Fu crocifisso per noi
sotto Ponzio Pilato,
patì e fu sepolto
Una visione protestante
Fulvio Ferrario
1. «VERAMENTE QUEST'UOMO ERA FIGLIO DI DIO» (MC. 15,39)
Secondo Marco 15,29-39, gli uomini della religione, ai piedi della croce di Gesù, sbeffeggiano il Crocifisso: «Ha salvato gli altri e non può salvare se stesso». Il Cristo, il Figlio di Dio, scenda ora dalla croce, «affinché vediamo e crediamo». Si esprime qui un'idea consolidata di Dio e della sua potenza che i lettori del Nuovo Testamento possono trovare ben esposta (da Satana...) anche nell'episodio delle tentazioni (Mt. 4,1-11 e paralleli). Nel racconto di Marco anche le due persone crocifisse insieme a Gesù lo insultano: la scena del cosiddetto «buon ladrone» è nota solo a Luca 23,40-43 e dev'essere intesa, con ogni verosimiglianza, come una leggenda edificante sviluppatasi in un secondo tempo. Il Crocifisso agonizzante invoca il suo Dio con le parole del Salmo 22,1, ma anche questo grido, come tutta la vita del Nazareno, viene equivocato: udendo l'Eloì, Eloì («Dio mio, Dio mio») di Gesù alcuni pensano, a motivo dell'assonanza, che chiami Elia e reagiscono con curiosità: e se fosse il prologo a un prodigioso colpo di scena? «Aspettate, vediamo se Elia viene a farlo scendere». Ma Elia non giunge e Gesù muore con «un gran grido». Non c'è in Marco la parola, piena di speranza, che Luca 23,46 riprende dal Salmo 31,6: «Padre, nelle tue mani affido il mio spirito»; né troviamo la serena affermazione di Giovanni 19,30, «E compiuto», quasi la nota conclusiva di un'aria di Bach (cfr., in effetti, l'aria «Es ist vollbracht», nella Passione secondo Giovanni e i commenti di Long 1997, pp. 141 s. e Pelikan 1994, pp. 171-176). C'è solo questo grido lacerante, che scardina i canoni stereotipati del racconto della morte dell'eroe con le sue «ultime parole famose» e il suo messaggio morale. I capi dei sacerdoti, gli scribi, gli altri due crocifissi e quanti vogliono vedere se viene Elia individuano nella morte di Gesù lo smascheramento del falso profeta, la sua definitiva e inequivocabile sconfessione da parte di Dio: «Colui che è appeso al legno è maledetto da Dio» (Deut. 21,23; sul riferimento di questo versetto alla crocifissione cfr. Hengel 1988, pp. 122-124 e passim). Non diversamente la pensava Pietro, che di fronte al preannunzio della Passione reagisce con un balzo indietro: non sia mai (Mc. 8,32 e paralleli). Ma la morte di Gesù è suscettibile di un'altra interpretazione che Marco mette in bocca a un centurione romano, verosimilmente il capo del plotone di esecuzione che ha crocifisso il profeta galileo. Questo pagano, «avendolo visto spirare a quel modo, disse: "Veramente quest'uomo era Figlio di Dio"». Avendolo visto spirare a quel modo, cioè nell'abbandono e nella solitudine. La confessione del centurione si ritrova in Matteo 27,54, dove però è propiziata dal terremoto e dalle risurrezioni di morti che secondo il primo evangelista accompagnano la morte di Gesù; in Luca 23,46, invece, l'ufficiale si limita a dichiarare che Gesù era certamente giusto. In Marco il centurione coglie quanto è rimasto nascosto all'establishment religioso ma anche, prima della Pasqua, al gruppo dei discepoli: che Dio si identifica con quell'uomo nudo, prigioniero, reso impotente e torturato. Secondo il nostro evangelista l' identità profonda di Gesù è espressa con correttezza e in termini equivalenti quanto all'essenziale anche dai demoni (1,24; 3,11; 5,7) e, soprattutto, da Pietro nell'episodio della cosiddetta confessione di Cesarea (8,29): tali affermazioni si basano però sulla potenza esorcistica di Gesù nel caso dei demoni, e più in generale sull'exousìa (autorità) della sua predicazione e della sua azione per quanto