L’emergenza educativa
Pascual Chávez Villanueva [1]
«Oggi, in realtà, ogni opera di educazione sembra diventare sempre più ardua e precaria. Si parla perciò di una grande “emergenza educativa”, della crescente difficoltà che s’incontra nel trasmettere alle nuove generazioni i valori-base dell’esistenza e di un retto comportamento, difficoltà che coinvolge sia la scuola sia la famiglia e si può dire ogni altro organismo che si prefigga scopi educativi. Possiamo aggiungere che si tratta di un’emergenza inevitabile». Le parole di papa Benedetto XVI, pronunciate in occasione del discorso alla diocesi di Roma giugno 2007, costituiscono una forte provocazione ad affrontare un tema che spesso si rimanda volentieri per le difficoltà che comporta.
Tuttavia, si deve dire che è da millenni che - anche se con parole diverse - si parla della difficoltà di educare e delle sfide che essa comporta. Basta ricordare 4 citazioni sull’educazione lungo la storia:
1. “La nostra gioventù ama il lusso è maleducata, si burla dell’autorità e non ha alcun rispetto degli anziani. I bambini di oggi sono dei tiranni, non si alzano quando un vecchio entra in una stanza e rispondono male ai genitori. In una parola sono cattivi” (Socrate 450 a.C.).
2. “Non c’è più alcuna speranza per l’avvenire del nostro paese se la gioventù di oggi prenderà il potere domani, poiché questa gioventù è insopportabile, senza ritegno, terribile” (Esiodo 720 a.C).
3. “Il nostro mondo ha raggiunto uno stadio critico, i ragazzi non ascoltano più i loro genitori. La fine del mondo non può essere lontana” (Un sacerdote dell’antico Egitto 2000 a.C.).
4. “Questa gioventù è marcia nel profondo del cuore. I giovani di oggi sono maligni e pigri. Non saranno mai come la gioventù di una volta. Quelli di oggi non saranno capaci di mantenere la nostra cultura” (Incisione su un vaso di argilla nell’antica Babilonia 3000 a.C.).
Tutto questo per dire che ogni epoca ha le sue emergenze educative. Sappiamo che anche don Bosco si è significativamente misurato con le sfide educative del suo tempo, inventando soluzioni creative e innovative, come hanno fatto tutti i grandi educatori nel corso dei secoli, convinti che si può trasformare il mondo e la storia attraverso l’educazione.
Oggi è dunque normale che si parli in molte sedi di emergenza educativa, in riferimento alla crisi morale e sociale, alle esigenze della globalizzazione, ad un rincorrersi di dinamismi sempre più veloci a causa del gigantesco sviluppo scientifico e tecnologico, in cui si modifica il rapporto con lo spazio e con il tempo. Gli stessi documenti degli organismi internazionali (UNESCO, OCSE, UE) che si occupano di educazione individuano alcuni punti di attenzione ritenuti ineludibili. Il lavoro degli educatori ed insegnanti non può collocarsi fuori da tale panorama, anche se non è pensabile che ciascuno - da solo - possa portare il peso di tali emergenze. Il problema è che spesso le chiavi di lettura (i paradigmi pedagogici) per inserirsi in quella che viene definita società della conoscenza sono a loro volta di tipo “funzionalistico” ... e corrono il rischio di rendere ancora più profonda l’emergenza educativa. Cogliere la sfida educativa ad occhi aperti non significa abbandonarsi alla sterile lamentazione, ma lasciarsi “sfidare” dalle difficoltà per rilanciare con speranza, visto che la speranza è l’anima dell’educazione. Educare è sempre un atto di speranza, perché genera cultura.
A questo punto, non è difficile vedere le grandi sfide che la situazione odierna, sociale, economica, culturale, politica, religiosa, presenta all’educazione, e come questa abbia un ruolo importante per venire incontro alle esigenze della umanità e del futuro.
Tutto questo fa sì che l’educazione debba partire dalla realtà che, a modo di palcoscenico, abitano i giovani di oggi, e che i progetti educativi debbano essere più rispondenti a tutte le dimensioni della persona e non solo all’adempimento di un curriculum scolare o delle grandi tendenze all’invenzione, l’innovazione, la connettività, l’intelligenza artificiale e la realtà virtuale. E quando parlo di educazione non parlo solo di scuola, ma di tutto quanto in famiglia, nella società e nello stato dovrebbe aiutare a porre i giovani nella posizione giusta per la loro crescita personale in tutte le loro dimensioni, per lo sviluppo dei loro talenti e il raggiungimento della loro vocazione o sogno. Insomma, in educazione o tutto educa o tutto diseduca. Da qui il bisogno di un patto educativo!
