Se così fosse, nel breve termine la vita di quei poveri – a parità di altre condizioni – migliorerebbe sicuramente. Ma per quanto? Per il tempo necessario a che il rapporto fra il valore della ricchezza distribuita e il bisogno di consumi consenta ai poveri di raggiungere livelli di vita dignitosi. L’effetto distributivo una tantum, anche se consistente, rimarrebbe quindi limitato nel tempo e, prima o poi, svanirebbe e la situazione di quei poveri tornerebbe simile a quella che era prima della redistribuzione.
Affinché le cose vadano diversamente occorrerebbe che i beneficiari non consumassero tutto ciò che ricevono, ma ne risparmiassero almeno una parte e possibilmente la facessero fruttare per generare autonomi flussi di reddito. A questo fine occorrerebbe sia la possibilità di effettuare tali accantonamenti, realizzabili solo se per arrivare ai livelli prima citati non fosse necessario bruciare tutta la ricchezza ricevuta, sia la capacità/volontà di fare fruttare ciò che non è stato speso, il che è ancor più difficile. Salvo rarissime eccezioni, chi vive in condizioni di povertà ha infatti modeste dosi di professionalità, limitate competenze economiche, non possiede alcuno spirito imprenditoriale e non sa che cosa sia la propensione al risparmio. Prospettiva ben diversa potrebbe configurarsi se la distribuzione non fosse solo una tantum, ma avvenisse gradualmente e ripetutamente nel corso del tempo, con il pericolo tuttavia che, così facendo, le risorse dei ricchi, diventati nel frattempo meno abbienti, si possano prima o poi esaurire, a meno che essi potessero ugualmente continuare a produrle.
Ho già detto che le redistribuzioni una tantum avrebbero un probabile effetto di aumento dei consumi, che potrebbe essere assai utile per la ripresa e lo sviluppo economico.
Bisogna tuttavia considerare che le masse monetarie distribuite sarebbero in larga parte e in un primo tempo il frutto della vendita di attività finanziarie, componente essenziale del patrimonio dei donatori. Questo potrebbe avere conseguenze pesanti sui mercati finanziari e soprattutto sul corso dei prezzi dei valori mobiliari, il che provocherebbe una distruzione di ricchezza con conseguenze negative sullo sviluppo economico con essa finanziato e quindi anche sulle sue performance future. Non è facile sapere se tale distruzione di ricchezza sarebbe superiore o inferiore al suo aumento connesso con l’incremento dei consumi dovuto alla redistribuzione, ma il problema comunque c’è e complica ulteriormente le cose.
Venendo ancora alla redistribuzione della ricchezza fra ricchi e poveri, essa potrebbe tuttavia avvenire, anche in altre forme, in un certo senso segnalate pure nell’enciclica quando dice che le «capacità degli imprenditori (evidentemente ritenuti ricchi), che sono dono di Dio, dovrebbero essere orientate chiaramente al progresso delle altre persone (cioè dei poveri) e al superamento della miseria, specialmente attraverso la creazione di opportunità di lavoro diversificate».
Tale affermazione può essere interpretata in vari modi, uno dei quali potrebbe essere il seguente. L’azienda di un imprenditore ha dei costi, dei ricavi e, se le cose vanno bene, produce un utile. Fra i costi vi sono quelli connessi con il pagamento dei salari ai lavoratori impiegati in quell’azienda. A parità di altre condizioni, è evidente che più alti sono i costi del lavoro più bassi sono gli utili e che per aumentare questi ultimi occorrerebbe abbassare i primi. Volendo considerare la redistribuzione della ricchezza non in termini statici, come quelli esaminati in precedenza – consistenti infatti in una redistribuzione di ricchezza che dopo la stessa distribuzione sparisce dalle tasche dei ricchi per finire in quelle dei poveri, con il che il ciclo è chiuso – bensì in termini dinamici, le cose cambierebbero radicalmente. Ipotizziamo infatti che l’imprenditore decida di rinunciare ad una parte dei suoi utili (componenti di una ricchezza che rimarrebbe comunque nelle sue mani e che sarebbe indispensabile per proseguirne nel corso del tempo la distribuzione a persone bisognose) per darli ad altri non facendo un’operazione statica come quella vista prima, ma decidendo di aumentare i costi della sua azienda e, in particolare, i costi del lavoro assumendo nuovi lavoratori poveri per i quali quei salari potrebbero soddisfare in modo durevole totale o parziale i bisogni di sostentamento. L’operazione potrebbe essere interessante soprattutto se i nuovi assunti contribuissero ad aumentare la produzione aziendale. Potrebbe infatti accadere che gli utili aziendali, con l’apporto dei nuovi assunti, a loro volta aumentassero, instaurando un circolo virtuoso di cui beneficerebbero ricchi e poveri insieme.