riguarda Pietro. Si tratta, naturalmente, di realtà effettive, ma Marco tiene a rilevare che queste ricevono il loro significato autentico solo alla luce della croce. Finché in Gesù si coglie soltanto il grande maestro, l'esempio di vita e l'operatore di segni potenti, egli può ancora essere annoverato nella schiera delle grandi figure religiose della storia dell'umanità e per questo il Gesù di Marco vieta ripetutamente, non solo ai demoni ma anche ai discepoli, di divulgare la sua identità (1,34; 3,12; 5,43; 7,24b; 7,36; 8,30; 9,9; 9,30). Gli studiosi parlano di «segreto messianico» in Marco (Wrede 1901; efficace sintesi del tema in Corsani 1982, pp. 245 s.): l'identità profonda di Gesù deve restare segreta sino al giorno della croce perché diversamente verrebbe fraintesa. Solo il Venerdì santo offre la chiave per l'autentica comprensione che viene proclamata per la prima volta da un pagano. In tale prospettiva, l'intenzione teologica dell'evangelista appare con chiarezza: l'«evangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio» (Mc. 1,1) dev'essere interpretato, per dirla con Paolo, come «parola della croce» (1 Cor. 1,18). Le chiese cristiane hanno incontrato e incontrano enormi difficoltà non solo a essere fedeli a tale messaggio ma già a coglierne la radicalità: Cristo crocifisso è «scandalo» (1 Cor. 1,23) per esse stesse prima ancora che per «i giudei». Si potrebbe addirittura sostenere che la radicalità della proclamazione di Paolo e Marco viene attenuata già nel racconto della passione in Matteo e (ancor più) in Luca e poi riletta da Giovanni in una prospettiva del tutto diversa. La parola della croce, tanto più se intesa come «buona notizia» (evangelo, appunto), è inaudita e destabilizzante, e assolutamente antireligiosa, se per religione si intende una visione del mondo che cerchi di comprenderne le contraddizioni alla luce dell'idea di una causa prima trascendente, origine e fondamento dell'armonia cosmica. Nella croce di Gesù il carattere contraddittorio della realtà è situato nel cuore stesso di Dio, il che conferisce un diritto relativo ma reale alla ripresa critica da parte cristiana del grido di Nietzsche: «Dio è morto!» (su questo tema cfr. Jüngel 1982, pp. 65-142; pp. 264-296 e passim). È innegabile, in ogni caso, che la vita stessa delle chiese consista in ultima analisi in un tentativo sempre rinnovato di ascoltare con serietà questo messaggio, accettando che metta radicalmente in discussione ogni forma di buon senso umano, tanto più se di carattere pio. In questo senso, per fare un esempio a mio avviso solo apparentemente banale, il fatto che proprio la croce e non, per esempio, qualche icona del Risorto sia stata eretta a proprio simbolo da tutte le confessioni cristiane può essere legittimamente letto come eco dell'affermazione del centurione. Anche il Credo di Nicea-Costantinopoli sottolinea a suo modo la centralità della croce: mentre il Credo apostolico recita a questo punto: «Patì sotto Ponzio Pilato, fu crocifisso, morì e fu sepolto»; il nostro testo include la morte nella menzione della crocifissione, che viene anteposta al «patì» per evidenziarla ulteriormente, infrangendo la logica della cronologia. L'evidente eco della croce nell'immaginario cristiano è tuttavia fortemente ambigua. Veniamo da venti secoli di cristianesimo, buona parte dei quali sono anche stati, prima in Europa e poi nel mondo di matrice culturale europea, secoli di cristianità: società, mentalità, visione dello Stato, leggi, etica e quant'altro hanno affermato di trarre la loro ispirazione, il loro immaginario e il loro linguaggio dall'universo simbolico cristiano. In questo quadro la croce ha assunto una pluralità di significati che oscura in