Nelle mani del Padre

Nelle mani del Padre

José A. Pagola


Come vive Gesù questo tragico martirio? Cosa sperimenta constatando il fallimento del suo progetto del regno di Dio, l'abbandono dei suoi seguaci più vicini e l'ambiente ostile intorno a lui? Qual è la sua reazione davanti a una morte tanto ignominiosa quanto crudele? Sarebbe un errore pretendere di sviluppare una ricerca a carattere psicologico che ci introducesse nel mondo interiore di Gesù. Le fonti non si orientano verso una descrizione psicologica della sua passione, ma invitano ad avvicinarci ai suoi atteggiamenti fondamentali alla luce della «sofferenza del giusto innocente», descritta in diversi salmi ben noti nel popolo giudaico.

Fra i primi cristiani è presente il ricordo secondo il quale, alla fine della sua vita, Gesù ha vissuto un'angosciosa lotta interiore; ha persino chiesto a Dio di liberarlo da quella morte così dolorosa [88]. Probabilmente nessuno conosce con certezza le precise parole che egli ha pronunciato. Per avvicinarsi in qualche modo alla sua esperienza, fanno ricorso al Salmo 42: nell'angoscia di quell'orante ascoltiamo un'eco di quanto Gesù ha potuto vivere [89]. Al tempo stesso, associano la sua supplica in quel momento terribile a forme di preghiera che essi stessi recitano e che provengono da Gesù: senza dubbio, è stato lui il primo a viverle nel fondo del suo cuore [90]. Agli inizi forse non si sa concretizzare come e dove Gesù abbia vissuto quella crisi, ma ben presto il fatto viene collocato nell'«orto del Getsèmani», nel drammatico momento in cui sta per aver luogo il suo arresto [91].
La scena è straziante. Nel mezzo delle ombre della notte, Gesù si addentra nell'«orto degli Ulivi». Poco a poco, «comincia a rattristarsi e angosciarsi»; poi si allontana dai suoi discepoli cercando, come è suo solito, un po' di silenzio e di pace. Presto «cade a terra» e resta prostrato con la faccia a terra [92]. I testi cercano di suggerire il suo abbattimento con diversi termini ed espressioni. Marco parla di «tristezza»: Gesù è profondamente triste, di una tristezza mortale; nessuno può mettergli gioia in cuore; gli sfugge un lamento: «La mia anima è tristissima, fino alla morte». Si parla anche di «angoscia»: Gesù si vede abbandonato e abbattuto; di lui si è impossessato un pensiero: sta per morire. Giovanni parla di «turbamento»: Gesù è sconcertato, interiormente lacerato. Luca sottolinea l'«ansietà»: quel che Gesù sperimenta non è né inquietudine né preoccupazione; è orrore davanti a ciò che lo attende. La Lettera agli Ebrei dice che Gesù piangeva: pregando gli sgorgavano le «lacrime» [93].
Da terra, Gesù comincia pregare. La fonte più antica riprende così la sua preghiera: «Abbà, Padre! Tutto ti è possibile; allontana da me questa coppa; però non avvenga quello che voglio io, ma quello che vuoi tu» [94]. In questo momento di angoscia e abbattimento totale, Gesù torna alla sua originaria esperienza di Dio: Abbà. Con questa invocazione in cuore, si immerge fiduciosamente nel mistero insondabile di Dio, che gli sta offrendo una così amara coppa di sofferenza e di morte. Non ha bisogno di molte parole per comunicare con Dio: «Tu puoi tutto; io non voglio morire; ma sono disposto a ciò che vuoi tu». Dio può tutto, Gesù non ha alcun dubbio; potrebbe realizzare il suo regno in un'altra maniera, che non comportasse quel terribile supplizio della crocifissione. Per questo gli grida il suo desiderio: «Allontana da me questa coppa; non avvicinarmela più; voglio vivere». Ci dev'essere un altro modo perché si compiano i disegni di Dio. Ora, angosciato, chiede al Padre di risparmiargli quella coppa. Però è disposto a tutto, anche a morire, se è questo ciò che il Padre vuole: «Si faccia quello che vuoi tu». Gesù si abbandona totalmente alla volontà di suo Padre nel momento in cui essa gli si presenta come qualcosa di assurdo e di incomprensibile [95].