Al recupero di una formazione umana integrale
Nel suo libro Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica Martha C. Nusbbaum[2] dice che assistiamo oggi a una crisi strisciante, di enormi proporzioni e di portata globale, tanto più inosservata quanto più dannosa per il futuro della democrazia: la crisi dell’istruzione. Sedotti dall’imperativo della crescita economica e dalle logiche contabili a breve termine, molti paesi infliggono pesanti tagli agli studi umanistici ed artistici a favore di abilità tecniche e conoscenze pratico-scientifiche. E così, consapevoli che il mondo è cambiato profondamente dovuto al grandissimo sviluppo scientifico e tecnico, ritengono decisamente che ciò che il mondo necessita non sono persone che interpretino la realtà ma persone che la facciano funzionare. Ma ciò che capita - e coloro che hanno a che vedere con l’educazione delle nuove generazioni lo sanno per esperienza propria - è che mentre il mondo si fa più grande e complesso, gli strumenti per capirlo si fanno più poveri e rudimentali; mentre l’innovazione chiede intelligenze flessibili, aperte e creative, l’istruzione si ripiega su poche nozioni stereotipate. Non si tratta di difendere una presunta superiorità della cultura classica su quella scientifica, bensì di mantenere l’accesso a quella conoscenza che nutre la libertà di pensiero e di parola, l’autonomia del giudizio, la forza dell’immaginazione come altrettante precondizioni per una umanità matura e responsabile, in altre parole la formazione della persona, del cittadino, del professionale.
“Ci troviamo – scrive la Nussbaum – nel bel mezzo di una crisi di proporzioni inedite e di portata globale. Non mi riferisco alla crisi economica che è iniziata nel 2008… Mi riferisco invece a una crisi che passa inosservata, che lavora in silenzio, come un cancro; una crisi destinata ad essere, in prospettiva, ben più dannosa per il futuro della democrazia: la crisi mondiale dell’istruzione. Sono in corso radicali cambiamenti riguardo a ciò che le società democratiche insegnano ai loro giovani e su tali cambiamenti non si riflette abbastanza. Le nazioni sono sempre più attratte dall’idea del profitto; esse e i loro sistemi scolastici stanno accantonando, in maniera del tutto scriteriata, quei saperi che sono indispensabili a mantenere viva la democrazia. Se questa tendenza si protrarrà, i paesi di tutto il mondo ben presto produrranno generazioni di docili macchine anziché cittadini a pieno titolo, in grado di pensare da sé, criticare la tradizione e comprendere il significato delle sofferenze e delle esigenze delle altre persone. Il futuro delle democrazie di tutto il mondo è appeso a un filo”.
Parole come queste dovrebbero mettere in guardia contro alcuni dei recenti provvedimenti su scuola, Centri di Formazione Professionale e università: i tagli finanziari al nostro sistema educativo, spesso al centro della polemica, non sono che lo strumento di una politica organica e premeditata di riduzione della democrazia così come la concepisce la Costituzione, insieme alle Costituzioni dell’Occidente e del resto del mondo, tradizionalmente sollecite verso la formazione dei cittadini, e della loro formazione integrale, ma ora messe in discussione. Per Nussbaum “le capacità intellettuali di riflessione e pensiero critico sono fondamentali per mantenere vive e ben salde le democrazie”, eppure “gli studi umanistici e artistici vengono ridimensionati, nell’istruzione primaria e secondaria come in quella universitaria, praticamente in ogni paese del mondo. Visti dai politici come fronzoli superflui, in un’epoca in cui le nazioni devono tagliare tutto ciò che pare non serva a restare competitivi sul mercato globale, essi stanno rapidamente sparendo dai programmi di studio, così come dalle teste e dai cuori di genitori e allievi”.
E continua “in realtà, anche quelli che potremmo definire come gli aspetti umanistici della scienza e della scienza sociale – l’aspetto creativo, innovativo, e quello di pensiero critico, rigoroso – stanno perdendo terreno, dal momento che i governi preferiscono inseguire il profitto a breve termine garantito dai saperi tecnico-scientifici più idonei a tale scopo. La crisi ci sta di fronte, ma non l’abbiamo ancora guardata in faccia. Andiamo avanti come se niente fosse, quando invece i segni del cambiamento sono evidenti ovunque. Non li abbiamo discussi questi cambiamenti, non li abbiamo scelti, eppure stanno già limitando il nostro futuro”.
Visto che la crescita economica è tanto agognata da tutte le nazioni, specialmente in questi tempi di crisi, non ci si pongono troppe domande su dove va l’istruzione e, di conseguenza, dove vanno le società democratiche. Con la corsa al profitto sul mercato mondiale, i valori più preziosi per il futuro della società, specialmente in un’epoca di inquietudine religiosa ed economica, corrono il rischio di andare perduti. La spinta al profitto induce molti leader a pensare che la scienza o la tecnologia siano di cruciale importanza per il futuro dei loro paesi. Non c’è nulla da obiettare sull’importanza ed esigenza di una eccellente istruzione tecnico-scientifica, e non sarò certo io a suggerire di fermare la ricerca a questo riguardo. La mia preoccupazione è che altre capacità, altrettanto importanti, stiano correndo il rischio di sparire nel vortice della concorrenza: capacità essenziali per la salute di qualsiasi democrazia al suo interno e per la creazione di una cultura mondiale in grado di affrontare con competenza i più urgenti problemi del pianeta. Tali capacità sono associate agli studi umanistici e artistici: la capacità di pensare criticamente, la capacità di trascendere i localismi e di affrontare i problemi mondiali come «cittadini del mondo»; e, infine, la capacità di raffigurarsi simpaticamente la categoria dell’altro. Ci vuole un nuovo modello culturale che dia una svolta al modello di sviluppo.