modo decisivo l'affermazione del centurione. Già la leggenda del sogno di Costantino, in cui la croce appare come segno di vittoria militare, capovolge l'identificazione del Dio biblico con lo sconfitto di Nazareth nonché lo stile di vita di questo profeta disarmato: da allora la croce ha costituito il fregio di innumerevoli stendardi di eserciti, l'ornamento di armature, cannoni e navi da guerra nonché il marchio dell'oppressione per interi popoli asserviti dalle potenze cristiane. Ma anche nel caso più innocuo, quello appunto delle chiese che ne hanno fatto il loro simbolo, oppure di organizzazioni come la Croce rossa, lo strumento di tortura su cui è morto Gesù è stato trasfigurato in un'immagine religiosa o umanitaria: tuttavia, come rileva l'ateo Elias Canetti, di fronte alla crocifissione di Mathias Grünewald della pala d'altare di Isenheim, «la trasfigurazione si addice al concerto degli angeli, ma non alla croce» (Canetti 1982, p. 235). Quand'anche fosse vero (ed è dubbio che lo sia) che sul piano razionale tutti siano in grado di fare le debite distinzioni tra le diverse croci, ciò non sarebbe decisivo: è invece decisivo che la parola della croce, e la stessa parola «croce», abbiano perso, a livello di indicazione della realtà e più profondamente a livello simbolico, il significato che avevano per la comunità cristiana delle origini. Laddove «croce» indica lo spazio garantito alla religione nella società, anche secolarizzata, l'annuncio della morte di Gesù «fuori dalle porte» (Ebr. 13,12) della città santa, in terra sconsacrata, non può più essere udito nella sua tonalità caratteristica. Per tale motivo, prima di ogni altra considerazione, è essenziale comprendere l'assassinio di Gesù nella crudezza della sua realtà storica.
2. PERCHÉ GESÙ È STATO UCCISO?
La risposta a tale domanda è molto meno ovvia di quanto possa sembrare. A prima vista è fornita con chiarezza dai Vangeli, là dove affermano che Gesù è considerato colpevole di bestemmia e per questo condannato a morte (Mc. 14,64 e paralleli); si tratta tuttavia di un'apparenza che storicamente richiede precisazioni. I resoconti evangelici del processo di fronte al Sinedrio non possono derivare da testimonianze oculari e, per quel che possiamo sapere, non corrispondono all'andamento del processo in quella sede, pertanto dunque è difficile utilizzarli in modo diretto come fonte storica: essi riflettono l'interpretazione della morte di Gesù della comunità primitiva ben più dell'andamento effettivo del processo. Questo non significa che alcuni particolari non possano essere storicamente attendibili: per esempio, Gesù deve aver pronunciato una parola di carattere profetico sulla distruzione del tempio (Mc. 14,58 e parallelo); Giovanni 2,19-21 in modo del tutto plausibile, colloca tale detto nel quadro della purificazione del tempio (che però, a differenza dei Sinottici, situa all'inizio del ministero di Gesù) dandone una lettura figurata: il tempio che sarà distrutto e ricostruito sarebbe il corpo di Gesù. Si tratta evidentemente di un'interpretazione molto successiva alla Pasqua: il significato originario di questo elemento storicamente verosimile, dunque, ci sfugge, e probabilmente non era chiarissimo nemmeno alla comunità primitiva che, però, lo ha tramandato perché doveva essere molto ben attestato. Un altro elemento altamente verosimile è il rapporto tra la purificazione del tempio e il precipitare della situazione: l'episodio deve aver avuto vasta risonanza e non può essere sfuggito all'attenzione della guarnigione romana, la cui sede era oltretutto collocata nelle immediate vicinanze del tempio. Con ciò, tuttavia, abbiamo ancora acquisito assai poco circa le ragioni della morte di Gesù.