La descrizione di questi eventi non è solo un esercizio teorico, ma rispecchia tanti casi accaduti nel corso degli anni anche nel nostro Paese. Le persone ricche che hanno deciso di distribuire agli aventi bisogno, nelle forme tecniche più disparate ma anche direttamente, tutte o (più frequentemente) parte delle proprie ricchezze o dei propri redditi sono state in effetti molte. E si sono addirittura moltiplicate proprio in questi tempi in cui la solidarietà umana ha consentito a molti poveri di affrontare e superare almeno parzialmente le nuove difficoltà create dalla pandemia. Questo dimostra come il senso di fratellanza aumenti nei momenti in cui il bisogno è più forte. Alcune delle persone di cui prima parlavo hanno comunque proceduto a redistribuire le loro ricchezze durante la loro vita attiva. Altre lo hanno fatto in previsione della loro morte, specie attraverso la forma testamentaria.
Queste redistribuzioni sono quindi indiscutibilmente utili sia per i donatori, che interpretano meglio il loro ruolo di veri cristiani, sia per i beneficiari, i quali ottengono in quel modo ciò che altrimenti non potrebbero mai avere e con cui potrebbero uscire dallo stato di bisogno in cui si trovano. È invece vero che esse non hanno mai raggiunto una dimensione tale da far cambiare le cose al di fuori dei ridotti contesti locali in cui i singoli eventi sono accaduti. Sulle cose del mondo hanno inciso molto poco, come hanno inciso poco anche a livello dei singoli Paesi in cui tali eventi si sono prodotti.
La distribuzione geografica dei ricchi e dei poveri dimostra peraltro che le distribuzioni in questione avvengono soprattutto laddove la ricchezza è maggiore e la povertà è meno grave e dove quindi l’incidenza di tale distribuzione sui rapporti fra gli uni e gli altri è minore. Ciò nonostante esse sono ugualmente benvenute e utili, ripeto, sia per i donatori sia per i beneficiari.
Per incidere più significativamente in argomento, a parità di condizioni e soprattutto a parità di disponibilità individuali dei ricchi a redistribuire tutte o parte delle loro sostanze ai poveri, occorre quindi organizzare molto più efficientemente ed efficacemente il tutto. Occorre cioè che le singole iniziative private siano inquadrate in programmi di più ampia dimensione e soprattutto siano affiancate da meccanismi redistributivi di altra natura, coinvolgenti tutti o quasi tutti i cittadini di un determinato Paese.
Passando ad una dimensione nazionale, le iniziative locali spontanee e individuali potrebbero comunque continuare, ma potrebbero avere un impatto maggiore se fossero affiancate da un intermediario che a quel livello si ponesse tra i ricchi e i poveri e intervenisse per originare e governare i flussi di ricchezza da trasferire dagli uni agli altri. I fondi da distribuire sarebbero essenzialmente rappresentati da denaro mentre la relativa erogazione ai beneficiari potrebbe avvenire sia in denaro sia in servizi di varia natura.
L’unico organismo/istituzione in grado di svolgere questa funzione è lo Stato, il quale peraltro già la svolge quasi dappertutto, seppure in modo non organico, insieme a tante altre funzioni che i governanti pongono tuttavia malauguratamente più in alto nella scala delle loro priorità.
La funzione in esame è delicata, tecnicamente complessa e possibile oggetto di usi distorti nonché di frodi di varia natura, per la cui effettuazione non si può escludere il negativo coinvolgimento di persone facenti parte dell’apparato statale. Anche gli aspetti tecnici, che esigerebbero una macchina amministrativa efficiente, non sempre potrebbero essere affrontati in modo adeguato dalla suddetta macchina statale, notoriamente piuttosto farraginosa. Molti quindi potrebbero pensare che lo Stato, pur essendo un protagonista ideale di primo piano nei processi di redistribuzione della ricchezza fra ricchi e poveri, non sarebbe in grado di svolgere in modo soddisfacente tale funzione. Le preoccupazioni sono sensate, ma due considerazioni possono essere fatte al proposito: nonostante tutto non ci sono alternative serie e concrete e non è affatto impossibile che l’efficienza della macchina statale possa essere migliorata, pure con il sempre più diffuso utilizzo di tecnologie avanzate, che potrebbero anche ridurre le possibilità di distorsione prima ricordate. Penso quindi che dobbiamo essere relativamente ottimisti e passiamo quindi a vedere che cosa si potrebbe fare.