Gli studi umanistici ed artistici sono fondamentali tanto nella fase dell’istruzione primaria e secondaria quanto in quella universitaria. Non si deve negare che la scienza e le scienze sociali, soprattutto l’economia, siano altrettanto essenziali per la formazione dei cittadini. Ma queste materie non hanno mai corso alcun rischio, come capita con le altre. Inoltre, se praticate nel modo corretto, queste altre discipline non possono che essere permeate di quello che possiamo definire come spirito umanistico: la ricerca del pensiero critico, la sfida dell’immaginazione, la vicinanza empatica alle esperienze umane più varie, nonché la complessità del mondo nel quale viviamo. La scienza, studiata correttamente, è amica degli studi umanistici e non certo loro nemica.
La formazione non ha luogo soltanto a scuola. Gran parte degli aspetti che ci stanno a cuore devono essere modellati anche in famiglia, dai primi giorni di vita e per tutto il corso dell’infanzia. Anche la cultura dei pari e quella più ampia delle norme sociali e delle istituzioni politiche assolvono una funzione importante, completando o compromettendo il lavoro svolto da scuole e famiglie. L’attenzione rivolta a scuole e università è giustificata soprattutto perché è proprio in tali istituzioni che si stanno verificando i cambiamenti più perniciosi: è l’ossessione della crescita economica che sta portando a cambiamenti nei programmi di studio, nella pedagogia e anche nel sistema dei finanziamenti.
La formazione non riguarda soltanto la cittadinanza. Essa prepara le persone al lavoro e, cosa molto importante, a una vita dignitosa di essere vissuta. Tutte le democrazie moderne però sono società nelle quali il significato e lo scopo della vita umana sono argomenti di ragionevole disaccordo fra cittadini che hanno vedute religiose e secolari molto diverse: tali cittadini, naturalmente, hanno convinzioni differenti sull’utilità e la funzione della preparazione umanistica riguardo ai loro obiettivi personali. Ciò su cui possiamo essere d’accordo è che in tutto il mondo, cioè in ogni nazione abbastanza fortunata da essere democratica, i giovani devono essere abituati a partecipare a una forma di governo in cui le persone si informano delle problematiche fondamentali che saranno oggetto del loro voto e, talvolta, della loro azione come funzionari eletti o nominati. Ogni democrazia moderna è anche una società nella quale le persone differiscono molto, per molteplici aspetti, come religione, etnicità, ricchezza e classe sociale, condizione fisica, genere e orientamento sessuale, e in cui tutti gli aventi diritto al voto compiono scelte che hanno una ricaduta notevole anche sulla vita di persone assai diverse da loro. Un modo di valutare un progetto educativo è di chiederci in che modo esso prepari i giovani a vivere in un’organizzazione sociale e politica che abbia queste caratteristiche. Senza il concorso di cittadini educati in maniera appropriata, nessuna democrazia può rimanere stabile.
La facoltà di ragionare correttamente su culture, gruppi e nazioni, nel contesto dell’economia mondiale e della storia dell’interazione di tanti paesi e gruppi è cruciale per consentire alle democrazie di far fronte, in modo responsabile, ai problemi che le attendono come parti di un mondo interdipendente. E la capacità di cogliere i problemi dell’altro - una dote che quasi tutti gli esseri umani posseggono, in una qualche forma - deve essere molto potenziata, e rifinita, per poter sperare di mantenere istituzioni decenti in mezzo alle tante divisioni che ogni società moderna racchiude.
L’interesse nazionale di una democrazia moderna prevede un’economia forte e una cultura di mercato fiorente. Ebbene, tale interesse economico richiede proprio l’apporto degli studi umanistici ed artistici, allo scopo di promuovere un clima di attenta e responsabile disponibilità, nonché una cultura di innovazione creativa. Quindi, non siamo costretti a scegliere fra una forma di educazione che promuove il profitto e una forma di educazione che alimenta la buona cittadinanza, a tutti i livelli. Un’economia fiorente richiede le stesse qualità formative che rafforzano la buona cittadinanza, e in realtà i partigiani di quella cosiddetta «formazione per il profitto» o per la crescita economica, come scopo fondamentale, sposano di fatto una visione impoverita di ciò che è richiesto per raggiungere il loro scopo, dal momento in cui un’economia robusta è al servizio dell’uomo e non è fine a se stessa.