Se, tuttavia, i resoconti evangelici non permettono di ricostruire con esattezza la dinamica degli eventi, sono assolutamente attendibili per quanto riguarda i due elementi essenziali. Il primo è che Gesù è stato crocifisso per ordine del procuratore romano Ponzio Pilato, dunque sono stati i romani a condannarlo e giustiziarlo: ciò significa che la motivazione diretta della sentenza non deve essere stata di carattere religioso bensì politico. Gesù è stato condannato a morte perché ritenuto, almeno potenzialmente, un delinquente politico, forse sospetto di contiguità con il partito degli zeloti; è possibile che fossero zeloti i due uomini crocifissi con lui. Come già abbiamo rilevato, tutto ciò che sappiamo di Gesù ci induce a ritenere con certezza pressoché assoluta che non fosse uno zelota né si comprendesse come un nemico politico di Roma. Pilato, però, la pensava diversamente o comunque si è comportato come se così fosse. Il titulus, la scritta appesa alla croce con il motivo della condanna dice: «Il re dei giudei» (Mc. 15,26 e paralleli). Non è impossibile che sia un'eco di quanto Pilato ha creduto o finto di capire di Gesù: uno che voleva sfruttare la propria controversa ma notevole popolarità per fini che il procuratore romano non intendeva tollerare. Il secondo elemento assolutamente certo è che Gesù si è scontrato con altri ebrei del suo tempo, sicuramente con l'aristocrazia sacerdotale di Gerusalemme. Chi scrive condivide il parere di quegli esegeti che non ritengono possibile identificare in un singolo punto dottrinale il nucleo dello scontro. Non è verosimile, per esempio, che Gesù sia stato condannato perché si è proclamato Messia o Figlio di Dio: a parte il fatto che la critica biblica ha mostrato che tali titoli gli sono stati attribuiti dalla comunità mentre il Gesù storico non li ha usati a proposito di se stesso, questi non spiegano ancora uno scontro così drammatico; lo stesso deve dirsi della predicazione del Nazareno, compresa la sua interpretazione della legge che, come abbiamo visto, non può essere classificata né come «liberale», né come «rigorista». Più importante dev'essere stato invece l'atteggiamento provocatorio di Gesù così come si è espresso nella sua comunione di mensa con pubblicani e prostitute nonché nell'episodio del tempio, ma nemmeno tale elemento si presta a essere isolato come unica radice dello scontro. Questi dati si collocano naturalmente nel quadro della rivendicazione di autorità implicita in tutto l'atteggiamento di Gesù e in particolare nella libertà nei confronti della legge che abbiamo visto indicata in numerosi episodi evangelici, dalle dispute sul Sabato all'episodio dell'adultera (Giov. 8,2-11), libertà che viene enfatizzata nelle antitesi del Discorso della montagna (Mt. 5,17-48) e nell'uso, frequentemente attestato, dell'espressione «amen [in verità] vi dico» per introdurre diversi detti importanti. Occorre ripetere che, per quanto riguarda i dettagli, se è assai difficile sceverare il nucleo attribuibile al Gesù della storia dalle interpretazioni della chiesa primitiva, è anche impossibile negare che queste ultime siano l'eco del primo. Un simile atteggiamento e il relativo linguaggio non possono essere passati inosservati e gli avversari di Gesù vi hanno sicuramente visto un motivo importante per passare all'azione. Il Nuovo Testamento ci invita dunque a concludere che è stato l' insieme della prassi e della parola di Gesù a suggerire a molti suoi contemporanei che egli proclamasse un'«immagine di Dio», come diciamo oggi, non corrispondente alla comprensione diffusa delle Scritture di Israele. Resta naturalmente vero quello che oggi molti sottolineano e che anche noi abbiamo ricordato, cioè che la figura di Gesù può essere compresa solo nel quadro dell'ebraismo del suo tempo. In tale contesto, tuttavia, essa costituiva una realtà percepita come problematica e deviante. La ricerca recente è poi concorde nell'attribuire all'episodio della purificazione del tempio (Mc. 11,15-18 e paralleli) il significato di causa prossima del precipitare della situazione.
Ma se Gesù si è scontrato con i suoi correligionari per motivi legati alla fede, perché i romani lo hanno ucciso come delinquente politico? Per rispondere a tale domanda, ancora una volta, lo storico ha a disposizione soltanto la tradizione evangelica, la quale afferma che esponenti dell'establishment religioso di Gerusalemme hanno indotto Pilato a ritenere politicamente conveniente l'eliminazione di un facinoroso pseudoprofeta. Oggi alcuni, anche in ambito cristiano, scorgono in una simile versione l'ombra lunga dell'antiebraismo della chiesa, che dunque rappresenterebbe un elemento determinante dello stesso costituirsi della tradizione su Gesù: gli evangelisti, cioè, attribuirebbero alle macchinazioni dei capi ebrei e all' ira cieca della folla quella che in realtà è stata puramente e semplicemente opera di Ponzio Pilato. In questo si rifletterebbero tanto gli scontri tra la sinagoga e la comunità primitiva quanto la volontà di quest'ultima di minimizzare la responsabilità dei romani. Bisogna dire che, mancando fonti extracristiane, la versione suggerita dai Vangeli non può essere dimostrata con certezza assoluta e che indubbiamente tanto la polemica con la sinagoga quanto la volontà di presentare il potere romano nella luce meno negativa possibile hanno contribuito in modo significativo a plasmare il racconto della Passione. Dall'altra parte, nel suo nucleo, la tesi proposta dai Vangeli non può essere neppure smentita: offre anzi un'interpretazione dei fatti sostanzialmente coerente e in grado di spiegare l'enigma decisivo, ossia l'uccisione da parte dei romani di un ebreo che si era scontrato con alcuni dei suoi. Chi afferma il contrario deve sostenere che la morte di Gesù sia priva di ogni rapporto con la sua predicazione e la sua azione, che il conflitto tra Gesù e i suoi avversari vada considerato una disputa teologica analoga, per esempio, a quella tra le scuole del liberale Hillel e del rigorista Shammai, e che più tardi la tradizione cristiana avrebbe enfatizzato tale contrasto al punto da inventare, a questo proposito, un radicale dissenso nel modo di comprendere Dio. Non sono tesi semplici da difendere.