Che cosa vi è sullo sfondo di questa preghiera? Da dove sgorgano l'angoscia di Gesù e la sua invocazione rivolta al Padre? [96] Ad affliggerlo è indubbiamente il fatto di dover morire così presto e in maniera così violenta. La vita è il dono più grande di Dio; per Gesù, come per qualsiasi giudeo, la morte è la sventura maggiore, perché distrugge tutto quanto di buono vi è nella vita e non conduce se non a un'oscura esistenza nello sheol [97]. Forse la sua anima rabbrividisce ancora di più pensando a una morte ignominiosa come quella della crocifissione, considerata da molti come segno dell'abbandono e persino della maledizione di Dio. Ma per Gesù c'è qualcosa di ancora più tragico. Morirà senza veder realizzato il suo progetto; ha vissuto la sua dedizione con passione tale, è talmente immedesimato nella causa di Dio, che ora lo strappo è più orribile. Che cosa sarà del regno di Dio? Chi difenderà i poveri? Chi penserà a coloro che soffrono? Dove troveranno i peccatori l'accoglienza e il perdono di Dio?
L'insensibilità e l'abbandono dei discepoli lo gettano nella solitudine e nella tristezza. Il loro comportamento gli mostra la grandezza del suo fallimento; ha raccolto intorno a sé un piccolo gruppo di discepoli e discepole, con essi ha cominciato a formare una «nuova famiglia» al servizio del regno di Dio; ha scelto i «Dodici» come numero simbolico della restaurazione d'Israele; li ha riuniti in quella recente cena per contagiar loro la sua fiducia in Dio. Ora li vede che fuggono, lasciandolo da solo. Tutto crolla. La dispersione dei discepoli è il segno più evidente del suo fallimento; chi li raccoglierà d'ora innanzi? Chi vivrà al servizio del regno di Dio?
La solitudine di Gesù è totale. La sua sofferenza le sue grida non trovano eco in nessuno: Dio non gli risponde; i suoi discepoli «dormono». Catturato dalle forze di polizia del tempio, Gesù non ha più alcun dubbio: il Padre non ha ascoltato il suo desiderio di restare in vita; i suoi discepoli fuggono cercando la propria sicurezza. È solo! I racconti lasciano intravedere questa solitudine di Gesù nel corso di tutta la passione. L'attenzione degli abitanti di Gerusalemme e di quella gran folla di pellegrini che riempie la città non è rivolta a quel piccolo gruppo che sta per essere giustiziato nei dintorni della città. Nel tempio tutto è agitazione e affaccendarsi. In quelle ore, migliaia di agnelli vengono sacrificati nel sacro recinto; la gente si muove febbrile concludendo gli ultimi preparativi per la cena pasquale. Soltanto quanti, nella loro strada, si imbattono nel corteo dei condannati o passano nei pressi del Gòlgota fanno attenzione. Come è consueto nelle società antiche sono persone che hanno familiarità con lo spettacolo di un'esecuzione pubblica; le loro reazioni sono diverse: curiosità, grida, beffe, disprezzo e forse qualche commento di compassione. Dalla croce, Gesù avverte probabilmente soltanto rifiuto e ostilità [98].