Prima di entrare nel merito della questione voglio tuttavia ricordare che a monte di essa lo Stato dovrebbe preoccuparsi di eliminare o ridurre i comportamenti degli operatori economici più forti, che potrebbero schiacciare quelli più deboli. In verità, lo Stato cerca di far questo già da anni attraverso normative sul mercato del lavoro, sulla tutela dei consumatori, sulla disciplina della concorrenza, sul riconoscimento di codici etici e via dicendo. Questi interventi, oltre a sollevare i dubbi esaminati poc’anzi, in larga parte non sono tuttavia sempre ben finalizzati e soprattutto sono poco coordinati, facendo perdere efficacia alle singole misure.
L’azione redistributiva della ricchezza nazionale oggi effettuata dallo Stato è quindi disorganica. Con questo intendo dire che manca una diagnosi precisa ed esauriente dei fabbisogni e delle possibilità di redistribuzione e che, conseguentemente, manca un piano per realizzare quest’ultima in modo sistematico nel medio/lungo periodo. Nella pratica, almeno finora, la ricchezza viene comunque, in parte variabile secondo una serie di elementi, trasferita dalle casse delle persone ricche alle casse dello Stato, il quale la distribuisce ai meno abbienti sia in denaro sia mediante la fornitura di servizi, come l’istruzione, la sanità, i trasporti, la casa, la sicurezza e via dicendo. È interessante notare come questo fenomeno sia diventato ancora più importante del solito quest’anno, sotto la spinta degli effetti che il Coronavirus e le misure adottate per combatterlo hanno prodotto sull’economia e sulla società italiana. In questo periodo sono state infatti effettuate o potenziate, come vedremo fra un attimo, alcune redistribuzioni eccezionali non solo per aiutare i meno abbienti, ma anche per sostenere coloro che, pur non essendolo, potrebbero diventarlo se le loro attività e quindi le loro fonti di reddito fossero ridotte o annullate dalle misure prima accennate.
A parte questi esempi specifici, in termini generali lo Stato potrebbe/dovrebbe intervenire dunque normalmente e continuativamente come sostituto dell’iniziativa privata, con risorse prelevate dai ricchi per garantire, come auspica Papa Francesco, che ogni persona viva con dignità e abbia opportunità adeguate al suo sviluppo integrale.
Va da sé che i risultati di queste azioni statali dipenderebbero dalla consistenza della ricchezza trasferibile e da quella dei bisogni dei meno abbienti, dall’effettivo importo distribuito e dall’efficacia dei metodi di trasferimento. In ogni caso, è il solo intervento realistico con cui si può cercare di risolvere, con possibilità di successo, un problema che non ha alcuna possibilità di essere risolto su base volontaria da coloro che potrebbero trasmettere direttamente ai più bisognosi tutta o parte della propria ricchezza. La storia lo ha dimostrato testimoniando quindi che quanto auspicato da Papa Francesco ha un’indiscussa validità generale, ma nella pratica viene messo in opera da gruppi isolati di persone e risolve solo un’infinitesima parte dei problemi della povertà.
Non tutto è comunque così semplice come potrebbe sembrare a prima vista, almeno per la complessità della macchina che dovrebbe gestire la redistribuzione, la selezione dei beneficiari, il controllo dell’utilizzo dei fondi e dei servizi di cui questi usufruirebbero, gli effetti della redistribuzione, la durata degli interventi e via dicendo. Meno difficile è la selezione dei ricchi, che può essere trattata con adeguate norme fiscali, le quali in un Paese come il nostro prevedono, ad esempio, già un’aliquota di tassazione progressiva che si estrinseca soprattutto nel senso che è più alta nei redditi maggiori e scende via via che essi diminuiscono.