Se viceversa i Vangeli hanno ragione nella sostanza, la morte di Gesù è l'ultimo atto di uno scontro al centro del quale c'è l'annuncio, da parte del profeta di Nazareth, del buon Dio, del Dio delle peccatrici e dei peccatori, di chi non può far valere benemerenze religiose né morali di alcun tipo. Tale Dio, ripetiamolo ancora una volta, non è un altro rispetto al Dio di Israele, ma il suo annuncio ha determinato in Israele un terremoto dalle conseguenze tragiche. La decisione del profeta di Nazareth di recarsi a Gerusalemme nell'imminenza della Pasqua è stata percepita come un'ulteriore provocazione. Non è affatto sicuro che Gesù stesso abbia attribuito alla sua entrata nella città santa un significato programmatico o addirittura messianico anche se è chiaro che la tradizione evangelica (Mc. 11,1-10 e paralleli) l'ha intesa così; certo, lo abbiamo già ricordato, il gesto profetico nel tempio ha contribuito significativamente a far precipitare il conflitto. Non è possibile ricostruire storicamente come Gesù abbia personalmente valutato la situazione dato che le profezie della Passione e della risurrezione attribuitegli dagli evangelisti (Mc. 8,31;10,31; 10,33-34 e paralleli) sono senz'altro frutto della riflessione teologica della comunità cristiana: tuttavia non pare azzardato ritenere che l'acuirsi dello scontro e le verosimili conseguenze non possano essergli sfuggite. Gesù va incontro a un'opposizione evidentemente più forte di lui confidando nel sostegno del buon Dio. Alla vigilia dello scontro finale (secondo i Vangeli sinottici, la sera prima della sua esecuzione), egli celebra una cena con il gruppo a lui più vicino. Diversi autori sostengono che i Vangeli sinottici comprendono l'episodio come un banchetto pasquale, anche se il resoconto non depone in modo significativo in tal senso (cfr. le osservazioni di Theissen-Merz 1999, pp. 521-523). Le parole pronunciate da Gesù in quell'occasione, così come sono state tramandate da tradizioni riprese da Paolo e dai primi tre Vangeli (1 Cor. 11,23-25; Mc. 14,17-25 e paralleli) riflettono ampiamente la liturgia eucaristica della comunità cristiana. Da esse e da tutto il contesto, tuttavia, occorre concludere che Gesù concepisce la propria passione e morte: a) come un evento che vive nel nome di Dio; b) come rivelazione della tenacia senza fine dell'amore di questo Dio; c) come espressione della convinzione che il significa-to ultimo dell'evento e le sue conseguenze sono nelle mani di Dio stesso, il quale è fedele e non abbandona il suo servo. Le tradizioni evangeliche evidenziano che Isaia 53 è stato decisivo, agli occhi della comunità, per interpretare la Passione: gli esegeti ritengono tuttavia del tutto improbabile che il Gesù della storia abbia compreso il proprio dramma alla luce di quel testo. Naturalmente, non è possibile attribuire al Gesù storico la teologia della croce che la chiesa primitiva svilupperà dopo la Pasqua, tuttavia quest'ultima non sarebbe stata possibile senza la memoria della vita di Gesù e della sua determinazione di annunciare, non soltanto di fronte alla morte ma mediante la sua stessa morte, accolta nella fede, l'evangelo del buon Dio.