Nessun sistema educativo funziona bene se reca vantaggi soltanto alle élite benestanti.[3]
La filosofia morale di Martha Nussbaum è una ‘denuncia’ e un ‘invito ad agire’, che riprende e articola in più punti, non abbandonando mai la presa: la svalutazione dei saperi umanistici è parte di una politica premeditata e totalizzante, alla stessa stregua e nello stesso sistema delle pratiche del capitalismo speculativo, del liberismo antiliberale, del monopolismo informativo, delle cricche corruttive, e di slogan tipo “con la cultura non si mangia” … nient’altro che l’eco casereccio di un sempre più incalzante coro globale. La conseguenza (non detta, ma facilmente estrapolabile): da questa situazione non si esce se non sforzandosi di trovare collegamenti con il resto del mondo, e scambiando esperienze e iniziative con che nutre le stesse idee e le stesse esigenze, per proporre una generale revisione delle politiche oggi in atto. Ecco perché è assolutamente necessario che l’educazione recuperi la matrice da cui è nata. Nel suo videomessaggio al Convegno Mondiale su un nuovo Patto Globale Educativo orientato verso un umanesimo solidale, Papa Francesco delineò in sette punti quello che lui ritiene essere il percorso da fare per cambiare il mondo attraverso l’educazione: mettere al centro di ogni processo educativo e formale la persona; ascoltare la voce dei bambini; favorire la piena partecipazione delle bambine e delle ragazze all’istruzione; vedere nella famiglia il primo e indispensabile soggetto educatore; educare ed educarci nell’accoglienza, aprendoci ai più vulnerabili ed emarginati; impegnarci a studiare per trovare altri modi di intendere l’economia, di intendere la politica, di intendere la crescita e il progresso; custodire e coltivare la nostra casa comune.[4] Insomma, è un richiamo a costruire un mondo diverso attraverso l’educazione.
L’eclissi dell’educazione
Relazione educativa, problema della verità e scienze della natura
Di modo simile, anche se non direttamente a riguardo della democrazia come la Nussbaum ma al bene totale della società, si era già espresso su questo tema il Comitato per il Progetto Culturale della CEI presentando La sfida educativa[5] che dice che non si tratta, ovviamente, di sminuire la valenza sociale ed economica dell’educazione, rinunciando alle competenze professionali, alla tecnica, all’utile, e neppure di misconoscere la centralità del rapporto scuola-lavoro e della formazione professionale. Ma concepire la prima esclusivamente in funzione del secondo rischia di far perdere di vista la ricchezza della relazione educativa, che è molto di più che un semplice sforzo di addestramento. Come dice l’etimologia del termine educare, dal latino e-ducere, «condurre fuori da», siamo davanti a una metafora dell’opera svolta dall’ostetrica - secondo il modello della maieutica socratica - quando aiuta il bambino a nascere. E nascere comporta un’apertura alla realtà che va molto al di là della categoria dell’utile, se è vero che utile è ciò che vale solo in rapporto ad altro, come mezzo per raggiungerlo, e che ci serviamo di esso solo in vista di ciò che è importante in sé, primo fra tutti il senso delle cose che non può certo essere definito utile, poiché non è un mezzo ma un fine, e che pure, come notava Heidegger, è «quanto di più necessario ci sia». In tale senso prende valore la proposta di formare la coscienza della persona, per renderla capace di compiere delle scelte alla luce di ciò che vale.
Uno dei compiti fondamentali della scuola è proprio di insegnare a discernere tra ciò che è utile e ciò che è necessario, o comunque importante in sé. Si tratta di liberare i ragazzi dalle suggestioni di una pubblicità subdolamente invasiva, che ne condiziona la mentalità e i comportamenti non censurando le risposte, ma uccidendo dentro di loro le stesse domande. In questa prospettiva è decisivo il recupero del vituperato concetto di «verità», troppo spesso identificata con una entità metafisica astratta e irraggiungibile. Rinunziare a far comprendere ai giovani che cosa si debba intendere per verità, non educarli al senso della verità significa, in realtà, consegnarli senza difesa alla pressione delle illusioni, dei miti, delle falsificazioni con cui da ogni parte il circo mediatico della società consumista li assedia.
A questo fine è paradigmatica l’educazione alle scienze della natura. Le ricadute tecnologiche del sapere scientifico rendono evidente a tutti l’utilità delle scienze, inserendo d’ufficio il loro apprendimento tra le attività scolastiche che richiedono, come si è detto, una grande quantità di informazioni e costituiscono una risorsa dell’economia spendibile sul mercato del lavoro. D’altra parte, già la semplice presentazione delle principali teorie scientifiche pone la questione della loro «verità», della corrispondenza delle loro affermazioni con una «realtà» che non dipende da noi. È quindi relativamente facile pervenire a discorsi generali sulla verità e sulla realtà passando attraverso l’apprendimento critico del sapere scientifico, nel quale si abbia cura di distinguere le affermazioni scientifiche da quelle che scientifiche non sono. Si potrà così avviare i giovani a distinguere le diverse forme di accertamento della verità.
Ovviamente si tratta di un compito difficile che richiede maestri all’altezza, specialmente negli anni cruciali delle scuole medie superiori. In ogni caso solo se c’è differenza tra vero e falso, tra reale e illusorio, tra superficie e profondità, è possibile quell’educazione al senso critico che è un compito universalmente riconosciuto alla scuola e che è la migliore preparazione ai futuri studi universitari.
Lo stesso insegnamento delle discipline si fonda sulla premessa che ci sia una realtà che va riconosciuta, non «inventata», sia pure precisando che un processo di riconoscimento non è un passivo rispecchiamento dei dati, ma una loro creativa elaborazione e interpretazione, nello sforzo incessante di adeguare sempre più la nostra lettura del mondo alla sua sconfinata profondità e ricchezza. Non basta che l’alunno accumuli informazioni: è indispensabile che la scuola lo educhi all’arte della sintesi tra i diversi saperi e modi di conoscere, per conferire a queste informazioni un significato.