Quanto al già accennato problema della durata dell’intervento, essa dovrebbe essere commisurata al periodo necessario affinché il beneficiario possa uscire dalla situazione di povertà in cui si trova. A questo fine il sistema di redistribuzione e le relative politiche non dovrebbero rimanere isolati rispetto alle altre iniziative che lo Stato conduce in campo economico e sociale, le quali andrebbero definite in modo integrato. Il problema è che qualsiasi politica di redistribuzione che si proponesse obiettivi ambiziosi dovrebbe essere accompagnata da interventi volti a modificare l’ambiente materiale e culturale in cui i poveri vivono in modo da consentire loro di procurarsi autonomamente, dopo aver ricevuto i primi aiuti, i mezzi per diventare autosufficienti e non avere quindi più bisogno dell’intervento statale.
I due problemi accennati sono emersi chiaramente in questo periodo, in cui il governo ha varato alcuni programmi di intervento redistributivo. Si tratta in particolare del reddito di cittadinanza e del reddito di emergenza. Del primo beneficiano ormai 3,4 milioni di persone e del secondo circa 700.000, cifre molto consistenti che – secondo una recente indagine della Banca d’Italia – consentono ai beneficiari del reddito di cittadinanza di incassare 535 euro mensili e a quelli del reddito di emergenza 558 euro mensili. Nel complesso si tratta di interventi che hanno contribuito ad abbassare nel 2019 l’indice di povertà assoluta del nostro Paese, che era stato in crescita nei precedenti quattro anni. Ne hanno beneficiato in particolare i cittadini del Mezzogiorno, il cui indice di povertà assoluta è sceso per la prima volta al di sotto del 10%.
I cosiddetti ricchi, che con il pagamento delle imposte avrebbero dovuto finanziare l’operazione, non se ne sono nemmeno accorti.
Essa è infatti avvenuta soprattutto mediante l’impiego di un importo di risorse fiscali dello Stato pressoché uguale a quello speso con destinazioni diverse negli anni precedenti.
I problemi quindi sono altri e, in particolare, consistono in alcuni difetti dei provvedimenti in questione, come ad esempio quelli rappresentati dal fatto che trascurano proprio le famiglie che ne avrebbero più bisogno e che non tengono adeguatamente conto del numero di persone che costituiscono i singoli nuclei familiari e il tipo di lavoro (e quindi di reddito) che essi svolgono, dalle carenze nelle assegnazioni dei sussidi e dall’inesistente controllo del loro utilizzo, che ha permesso una serie di frodi e di abusi intollerabili.
Non voglio tuttavia entrare nel merito tecnico della questione perché, tutto sommato, nel discorso molto generale che sto facendo la tecnica è relativamente marginale.
Mi sembra importante invece segnalare che nessuno dei due provvedimenti ha previsto azioni collaterali miranti a consentire ai beneficiari di aumentare autonomamente i loro redditi specialmente attraverso il lavoro.
In verità azioni di quel tipo erano state previste nelle norme sul reddito di cittadinanza, ma esse non sono state adeguatamente organizzate e gestite e non hanno dato alcun risultato concreto. Nulla era invece previsto nelle norme sul reddito di emergenza. Inoltre, i provvedimenti in questione, prevedendo interventi con durata molto breve, non sono in grado di risolvere in termini durevoli il problema esistenziale dei poveri. Del resto, se avessero una durata più lunga, dimostrerebbero i limiti del loro impatto e verrebbero a codificare una massa di poveri cronici sussidiati, che si presterebbe anche a comportamenti non in linea con gli obiettivi del sistema di redistribuzione di cui essi hanno beneficiato.
Tali errori non sono giustificabili e in ogni caso i provvedimenti qui considerati avrebbero avuto maggior senso se fossero stati inquadrati in più ampi progetti di sviluppo economico e sociale del Paese. Anche questo tuttavia non è accaduto.
Fra parentesi ricordo che i progetti in questione non richiedono una trattazione diffusa. Ne voglio tuttavia citare almeno uno che sta a monte del problema generale della riduzione della povertà e che potrebbe essere complementare alle azioni di redistribuzione qui trattate.