3. CROCIFISSO SOTTO PONZIO PILATO
La crocifissione costituisce una forma di esecuzione capitale ben nota e ampiamente praticata nel mondo antico (per quanto segue cfr. Hengel 1988, pp. 33-129). Presso i persiani e i cartaginesi veniva utilizzata soprattutto per punire alti funzionari colpevoli di tradimento o grave inefficienza, capi militari sconfitti e rivoltosi; anche nel mondo greco è attestata come rappresaglia in occasione di sommosse sedate o per vendicare la resistenza di città nemiche. A Roma costituisce soprattutto la pena destinata agli schiavi (celebre la crocifissione di seimila seguaci di Spartaco lungo la via Appia), ai membri delle classi più umili, occasionalmente ai responsabili di alto tradimento, mentre ai cittadini romani e alle persone abbienti venivano di solito riservate forme di esecuzione meno crudeli, come la decapitazione: non mancano tuttavia casi di crocifissione anche di esponenti dell'ordine equestre. In generale il mondo antico fa affidamento sul carattere deterrente di questa tortura, curando in modo accentuato la sua spettacolarità. Il condannato viene solitamente sottoposto a varie violenze preliminari, in particolare alla flagellazione: esse hanno anche la funzione di fiaccarne la resistenza, favorendo il sopraggiungere della morte. Questi è poi frequentemente obbligato a portare personalmente la «traversa», cioè la parte orizzontale della croce fino al luogo dell'esecuzione, in mezzo alla folla che le testimonianze ci descrivono regolarmente inferocita e desiderosa di ubriacarsi della violenza che sta per compiersi. Sovente la vittima porta al collo un cartello, che poi viene appeso alla croce, con una sintetica motivazione della condanna. Le mani o i polsi del disgraziato vengono poi inchiodati (più raramente legati) alla traversa, la quale è quindi fissata a un palo preventivamente conficcato nel terreno. Di solito quest'ultimo non è molto più alto di una persona, anche se a volte una croce particolarmente alta viene utilizzata per dare visibilità all'esecuzione. La vittima è quindi abbandonata al dolore delle torture e dei chiodi, agli agenti atmosferici e agli insetti; in alcune occasioni il crocifisso è esposto alle bestie feroci che lo divorano vivo; la durata del supplizio dipende evidentemente dalla resistenza del condannato e dall'intensità delle torture a cui è stato in precedenza sottoposto; la morte sopraggiunge per sfinimento o, più specificamente, per soffocamento quando l'agonizzante non è più in grado di far forza sulle gambe per respirare. La raffinatezza sadica degli aguzzini giunge a volte a rifinire la croce mediante un pezzo di legno posto all'altezza dell'osso sacro che, come una sorta di piccolo sedile, viene «offerto» alla vittima come punto di appoggio, onde aumentarne la resistenza e, dunque, prolungarne l'agonia.
L'assoluta normalità della crocifissione nel mondo antico e la compiaciuta spettacolarità della procedura si situano in singolare contrasto con la reticenza delle fonti a parlarne: da un lato la società pare aver bisogno di questi bagni di ferocia che ritiene tutelino stabilità e ordine; dall'altro parlarne e scriverne è considerato di cattivo gusto. Le espressioni di pietà per i torturati sono abbastanza rare in quanto si ritiene che il malfattore, lo schiavo, il traditore ricevano la giusta punizione: a questo proposito è degno di nota che, nello stesso Nuovo Testamento, non si trovi una sola sillaba che critichi il genere di esecuzione in quanto tale. Proprio tale funzione di annegare nel sangue e nel dolore le spinte ribelli della feccia della società fa sì che la crocifissione sia tenuta a distanza, con pochissime eccezioni, dai racconti di martirio di eroi e personaggi famosi e, a maggior ragione, di dèi. Nel mondo ebraico, poi, la maledizione di Deuteronomio 21,23 caratterizza in modo ulteriormente sinistro l'orrore del supplizio.