Soltanto Luca parla di un atteggiamento più amabile e compassionevole da parte di alcune donne che, in mezzo alla calca che osserva i condannati sulla via della croce, si avvicinano a Gesù piangendo per lui [99]. D'altra parte, un gruppo di discepole di Gesù si trova sulla scena del Gòlgota e «guarda da lontano», poiché i soldati non permettono che nessuno si avvicini ai crocifissi salendo fino alla cima della collinetta [100]. Di queste coraggiose donne che rimangono lì fino alla fine ci vengono dati i nomi. Tutti gli evangelisti concordano sulla presenza di Maria di Màgdala, la donna che ama tanto Gesù; Marco e Matteo parlano di altre due donne: Maria, la moglie di Alfeo, madre di Giacomo il minore e di Ioses, e Salome, la madre di Giacomo Giovanni. Soltanto il quarto Vangelo menziona «madre di Gesù», una sua zia, sorella di sua madre, e «Maria, moglie di Clèopa». Sebbene sia stato detto di frequente che la presenza di queste donne ha potuto recar conforto a Gesù, il fatto è poco probabile. Circondato dai soldati di Pilato e dagli incaricati dell'esecuzione, è difficile pensare che durante la sua agonia abbia potuto accorgersi della loro presenza, obbligate come erano a restare a distanza, perdute fra la gente. Probabilmente le prime generazioni cristiane non sapevano con esattezza le parole che Gesù poteva aver mormorato nel corso della sua agonia. Nessuno era stato abbastanza vicino da raccoglierle [101]. Esisteva il ricordo del fatto che Gesù era morto pregando Dio e anche del fatto che, alla fine, aveva lanciato un forte grido102]; poco più. Quasi tutte le parole concrete che gli evangelisti pongono sulle labbra di Gesù riflettono probabilmente le riflessioni dei cristiani, che approfondiscono via via la morte di Gesù in prospettive diverse, mettendo l'accento su diversi aspetti della sua preghiera: desolazione, fiducia o abbandono nelle mani del Padre. Non potendo far ricorso a ricordi concreti conservati nella tradizione, ci si riferisce a salmi ben noti nella comunità cristiana, nei quali Dio viene invocato partendo dalla sofferenza [103].
Dobbiamo dunque rassegnarci a non saper nulla con sicurezza? Sembra abbastanza chiaro che il «dialogo» di Gesù con sua «madre» e con il «discepolo amato» è una scena costruita dal Vangelo di Giovanni 104]; lo stesso va detto del «dialogo» fra i due malfattori e Gesù, redatto quasi certamente da Luca [105]. D'altra parte è causa di una certa disillusione sapere che la preghiera forse più bella di tutto il racconto della passione è testualmente dubbia; secondo l'evangelista Luca, mentre veniva inchiodato alla croce, Gesù diceva: «Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno». Indubbiamente, tale è stato il suo atteggiamento interiore; lo era sempre stato; ha chiesto ai suoi di «amare i loro nemici» e «pregare per i loro persecutori»; ha insistito nel perdonare fino a «settanta volte sette». Quanti lo hanno conosciuto non dubitano che Gesù sia morto perdonando; probabilmente, però, lo ha fatto in silenzio, o almeno senza che nessuno abbia potuto ascoltarlo. È stato Luca, o forse un copista del II secolo, a mettere sulla sua bocca ciò che tutti nella comunità cristiana pensavano [106]. Il silenzio di Gesù durante le sue ultime ore è sorprendente, tuttavia alla fine Gesù muore «lanciando un forte grido». Tale grido inarticolato è il ricordo più certo della tradizione [107]; i cristiani non lo dimenticarono mai. Tre evangelisti pongono anche sulla bocca di Gesù moribondo tre diverse parole, ispirate ad altrettanti salmi: secondo Marco (= Matteo), Gesù grida a gran voce: «Dio mio, Dio mio! Perché mi hai abbandonato?»; Luca ignora invece queste parole e dice che Gesù grida: «Padre, nelle tue mani affido il mio spirito»; secondo Giovanni, poco prima di morire, Gesù dice: «Ho sete», e, dopo aver bevuto l'aceto che gli viene offerto, esclama: «Tutto è compiuto». Che cosa possiamo dire di queste parole? Sono state pronunciate da Gesù? Sono parole cristiane, che ci invitano a penetrare nel mistero del silenzio di Gesù, spezzato soltanto alla fine dal suo grido sorprendente?
Non è difficile comprendere la descrizione che ci viene offerta da Giovanni, l'evangelista più tardivo. Secondo la sua visione teologica, «essere elevato sulla croce» significa per Gesù «tornare al Padre» ed entrare nella sua gloria; per questo il suo racconto della passione è il cammino sereno e solenne di Gesù verso la morte; non vi è angoscia né spavento; non vi è resistenza a bere l'amaro calice della croce: «La coppa che il Padre mi ha offerto, non dovrei berla?» [108]. La sua morte non è che il coronamento del suo desiderio più profondo; egli lo esprime così: «Ho sete», voglio compiere in pieno la mia opera; ho sete di Dio, voglio ormai entrare nella sua gloria [109]. Per questo, dopo aver bevuto l'aceto che gli offrono, Gesù esclama: «Tutto è compiuto»; è stato fedele fino alla fine, la sua morte non è la discesa nello sheol, bensì il suo «passaggio da questo mondo al Padre». Nelle comunità cristiane, nessuno lo metteva in dubbio.