Il progetto che desidero sottoporre all’attenzione del lettore parte dal presupposto che la povertà economica – su cui ho concentrato l’attenzione in queste note – è strettamente legata alla povertà educativa. Le due si alimentano reciprocamente e si trasmettono di generazione in generazione. Il problema viene da lontano e riguarda infatti anche i minori, vittime non solo di cattive situazioni economiche ma anche di fenomeni emotivi, sociali e relazionali, collegati a loro volta ad un difficile inserimento nel mondo della scuola e dell’educazione in generale. Un’iniziativa che vede l’azione congiunta di Stato e istituzioni private, come fondazioni di origine bancaria e organismi del terzo settore, ha dato vita ad un Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile, il cui obiettivo è quello di dare «sostegno a interventi sperimentali di natura molto varia finalizzati a rimuovere gli ostacoli di natura economica, sociale e culturale che impediscono la piena fruizione dei processi educativi dei minori». Il Fondo ha già investito alcune centinaia di milioni di euro e ha coinvolto oltre mezzo milione di bambini e ragazzi, mobilitando direttamente più di 6.600 organizzazioni.
Perché cito questo progetto? Lo cito perché con tutta evidenza si tratta di un primo passo verso la lotta alla povertà, passo che parte dal basso con la prospettiva di migliorare la situazione dei bambini e dei ragazzi bisognosi e conseguentemente quella delle loro famiglie a mano a mano che gli anni passano, mettendoli in grado di meglio affrontare le difficoltà nelle quali molti di essi si dibattono senza grandi speranze di uscirne con le loro sole forze.
A questo proposito devo tuttavia fare una precisazione molto importante, che avrei forse dovuto segnalare anche prima.
Finora ho infatti parlato della povertà quasi esclusivamente nei suoi aspetti economici, mentre il concetto di povertà – anche nel pensiero di Papa Francesco – è molto più ampio e si allarga, ad esempio, a quello di dignità della persona e del suo allineamento sociale, culturale e professionale a quello degli uomini e delle donne che hanno la fortuna di essere più ricchi. Il pontefice si riferisce soprattutto al lavoro, come strumento per raggiungere la dignità e l’allineamento appena citati. In realtà, il problema è ancor più ampio e la sua soluzione passa per una serie di decisioni private e soprattutto pubbliche che si possono avere solo se esse sono poste al vertice della scala delle priorità sociali e politiche.
Se si riuscisse a risolvere anche solo parzialmente la questione della povertà economica, a prescindere quindi da tutti gli altri aspetti della stessa povertà, si sarebbe compiuto comunque un grande passo in avanti e, quindi, su questa strada sarebbe opportuno andare avanti con grande convinzione.
Del resto, l’eliminazione o la riduzione sostanziale della povertà economica sono basi pressoché indispensabili per rendere proficue le altre azioni che potrebbero essere svolte, specie dallo Stato, per combattere la povertà nel senso più ampio del termine.
Purtroppo anche l’iniziativa prima ricordata, che va esattamente nel senso più utile alla soluzione generale del problema della povertà, è sostanzialmente isolata, più o meno come quella degli altri interventi statali che mirano a sussidiare alcune categorie di imprenditori particolarmente colpiti dal Coronavirus. Qui non si tratta di poveri, bensì di persone che, con la chiusura forzata delle loro attività imprenditoriali, potrebbero diventarlo anche a scadenza non lontana. Tali interventi dovrebbero quindi avere un valore preventivo e non mirerebbero, come quelli prima esaminati, a porre rimedio all’odierna povertà. Si è trattato di sussidi una tantum che dovrebbero servire a compensare in tutto o in parte i danni provocati a tali imprenditori dalla suddetta temporanea chiusura forzata delle loro attività, ma che non influiranno in alcun modo sul futuro di quest’ultima una volta che potesse essere ripresa. I problemi dei suddetti imprenditori hanno infatti avuto natura eccezionale e temporanea, ma sono sorti purtroppo anche nell’ambito di una crisi strutturale delle loro aziende. Le difficoltà di molti di quegli imprenditori non si risolveranno quindi con la fine della pandemia e delle misure prese per combatterla.
I profondi cambiamenti che allora saranno stati prodotti anche dalla stessa pandemia sulle caratteristiche della loro attività e, più in generale, dall’evoluzione della domanda dei consumatori prodotta dal Coronavirus diventeranno per molti di loro letali se non riusciranno a ristrutturare e a riconvertire le loro aziende, per la qual cosa avrebbero bisogno di mezzi finanziari che non è detto posseggano. I loro problemi non possono quindi essere risolti da interventi sporadici come quello prima citato.