Per tutte queste ragioni, quando Filippesi 2,8 precisa che Gesù si fece obbediente «fino alla morte e alla morte di croce» (cfr. Hengel 1988, pp. 99 s., secondo il quale la menzione della croce appartiene all'inno originale prepaolino e non è stata aggiunta dall'apostolo), non, si tratta di pedanteria cronistica: il carattere paradossale, provocatorio, considerato dall'antica opinione pubblica grottesco e insieme insolente, per se stesso meritevole di punizione, dell'annuncio di «Cristo e questi crocifisso» (1 Cor. 2,2) si comprende solo su questo sfondo. Gesù di Nazareth, che la comunità primitiva proclama essere il Messia, è stato spogliato, picchiato, frustato e coperto di sputi, quindi trascinato, tra gli schiamazzi della folla, in un tragico corteo, fino a una collina detta «luogo del teschio» (Mc. 15,22 e paralleli) e lì inchiodato, appeso alla croce e lasciato ad attendere la morte, che secondo il resoconto evangelico sopraggiunge alquanto in fretta, evidentemente a motivo della prostrazione del condannato. Questo è ciò che pensa, che vede nella propria immaginazione, qualunque uomo o donna dell'antichità quando sente parlare di croce.
Gesù muore solo: i discepoli che avevano condiviso con lui l'ultima cena si dileguano e Pietro lo rinnega; secondo Marco 15,40 solo alcune discepole assistono all'esecuzione, da lontano; l'affermazione di Luca 23,49, che menziona la presenza di «tutti i suoi conoscenti» va considerata secondaria e lo stesso deve naturalmente dirsi, a maggior ragione, della presenza delle «tre Marie» e del «discepolo che Gesù amava», narrata da Giovanni 19,25-28. Gesù «fu sepolto»: l'affermazione del Credo non ha puro valore di cronaca, ma intende ribadire, con tutto il Nuovo Testamento, la realtà della sua morte. Non siamo di fronte al dio che abbandona le proprie sembianze terrene per tornare in cielo ma davanti a un vero uomo, veramente crocifisso, che muore una vera e (dis)umana morte, dopodiché viene sepolto (il che, a dire il vero, non è sempre il caso dei crocifissi). I Vangeli non lasciano alcun dubbio circa il fatto che l'arresto e la morte di Gesù gettino il gruppo dei suoi seguaci nella più completa costernazione, un'eco della quale si trova ancora nelle parole attribuite da Luca 24,21 ai discepoli di Emmaus: le attese e le speranze legate al Maestro sono appese, con lui, al legno del supplizio. Com'è potuto accadere che in seguito proprio la morte abbietta di Gesù sia stata annunciata come l'evento salvifico? Anticipando alcuni elementi di quanto dovrà essere svolto in seguito con maggiore ampiezza, occorre dire che ciò è stato reso possibile solo dal fatto che il Crocifisso si è manifestato ai suoi come vivente. Le apparizioni del Risorto hanno proiettato sul Venerdì santo una luce nuova, del tutto inattesa, conferendo alla morte del Nazareno un significato insospettato. Secondo il Nuovo Testamento si è trattato di una rivelazione sconvolgente, inattesa e alquanto difficile da esprimere mediante le categorie religiose disponibili ma che si impone con forza, plasmando l'annuncio della comunità. Se il Crocifisso vive, poiché Dio lo ha risuscitato dai morti, allora la sua morte, senza nulla perdere della propria tragicità, assume un diverso significato: non è la sconfitta di un pazzo visionario bensì la rivelazione di un Dio che accetta di subire l'estrema violenza piuttosto che rinunciare alla propria identità, la quale è dedizione sconfinata, amore violentato ma non violento, perdono per gli assassini. Alla luce della Pasqua, l'evento storico della croce assume un significato assoluto e definitivo (escatologico), rivelando il volto di Dio «una volta per sempre» (Rom. 6,10; Ebr. 7,27; 10,10). Alla luce della Pasqua, i discepoli scoprono, con indescrivibile stupore, che la morte di Gesù, senza cessare di essere l'ennesima manifestazione della brutalità assassina del genere umano, costituisce il decisivo intervento di salvezza di Dio. La maledizione della croce è ora intervento di Dio «per noi» (Gal. 3,13), «per i nostri peccati» (1 Cor. 15,3), dalla cui condanna ci libera, «per molti» (Mc. 14,24) «per tutti» (Ebr. 2,9). Che cosa significano queste e le affermazioni analoghe del Nuovo Testamento?