È facile comprendere anche la reazione di Luca. Il grido angoscioso di Gesù, che si lamenta con Dio per il suo abbandono, gli risulta duro. Marco non aveva avuto alcun problema nel metterlo in bocca a Gesù, ma forse qualcuno avrebbe potuto interpretarlo male. Allora, con grande libertà, lo sostituisce con altre parole, a suo giudizio più adatte: «Padre, nelle tue mani abbandono la mia vita» [110]. Doveva restare ben chiaro che l'angoscia vissuta da Gesù non aveva mai annullato il suo atteggiamento di fiducia e totale abbandono al Padre. Nulla e nessuno aveva potuto separarlo da lui. Al termine della sua vita, Gesù si affidò fiducioso a quel Padre che era stato all'origine di tutto il suo operato; Luca voleva metterlo bene in chiaro.
Tuttavia, nonostante tutte le loro riserve, il grido raccolto da Marco: Eloì, Eloì, lemà sabactàni!, cioè «Dio mio, Dio mio! Perché mi hai abbandonato?» è, senza dubbio, il più antico della tradizione cristiana, e potrebbe risalire a Gesù stesso. Queste parole pronunciate in aramaico, lingua materna di Gesù, e gridate nel mezzo della solitudine e dell'abbandono totale sono di una sincerità schiacciante. Se non fosse stato Gesù a pronunciarle, qualcuno della comunità cristiana avrebbe osato metterle sulle sue labbra? Gesù muore in una solitudine totale; è stato condannato dalle autorità del tempio, il popolo non lo ha difeso, i suoi sono fuggiti; intorno a sé ascolta soltanto beffe e disprezzo; malgrado le sue grida al Padre nell'orto del Getsèmani, Dio non è venuto in suo aiuto. Il suo amato Padre lo ha abbandonato a una morte ignominiosa. Perché? Gesù non chiama Dio Abbà, Padre, con la sua espressione abituale e familiare. Lo chiama Eloì, «Dio mio», come tutti gli esseri umani [111] La sua invocazione non cessa di essere un'espressione di fiducia: Dio mio! Dio continua ad essere il suo Dio nonostante tutto. Gesù non dubita della sua esistenza né del suo potere di salvarlo; si lamenta del suo silenzio: dov'è? Perché tace? Perché lo abbandona proprio nel momento in cui ha più bisogno di lui? Gesù muore nella notte più oscura; non entra nella morte illuminato da una rivelazione sublime; muore con un «perché» sulle labbra. Ora, tutto rimane nelle mani del Padre [112].

NOTE

88 Il fatto è stato raccolto in diverse testimonianze: Marco 14,32-42 (Matteo 26,36-46); Luca 22,39-45; Giovanni 12,23.27.28.29; Lettera agli Ebrei 5,7-10.
89 Questo orante si esprime così: «Perché ti angosci, anima mia, perché ti turbi? Spera in Dio, ché tornerai ai lodarlo: "Salvezza del mio volto, Dio mio. Mi sento venir meno, per questo ti ricordo"» (Salmo 42,6-7).
90 «Abbà, Padre» (Marco); «Si faccia la tua volontà» (Matteo); «Padre, glorifica il Tuo nome» (Giovanni); «Non metterci alla prova» (Marco).
91 Circa la storicità della scena del Getsèmani vi sono posizioni diverse. Alcuni la considerano una mera invenzione della comunità cristiana, non un fatto trasmesso da testimoni (Lüdemann, Crossan, Jesus Seminar); molti la accettano come uno dei fatti più sicuri: nessuno avrebbe inventato una scienza così sfavorevole per Gesù (Lietzmann, Schnackenburg, Gnilka...); altri considerano il racconto «sostanzialmente storico» ma molto elaborato dalla tradizione cristiana, dato che non si conoscevano le parole pronunciate da Gesù (Léon-Dufour, Grelot, Brown). Seguo questa posizione, più sfumata.