Queste conclusioni confermano quanto Papa Francesco ha detto nell’enciclica oggetto di queste note. Ad un certo punto egli dice infatti che «i piani assistenziali [come quelli descritti in precedenza con specifico riferimento al nostro Paese], che fanno fronte ad alcune urgenze, si dovrebbero considerare solo come risposte provvisorie». E precisa ancora che «aiutare i poveri con il denaro deve essere sempre un rimedio provvisorio per far fronte alle emergenze. Il vero obiettivo dovrebbe sempre essere di consentire loro una vita degna mediante il lavoro».
Questo obiettivo non è facile da raggiungere e impone proprio la predisposizione di una serie di interventi a monte insieme a quelli di redistribuzione monetaria. Ciò al fine di fornire contemporaneamente ai poveri gli strumenti necessari per accedere più facilmente al mercato del lavoro e agli imprenditori di guardare al lavoro con vedute più ampie di quella della minimizzazione dei costi aziendali, sul modello dell’esempio citato nelle pagine precedenti, e allo Stato di favorire le une e le altre iniziative con tutti gli strumenti di cui dispone, fra i quali assumono maggior peso le politiche dell’istruzione, della sanità e della casa insieme alla politica economica e fiscale. Un insieme coordinato, nel quale possono benissimo entrare anche le redistribuzioni di ricchezza effettuate tramite spostamenti di denaro, utilizzabili temporaneamente per far fronte a determinate esigenze, che potrebbe mutare nel corso del tempo le sorti dei poveri e dovrebbe comunque adattarsi ai cambiamenti delle loro esigenze e delle circostanze in cui vivono.
Quanto finora detto dimostra quindi che la redistribuzione della ricchezza tra ricchi e poveri e la promozione di questi ultimi verso il mercato del lavoro, gestite dallo Stato, sono possibili. La questione è quindi quella di metterle al centro della politica governativa, di migliorarne l’organizzazione e di dar loro stabilità, anche se il problema è complesso e quindi non facilmente risolvibile.
Inoltre si tratta di un problema antico, ma che in questo momento è più grave che mai soprattutto nei Paesi avanzati come il nostro.
La crisi dovuta al Coronavirus sta infatti esasperando le ineguaglianze di reddito e le persone più deboli stanno soffrendo molto più delle altre. I titolari dei redditi più modesti sono infatti più legati ai settori economici maggiormente toccati dalla crisi, anche perché hanno minori difese sanitarie e svolgono lavori che non possono essere effettuati a distanza. La redistribuzione sta conseguentemente diventando sempre più necessaria e quella effettuata dallo Stato, che finora in Italia non ha coinvolto la fiscalità e le relative entrate del Tesoro, dovrà probabilmente essere rivista se si vorrà disporre delle risorse necessarie per far giungere ai meno abbienti i mezzi che possano farli uscire dal disagio in cui si trovano.
Capisco che queste ultime considerazioni possano preoccupare e che potranno essere difficilmente condivise da governi che non combattono efficacemente l’evasione fiscale e che considerano la riduzione delle imposte come uno dei loro più popolari cavalli di battaglia, ma è difficile che le maggiori risorse prima citate possano essere finanziate solo dall’indebitamento. Una riforma fiscale orientata anche al problema oggetto di questo articolo oggi sembra quindi indispensabile.
Ma non voglio entrare in questo difficile terreno, sul quale peraltro dovremo muoverci con grande attenzione, e concludo dicendo che le parole del papa e quelle contenute nelle fonti che le ispirano sono sacrosante. Esse possono convertire e convincere alcuni, ma nella pratica continueranno purtroppo ad essere ignorate dai più anche se il problema della povertà, come lascia ben intendere Papa Francesco, non può essere trascinato per le lunghe. Tale atteggiamento molto diffuso nel mondo, del resto, non è una novità. Già nel Vangelo, infatti, si dimostra implicitamente che i ricchi capiscono il problema, ma la grande maggioranza di loro non ha la forza/volontà di risolverlo e perciò questo non solo rende problematico l’accesso di costoro alla vita eterna, ma lascia irrisolta la questione della fratellanza fra i ricchi e i poveri, vera bomba innescata nella società odierna e in buona parte all’origine di quel malessere diffuso nella gente che provoca anche episodi tragici e drammatici.