L’intelligenza
Da questa prospettiva diventa illuminante, anche perché allarga l’orizzonte del nostro tema, il capitolo sull’intelligenza di Umberto Galimberti nel suo libro I miti del nostro tempo[6]. Scrive: “Così come non è da privilegiare, come fa la nostra scuola, l’intelligenza convergente, che è quella forma di pensiero che non si lascia influenzare dagli spunti dell’immaginazione, ma tende all’univocità della risposta a cui tutte le problematiche vengono ricondotte. Più interessante, anche se meno apprezzata a scuola, è l’intelligenza divergente tipica dei creativi, capaci di soluzioni molteplici e originali, perché, invece di accontentarsi della soluzione dei problemi, tendono a riorganizzare gli elementi, fino a ribaltare i termini del problema per dar vita a nuove ideazioni.
Nei suoi molteplici studi sull’argomento, Howard Gardner[7] mostra che non c’è un’intelligenza generica, quella su cui di solito si applica la misurazione della scuola, ma forme così diverse fra loro che non è possibile unificarle e misurarle in modo uniforme. Ogni forma di intelligenza, infatti, è percorsa dal genio, che non è una prerogativa solo di Leonardo da Vinci, ma di tutte le menti che sempre sono inclinate in una certa direzione, a partire dalla quale scaturisce per ognuno la sua particolare ed esclusiva visione del mondo.
Già a livello biologico si constatano differenze abissali per cui, ad esempio, a due anni c’è chi recepisce una sequenza di musica classica come ‘armonia’ e chi come ‘dissonanza’. Chi valuta questa intelligenza musicale, che forse ha poco a che fare con l’intelligenza convergente richiesta dalla scuola? L’intelligenza musicale, infatti, materializza la geometria nel suono. Questa materializzazione instaura l’uomo come colui che ascolta il ritmo di una creazione che lo trascende. La musica, infatti, non si dice, si ascolta, e l’orecchio diventa quel padiglione aperto al mondo per cogliere quella “armonia invisibile” che, al dire di Eraclito, “val più della visibile”.[8] Ascoltate da un’intelligenza musicale le parole cessano di avere un senso per guadagnare un suono. Dominante non è più il significato, ma la voce, il suo tono, da cui si desume un senso nascosto del mondo che non sì può dire, ma solo u-dire.
Allo stesso modo c’è un’intelligenza linguistica per la quale le parole non hanno profondità, ma superficialità. Un’intelligenza linguistica non scopre una parola nella sua radice e nel suo spessore di significato, ma è molto abile nel trasporre un termine o una costruzione da una lingua all’altra. Ciò lascia supporre che chi è padrone di molte lingue ha un’intelligenza che non è minimamente turbata dalle differenze antropologiche e dalle differenze di mondo che in Italia hanno generato un linguaggio e in Germania un altro, per cui, senza questo carico antropologico e senza questa sensibilità per la differenza dei mondi, può trasporre con maggiore agilità un termine da una lingua all’altra. Infatti, si può trasporre un termine da una lingua all’altra in quanto non ci si è inabissati nel suo senso e la parola non ci ha fatto prigionieri della sua profondità.
C’è un’intelligenza logico-matematica che sulla terra non vede cose, ma analogie e rapporti. A questo proposito, scrive Whitehead: “Il primo uomo che colse l’analogia esistente tra un gruppo di sette pesci e un gruppo di sette giorni compì un notevole passo avanti nella storia del pensiero. Fu il primo ad avere un concetto pertinente della matematica pura”.[9] Per questo tipo di intelligenza le cose perdono il loro spessore materiale, il pesce non rimanda al mare e ai naviganti, così come i giorni non rimandano alle opere quotidiane che Esiodo descrive.[10] Per l’intelligenza logico-matematica le cose diventano rapporti e i numeri che li esprimono diventano la ‘spiegazione’ del mondo, nel senso in cui diciamo che qualcosa si ‘di-spiega’, si apre alla leggibilità. Platone ne aveva ben coscienza, per questo sul frontespizio dell’Accademia da lui fondata - dice la tradizione - aveva fatto scrivere: “Non si entra qui se non si è geometri”.
C’è anche un’intelligenza spaziale che dispiega un mondo che sfugge alle coordinate geometriche, per offrirsi alle azioni che disegnano quella spazialità visiva, sonora, emotiva che è anteriore alla distinzione dei sensi, perché il valore sensoriale di ogni elemento è determinato dalla sua funzione nell’insieme e varia con questa funzione. Per il navigante, ad esempio, il mare non è uno spazio oggettivo, ma un campo di forze percorso da linee di forza (le correnti) e articolato in settori (le rotte) che lo sollecitano a certi movimenti e lo sostengono quasi a sua insaputa. La terra che intravede, le correnti che avverte, le onde che solca non gli sono presenti come un dato oggettivo, ma come il termine delle sue intenzioni e delle sue azioni. Nella burrasca non percepisce cose, ma fisionomie: familiari come la terra che in lontananza si profila e ostili come le onde nella cui altezza scorge non tanto una dimensione quanto una minaccia. Se nello sguardo il navigante è magicamente congiunto alla meta, è nella forza e nell’azione dei suoi gesti la possibilità di pervenirvi. Qui la sua intelligenza è tutta raccolta nella dialettica corporea tra l’ambiente e l’azione.