92 Luca lo presenta «inginocchiato» in un atteggiamento che può servire di esempio agli ornati cristiani (22,41); Giovanni non lo presenta «caduto in terra», ma parla del granello che è fecondo soltanto quando «cade in terra e muore» (12,24).
93 Ebrei 5,7. Quest'immagine di un Gesù turbato e angosciato, caduto in terra per implorare Dio di liberarlo dal suo destino, è in forte contrasto con la morte di Socrate descritta da Platone: costretto ad assumere veleno, Socrate accetta la propria morte senza lacrime né suppliche patetiche, nella certezza di dirigersi verso il mondo della verità, della bellezza e della bontà perfetta.
94 Marco 14,36.
95 È necessario comprendere bene tutto ciò. Nei Vangeli non viene mai detto che Dio voglia la «distruzione» di Gesù. La crocifissione è un «crimine» e una «ingiustizia». Come potrebbe il Padre volere che Gesù venga torturato? Quel che Dio vuole è che egli rimanga fedele al suo servizio al regno senza alcuna ambiguità, che non ritratti il suo messaggio di salvezza in quest'ora del confronto decisivo, che non si tiri indietro nella sua difesa e solidarietà verso gli ultimi, che continui a rivelare a tutti la sua misericordia e il suo perdono.
96 Alcune correnti teologiche hanno attribuito l'angoscia del Getsèmani a cause diverse: Gesù prende consapevolezza del fallimento del suo sacrificio, che non eviterà la «condanna» di molti; sperimenta in se stesso la «condanna del peccato», il «castigo riservato ai peccatori», la «collera di Dio»... Tali letture vanno al di là dei testi, che non parlano né di «peccato» né di «castigo». Il calice non simboleggia la «collera di Dio» sugli empi, bensì il doloroso e imminente destino della crocifissione.
97 Lo sheol è il «paese dei morti». Secondo la fede giudaica si trova nel profondo della terra. Lì non vi è luce, bensì tenebre e ombre dense; non vi è vita, né cantici, né lode di Dio; lì discendono tutti i morti, buoni e cattivi, senza che nessuno possa tornare a questa vita. Ai tempi di Gesù, molti lo consideravano come il luogo d'attesa della risurrezione.
98 Non è possibile precisare nei dettagli il carattere storico delle diverse reazioni ai piedi della croce di Gesù. Le fonti cristiane hanno accentuato le beffe e gli insulti ispirandosi al Salmo 22,7-9. Secondo le diverse versioni, si fanno beffe di Gesù «quanti passano da lì», i «sommi sacerdoti», i «soldati» e persino «quelli che sono crocifissi con lui». Soltanto Luca (e il Vangelo [apocrifo] di Pietro) parlano di un sentimento di dispiacere in qualcuno.
99 Luca 23,27-31. Disponeva forse di una fonte particolare, ignota agli altri evangelisti (Fitzmyer, Taylor...)? Quel che è certo è che la mano e lo spirito di Luca si possono osservare quasi in ogni riga (Brown).
100 Il fatto viene in genere accettato come storico, sebbene il dettaglio sia stato probabilmente ricordato per influsso del Salmo 38,12: «I più vicini restano a distanza» (Brown).
101 Le «sette parole» di Gesù sulla croce non sono radicate nella tradizione se non in forma debole. Soltanto il grido: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» è attestato da più di un evangelista (Marco - Matteo). Le rimanenti parole compaiono soltanto alcune in Luca e altre in Giovanni, senza nessuna concordanza.
102 Il dato sembra storico. Così pensa la maggior parte degli autori; lo si ricordava forse perché un tal grido non è normale per un crocifisso che muore asfissiato.
103 Questo modo in intendere le «sette parole» può sconcertare qualcuno, ma è la posizione della maggioranza degli esperti, compresi autori così equilibrati come Brown, Lèon-Dufour, Grelot, Dunn...
104 Secondo Giovanni 19,26-27, «Gesù, vedendo sua madre e accanto a lei il discepolo che amava, dice a sua madre: "Donna, ecco tuo figlio". Poi dice al discepolo: "Ecco tua madre"». È difficile accettare la storicità dell'episodio. Nessun'altra fonte parla della presenza della madre di Gesù presso la croce; D'altro lato, la figura del «discepolo amato» compare soltanto nel Vangelo di Giovanni. La scienza è probabilmente una composizione giovannea.