Occorre quindi prendere atto che la limitata efficacia pratica degli ideali di Fratelli tutti riguarda il mondo intero e perciò i cattolici, coloro che abbracciano altre religioni e gli atei. Bisogna anche cercar di vedere se il fine che essi intendono perseguire può essere raggiunto in altro modo, ad esempio proprio con gli accennati specifici e programmati interventi statali e con quelli più strutturali che dovrebbero accompagnarli. Questa strada è imposta dall’alto e non ha nulla a che fare – salvo l’identità del fine – con iniziative individuali volontarie. Se però anch’essa fosse in grado, come dovrebbe, di raggiungere almeno parzialmente l’uguaglianza degli uomini e delle donne, alla quale la Chiesa tiene in modo particolare, sarebbe comunque benvenuta. Anche qui tuttavia bisogna distinguere analizzando le decisioni che lo Stato, e per esso il governo, dovrebbe prendere nei singoli Paesi e capire se esse sono adottate in un contesto democratico in cui lo stesso governo è espressione della volontà popolare, che si esprime secondo il principio della rappresentatività delle diverse opinioni dei cittadini, o da un regime dittatoriale che impone la propria volontà a prescindere dalle opinioni della gente. Comunque, anche a questo proposito occorre essere realisti e prendere atto, anche quando non lo si condivide, di quanto accade nel mondo. Per certi versi ci si può rifare al pensiero di Niccolò Machiavelli sintetizzato nella frase «il fine giustifica i mezzi».
Ne consegue che Papa Francesco dovrebbe rivolgersi anche e soprattutto ai governanti di tutto il mondo affinché facciano propri, nei termini che ritengono più opportuni, ma senza perdita di tempo, gli ideali di fratellanza e le vie da seguire affinché la stessa fratellanza non rimanga solo un principio teorico ma si traduca in fatti concreti.
È molto probabile che il papa in questo appello non si troverebbe isolato. Del resto, del problema si occupano già da tempo non solo alcuni governi particolarmente lungimiranti, ma anche diverse organizzazioni internazionali, con in testa l’Onu.
Il problema si è fortemente acuito in seguito alla pandemia, che non solo ha accentuato le già citate differenze fra le persone ricche e povere, ma anche quelle fra i Paesi ricchi e poveri. Come occorrerebbe restringere o eliminare le prime sarebbe quindi necessario restringere o eliminare anche le seconde. Oltretutto, se non si avesse una redistribuzione di ricchezza fra Paesi ricchi e poveri e la redistribuzione della ricchezza all’interno di questi ultimi, che costituisce il problema più grande nell’ambito del discorso fatto nell’enciclica e commentato in queste pagine, non potrebbe non solo essere risolto, ma neppure seriamente affrontato.
Con la buona volontà in ogni caso è indubbio che le azioni che gli Stati potrebbero intraprendere in materia non solo al loro interno, ma anche nelle sedi internazionali bilaterali o multilaterali, dovrebbero non difficilmente dare risultati, evidentemente con contenuti e intensità diversi, che sarebbero comunque benvenuti, così come benvenuti continuerebbero ad essere anche tutti gli interventi volontari di questo o quel ricco che decidesse di condividere le proprie sostanze con questo o quel povero.
L’importante è non illudersi. La povertà è purtroppo un fenomeno impossibile da eliminare, come del resto è stato detto anche da Gesù nel Vangelo di Marco, in particolare, e anche in quello di Giovanni. Marco racconta che quando il Salvatore si trovò a mensa in Betània nella casa di Simone il lebbroso, una donna ruppe un vasetto di alabastro e gli versò sul capo l’unguento in esso contenuto.
Alcuni dei presenti si sdegnarono e dissero che era stato sprecato un olio prezioso, che avrebbe potuto essere venduto e che avrebbe potuto fornire denari da dare ai poveri.
Gesù rispose che la donna aveva compiuto un’opera buona perché egli non avrebbe potuto essere sempre con loro, mentre i poveri li avrebbero sempre accompagnati.
I poveri quindi ci saranno sempre, ma disinteressarsi di loro e non combattere – in termini spirituali e materiali – per cercare di migliorare la loro esistenza non è giustificabile.
Il papa non lo dice esplicitamente, ma di questo concetto è permeata tutta la sua ultima enciclica.

* Professore emerito dell’Università “L. Bocconi” di Milano

(FONTE: Notiziario della Banca popolare di Sondrio n. 145 - aprile 2021)