C’è poi un’intelligenza corporea che guarda il mondo non per scoprirlo, ma per abitarlo. Abitare non è conoscere, è sentirsi a casa, ospitati da uno spazio che non ci ignora, tra cose che dicono il nostro vissuto, tra volti che non c’è bisogno di riconoscere perché nel loro sguardo ci sono le tracce dell’ultimo congedo. Abitare è sapere dove deporre l’abito, dove sedere alla mensa, dove incontrare l’altro. Abitare è trasfigurare le cose, è caricarle di sensi che trascendono la loro pura oggettività, è sottrarle all’anonimato che le trattiene nella loro inseità, per restituirle ai nostri gesti abituali, che consentono al nostro corpo di sentirsi tra le “sue cose”, presso di sé. Proprio perché abita il mondo, l’intelligenza corporea cattura quella verità che non è mai al di là di ciò che percepisce. Il dubbio che attende dalla ragione il criterio di distinzione tra illusione e realtà è un dubbio da cui può essere percorsa solo un’intelligenza che non abita il mondo.
C’è infine un’intelligenza psicologica, per la quale il mondo è uno specchio di sé. Proiettando i propri vissuti, gli uomini hanno cominciato a catalogare la natura secondo i miti dell’anima. Ne è nato un mondo immaginario di cui i poeti e i mistici sono i gelosi custodi. A loro si deve la nobiltà delle nostre passioni. In forma mitologica hanno saputo affidare al cielo quanto noi oggi in forma patologica affidiamo alla psichiatria. Perché gli uomini non vivono più all’altezza delle loro passioni? Perché nei loro desideri non scorgono più un’intelligenza? Perché, dopo averle private della loro intrinseca intenzionalità, si è assegnato alle nostre passioni solo lo spazio opaco e buio dei nostri corpi? Che ha fatto la ragione di noi? Dove ci porta l’itinerario dell’intelligenza scientifico-tecnica divenuta egemone? Non perdiamo così e per sempre le tracce del cammino percorso?
Agli uomini della scuola l’invito a non demolire quelle diverse forme di intelligenza in cui è custodito un potenziale di umanità diversa da quella oggi compiutamente dispiegata sotto il segno della tecnica, che ci ha abituato a pensare in quel modo esclusivamente calcolante e funzionale a cui oggi, sembra, abbiamo ridotto l’uso dell’intelligenza. Contro la tecnica non abbiamo nulla da obiettare se non la sua funzione egemone e totalizzante, che lascia perire ai suoi margini tutto quel volume di senso che, non essendo tecnicamente fruibile, è lasciato essere come parola inincidente, puro rumore che non fa storia.
Ma per questo è necessario che la scuola, se non vuole mortificare le diverse forme di intelligenza, si declini al plurale e insegua, attraverso un’articolazione molto più aperta, tutte le forme di intelligenza in cui sono custodite quelle possibilità che, in un mondo sempre più strutturato in modo funzionale, diventano gli unici ricettacoli del senso. Un senso trovato in sé, nella forma della propria intelligenza.
La mimetizzazione dell’intelligenza
Se siamo tutti intelligenti, ognuno a suo modo, sarà tendenza di ciascuno mostrare, ogni volta che se ne presenta l’occasione, la specificità della propria intelligenza. Il risultato di solito è: o la mortificazione di quanti sono costretti ad assistere all’esibizione dell’altrui abilità mentale, o l’invidia che, opportunamente mascherata, trova sfogo nella maldicenza intorno ad altri aspetti della personalità di chi fa sfoggio della propria intelligenza, o infine il disinteresse per ciò che la persona intelligente va dicendo, creando un vuoto intorno al suo discorso che ricade su se stesso senza i riscontri attesi. A parità di capacità intellettuali è allora più intelligente non tanto chi eccelle in una determinata abilità mentale, ma chi è in grado di percepire in anticipo l’effetto che un’eventuale esibizione di intelligenza può produrre in chi ascolta. E siccome l’effetto è quasi sempre deprimente, più intelligente sarà chi è capace di mimetizzare la propria intelligenza.
‘Mimetizzazione’ è una parola solitamente impiegata a proposito di quegli animali che sanno confondersi con l’ambiente in modo da non essere individuati da possibili aggressori, così come ‘mimetico’ si chiama l’abbigliamento che in battaglia indossano i militari, sempre allo scopo di non essere individuati e quindi di poter sorprendere il nemico a sua insaputa.
Mimetizzare la propria intelligenza significa allora saperne modulare l’espressione a seconda del contesto in cui ci si trova, percependo in anticipo il livello di comprensione di coloro che ci ascoltano e le possibili reazioni che l’intervento può produrre. Questa capacità anticipatoria, che evita le reazioni negative, è tipica di quelle intelligenze non narcisistiche, capaci di “mettersi nei panni degli altri” e calibrare perfettamente come un certo discorso, per intelligente che sia, può essere percepito dall’altro e davvero compreso. Gli antichi filosofi, a differenza dei sapienti che ritenevano di possedere la verità, sapevano che un conto è la verità, un conto è la comprensione della verità. E alla comprensione della verità hanno dedicato la loro massima cura, istituendo, a partire da Socrate, le scuole, persuasi com’erano che una verità non compresa non serve a niente.