105 Secondo Luca 23,39-43, mentre uno dei malfattori insulta Gesù, l'altro, rimproverando il compagno, ne difende l'innocenza. Poi, rivolgendosi a Gesù gli dice: «Gesù, ricordati di me quando verrai nel tuo regno». Gesù gli dice: «Ti assicuro che oggi sarai con me in paradiso». Questo dialogo fra i malfattori appesi accanto a Gesù, di cui soltanto Luca parla, è un artifizio. Gli insulti del primo malfattore sono ispirati agli insulti che, in Marco 15,30, proferiscono i passanti; d'altra parte, il linguaggio di Gesù risulta strano: egli era solito parlare del «regno di Dio», non del «paradiso». Secondo il Vangelo [apocrifo] di Pietro (13,14), uno dei malfattori rimproverò i soldati perché maltrattavano Gesù, e quelli, per vendetta, «ordinarono che non gli venissero spezzate le gambe, affinché morisse fra i tormenti». A quanto sembra, non esisteva un ricordo preciso circa l'operato di quei malfattori sulla croce. L'intento di Luca è probabilmente quello di presentare Gesù come il giusto 'oltraggiato dagli ingiusti e annunciare il perdono a ogni peccatore pentito.
106 Questa bella preghiera di perdono di Gesù verso i suoi carnefici non compare in codici così importanti e antichi come quello Vaticano, di Beza o le versioni siriaca e copta del codice Sinaitico. La preghiera è probabilmente ispirata al Padre Nostro. Venne pronunciata da Gesù e conservata soltanto da Luca? Circolò come detto indipendente, inserito più tardi nel Vangelo di Luca da un copista, mentre altri lo ignoravano? Fu redatta da Luca perché rispondeva all'atteggiamento di Gesù e più tardi soppressa da un copista che non vedeva di buon occhio «perdonare i giudei?». Non sappiamo nulla con certezza.
107 Così attestano in qualche modo i tre sinottici e il Vangelo [apocrifo] di Pietro. Anche la Lettera agli Ebrei parla del «possente clamore» che Gesù rivolge «a colui che poteva salvarlo dalla morte» (5,7).
108 Giovanni 18,11.
109 Giovanni si ispira indubbiamente al Salmo 69,22: «Hanno spento la mia sete con aceto». Ma nell'esclamazione di Gesù risuonano altri salmi: «La mia anima ha sete di Dio, del Dio vivente; quando potrò andare a vedere il volto di Dio?» (42,3); «0 Dio, tu sei il mio Dio, io ti cerco, la mia anima ha sete di te» (63,2).
110 Luca omette il grido angoscioso di Gesù tratto dal Salmo 22,2 e lo sostituisce con una preghiera di fiducia tratta dal Salmo 31,6. Accentua inoltre l'atteggiamento fiducioso di Gesù introducendo il termine «Padre» (Léon-Dufour, Grelot, Brown...).
111 Secondo il Vangelo [apocrifo] di Pietro Gesù gridò: «Mia forza, mia forza, mi stai abbandonando!» (19).
112 Alcuni autori (Sahlin, Boman, Lèon-Dufour, Brown...) non scartano la possibilità che Gesù morendo abbia gridato solo queste parole: 'Elì, 'attà, «Tu sei il mio Dio». Tale espressione si incontra appunto nei tre salmi che hanno ispirato gli evangelisti a mettere sulle labbra di Gesù una preghiera diversa in ogni caso. Il Salmo 22, citato da Marco, comincia con il «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?», ma questo sfogo culmina in: «Dal ventre di mia madre, tu sei il mio Dio» (22,11). Il Salmo 31, che offre a Luca la preghiera di Gesù: «Nelle tue mani affido il mio spirito», dice più avanti: «Io confido in te, Signore; ti dico: Tu sei il mio Dio». Il Salmo 63, che ha potuto ispirare l'«Ho sete», detto da Gesù secondo Giovanni, comincia così: «O Dio, tu sei il mio Dio, ti cerco all'aurora, la mia anima ha sete di te».

(FONTE: Gesù. Un approccio storico, Borla 2010, pp. 450-458)