A condizionare la comprensione non sono solo fattori culturali, ma soprattutto ed eminentemente fattori emotivi, per cui, ad esempio, se una classe di studenti si sente amata dal suo professore l’apprendimento sarà facilitato, se un messaggio viene veicolato da un testimonial apprezzato dal pubblico, sarà più facilmente recepito.
Ciò significa che un’intelligenza che si accompagna a una competenza emotiva sa che cosa, di quanto esprime, può essere recepito o rifiutato. E, se le interessa che il messaggio passi, questa intelligenza sa anche rinunciare a dire tutto quello di cui è competente, per limitarsi a enunciare solo ciò che può essere compreso. Riduce quindi le sue possibilità enunciative a favore della trasmissibilità dei messaggi. In una parola, mimetizza la sua intelligenza a misura della recettività di chi ascolta, per favorire l’acquisizione delle informazioni.
La mimetizzazione dell’intelligenza è quindi una grande virtù: la virtù degli insegnanti che non sfoggiano tutto il loro sapere, ma solo quello che può essere recepito e nelle forme in cui può essere recepito; la virtù degli psicoanalisti che, pur individuando dopo due sedute di che cosa soffre il paziente, attendono molte sedute affinché il paziente pervenga da sé alla sua verità; la virtù dei genitori che, pur avendo presenti le capacità che i figli potrebbero tradurre in professioni, attendono che i figli le riconoscano da soli, sorreggendo i loro percorsi con piccoli accenni quando i figli sono nella condizione di recepirli; la virtù dei politici che hanno il polso del paese reale e non solo degli obiettivi che vogliono perseguire, indipendentemente dal consenso o dal dissenso opportunamente valutato; ma direi anche la virtù delle veline, alcune delle quali hanno senz’altro significative capacità intellettuali, che però, dato il contesto, non è il caso di esibire in un concorso di bellezza, dove l’attenzione è tutta concentrata sulle misure e le forme del corpo.
La mimetizzazione dell’intelligenza è la virtù delle persone veramente intelligenti, che sanno coniugare la verità con la comprensione della verità, per la quale sono disposti a rinunciare all’esibizione di sé per la cura dell’altro e la comprensione delle modalità con cui l’altro può capire quanto si va dicendo.
All’intelligenza che sa mimetizzarsi compete quella virtù che possiamo chiamare altruismo, qui inteso non come ‘buonismo’, ma come percezione di ciò che è altro da me, perché consapevole che gli altri, con le loro obiezioni anche grossolane, possono costituire uno stimolo a un ulteriore ricercare e intendere e trovare.
L’intelligenza informatica
La mimetizzazione dell’intelligenza non va confusa con quella mimesi o imitazione dell’intelligenza oggi rappresentata dall’intelligenza informatica, che i nonni invidiano ai loro nipotini i quali, con la velocità della luce, aprono sul video mondi insospettati.
Diciamo subito che non è il caso che i nonni si deprimano. L’intelligenza informatica è, tra le forme di intelligenza, la più elementare, perché lavora con il più semplice dei codici: quello binario, capace di dire solo sì o no, uno o zero, e, nel caso si evolva, buono o cattivo, giusto o ingiusto, vero o falso, senza, per il momento, ulteriori capacità di problematizzazione.
Il guaio è che l’enorme influenza che la mentalità informatica esercita nei posti di lavoro e oggi disgraziatamente anche nelle scuole e, per chi non va a scuola, nelle trasmissioni di traino dei telegiornali in orari di massimo ascolto, nonché nelle prove degli esami di maturità e in quelle di ammissione all’università a numero chiuso, attiva quell’intelligenza binaria che rischia di diventare la più diffusa, quando non l’unica forma di intelligenza, abilissima nel calcolo, ma sempre più in difficoltà a formulare un pensiero.
E già se ne vedono gli effetti a dir poco disastrosi perché, in questa reazione abbreviata al massimo, il ciclo di senso non circola più nella problematicità del mondo reale che si fa sempre più complesso, ma in quell’universo virtuale dove, per effetto del codice binario che lo presiede, la domanda è indotta dall’offerta e la risposta dalla domanda. Come ci ricorda Jean Baudrillard,[11] test, campionature, statistiche, indagini di mercato, elezioni, referendum non sono interrogazioni che fanno circolare un discorso e tanto meno mettono in comunicazione, ma sono piuttosto un ultimatum, dove non si chiede nulla, ma si impone immediatamente un senso che non può essere se non nell’ordine binario del sì o del no.
Che cosa sia vero e che cosa sia falso è indecidibile, perché, quando la problematicità del reale è filtrata dal virtuale, le interrogazioni si dispongono come la domanda li prevede e li sollecita a essere. Torna qui opportuno il monito di Heidegger: “Ciò che è veramente inquietante non è che il mondo si trasformi in un completo dominio della tecnica. Di gran lunga più inquietante è che l’uomo non è affatto preparato a questo radicale mutamento del mondo. Di gran lunga più inquietante è che non siamo ancora capaci di raggiungere, attraverso un pensiero meditante, un confronto adeguato con ciò che sta realmente emergendo nella nostra epoca.”[12]
L’intelligenza del futuro[13]
“Quali forme di intelligenza sono necessarie per il futuro che, a differenza del passato, mette a disposizione un’infinità di informazioni, di culture, di modi di pensare e di valutare insospettati fino a trent’anni fa?” È questa una domanda che si pone Howard Gardner,[14] persuaso che l’intelligenza convergente, tipica delle nostre scuole e a cui si uniformano gli insegnamenti previsti dai programmi ministeriali, non sia più sufficiente per affrontare le sfide del futuro.
A parere di Gardner il futuro richiederà la versatilità di cinque figure di intelligenza, a partire dall’intelligenza disciplinare che, con chiari messaggi che consentono di acquisire la differenza tra il vero e il falso, il reale e il fantastico, l’astratto e il concreto, si consegue nei primi dieci anni di vita, con una buona scuola elementare in grado di consegnare al bambino i codici di lettura del mondo in cui vive.
Su questa base deve impiantarsi l’intelligenza sintetica, capace di assemblare informazioni che provengono da più fonti in modo da pervenire a una sintesi unitaria. A questo scopo molto più utile dei ‘pensierini’ alle elementari e dei ‘temi in classe’ nelle superiori, dove i ragazzi mettono per iscritto tutto quello che viene loro in mente, è il “riassunto scritto” di una pagina in cinque righe o di dieci pagine in una pagina, da ripetere ad alta voce, in modo da verificare la coerenza dei collegamenti e l’enucleazione di un senso unitario. Senza sintesi, infatti, non si dà intelligenza.
Acquisita la disciplina e la capacità di sintesi, resta da addestrare l’intelligenza creativa, che può essere allenata non ripetendo quello che il professore ha spiegato come avviene nelle nostre interrogazioni, ma ponendo domande inusuali e non previste dal contesto culturale da cui si prendono le mosse, allo scopo di sollecitare risposte inesplorate, magari con il ribaltamento dei termini con cui il problema era stato originariamente formulato.
Abituando alle soluzioni inaspettate, l’intelligenza creativa predispone all’intelligenza rispettosa, che è tale perché non teme e non si arrocca di fronte alla differenza e all’alterità. Senza questa disposizione mentale nessun dialogo è possibile, per quanti incontri si facciano e per quanta buona volontà ci si metta.
Infine, occorre promuovere l’intelligenza etica, che non fa riferimento esclusivamente ai ‘princìpi’ della propria coscienza, o, peggio ancora, all’ambito limitato dei propri interessi, ma si fa carico delle esigenze della società.
Attivando tutte queste forme di intelligenza, forse i nostri ragazzi potranno andare a scuola con più interesse. Ma prima bisogna verificare se queste forme di intelligenza sono presenti e attive nei professori. E qui il problema si complica, ma forse, con una migliore selezione del corpo insegnante, si può anche risolvere. Del resto a questo ci chiama la configurazione che va assumendo il futuro del mondo, e non essere preparati decide, se non la nostra esclusione, certo il declino del nostro modo di starci e di prendervi parte.”
A ragione Papa Francesco chiede “una rinnovata stagione di impegno educativo”, perché “il nostro futuro non può essere la divisione, l’impoverimento delle facoltà di pensiero e di immaginazione, di ascolto, di dialogo e di mutua comprensione”.[15]
NOTE
[1] Rettore Maggiore emerito della Congregazione Salesiana.
[2] Nussbaum M.C., Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica, Società editrice il Mulino, 2010.
[3] Nussbaum, o.c. “la crisi silenziosa”, pp. 21-30
[4] Francesco, Videomessaggio del Santo Padre ai partecipanti al “Global Compact on Education”, Roma, 15.10.2020
[5] Comitato per il progetto culturale della CEI, La sfida educativa, Bari, Laterza, 2009.
[6] Galimberti U., I miti del nostro tempo, Milano, Feltrinelli, 2009, pp. 78-87.
[7] Gardner H., Formae mentis. Saggio sulla pluralità dell’intelligenza, Milano, Feltrinelli, 1987, pp. 93-257.
[8] Citato da Galimberti, p. 80.
[9] Whitehead A.N., La scienza e il mondo moderno, Torino, Bollati Boringhieri, 1979, p. 38.
[10] Esiodo, Le opere e i giorni, in Opere, Torino, Utet, 1977.
[11] Baudrillard J., Lo scambio simbolico e la morte, Milano, Feltrinelli, 1979: “Il tattile e il digitale”, pp. 73-84.
[12] Heidegger M., L’abbandono, Genova, il Melangolo, 1983, p. 36.
[13] Galimberti U., I miti …, o.c., pp. 92-94
[14] Gardner H., Five Minds for the Future (ed. 2006); tr. it. Cinque chiavi per il futuro, Milano, Feltrinelli, 2007.
[15] Francesco, ib.