4. PER NOI
Come s'è accennato, la luce proiettata dalla risurrezione sulla croce di Gesù dev'essere stata talmente abbagliante da richiedere al gruppo a lui legato, per esplicitarne le conseguenze, un articolato processo di elaborazione. In Matteo 23,37 («Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi quelli che ti sono mandati, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figliuoli, come la gallina raccoglie i suoi pulcini sotto le ali; e voi non avete voluto») troviamo, messo in bocca a Gesù, un retaggio di quella che probabilmente è la più antica interpretazione della croce da parte della comunità: il Crocifisso è visto sulla scia dei profeti veterotestamentari (cfr. anche 1 Tess. 2,15; Rom. 11,2 s.); la risurrezione rappresenta l'intervento di Dio che sana l'ingiustizia, ristabilendo il diritto del suo servo (così in At. 2,23; 3,15; 4,10; 10,39 s. che dovrebbero rifarsi a tradizioni piuttosto antiche). Nella morte e risurrezione di Gesù le Scritture si compiono (tra i molti passi, cfr. Mc. 14,49) secondo il piano di Dio stesso, che mira alla salvezza. La morte di Gesù è un evento salvifico. Perché?
La tradizione cristiana risponde a tale domanda utilizzando una serie di immagini tratte dall'universo religioso dell'Antico Testamento debitamente reinterpretate (tra i numerosissimi studi, su quanto segue, cfr. Hengel 1988, pp. 131-228 e G. Barth 1995 in prospettiva esegetica e Gunton 1988 in chiave sistematica). Una prima metafora importante è espressa in Marco 10,45 e paralleli e ripresa in Matteo 20,28: la vita di Gesù è data come «prezzo di riscatto per molti» (I Tim. 2,6: «per tutti»). Quanto Gesù patisce libera l'umanità dalle conseguenze della propria colpa. La morte di Gesù ha dunque un significato di espiazione vicaria: egli soffre al posto nostro e per tale motivo la sua morte è per noi. Una simile visione, prima ancora di essere spiegata, suscita in noi moderni un'istintiva repulsione: sembra infatti che Iddio abbia bisogno, per placare la propria ira, di sangue umano e, addirittura, di quello di suo Figlio. Per cercare di entrare in questo linguaggio occorre tener presente che esso presuppone l'idea che la colpa, anche quella individuale, abbia conseguenze sociali e, più ampiamente, universali: mediante il peccato l'umanità si è separata da Dio, ha eretto una barriera tra sé e il Creatore, dando vita a una struttura di rapporti basati sulla violenza. Secondo la prospettiva neotestamentaria, nella croce di Gesù, Dio stesso abbatte tale barriera, presentandosi al mondo violento come colui che sceglie una strada diversa. In Gesù Dio sceglie di subire piuttosto che colpire: tale decisione si colloca in continuità con la volontà benevola espressa nella creazione e costituisce l'indicazione della nuova creazione dell'ultimo giorno. Essa dona all' umanità la possibilità di una vita riconciliata. I due aspetti decisivi per comprendere l'idea dell'espiazione vicaria sono dunque: a) che in Gesù Dio stesso si fa carico della situazione compromessa; b) che, sopportando le conseguenze di quest'ultima, egli rende possibile un cammino su nuove basi, in cui la contraddittorietà della storia non è annullata ma riceve luce dalla prospettiva del compimento finale, il quale sarà il trionfo dell'amore di Dio presente nella creazione e manifestato radicalmente il Venerdì santo. Tutto ciò, occorre dirlo ancora una volta, ha senso solo a partire dalla Pasqua: il Risorto, presente nella comunità mediante lo Spirito, render possibile comprendere la croce come espressione dell'amore del Padre. La fede della chiesa cristiana si declina fin dalle origini in termini trinitari anche quando questi non sono espliciti.
L'idea dell'espiazione si presenta in modo massiccio anche nella variante cultuale, che vede in Gesù il sacrificio offerto una volta per sempre (Ebr. 7,27; 9,12; 10,10). Il tema è sviluppato in modo sistematico dall'Epistola agli Ebrei: se nell'economia dell'antico patto il sacrificio liturgico è una dimensione della restaurazione del giusto rapporto con Dio, la morte di Gesù svolge tale funzione in modo definitivo. In quanto è l'evento della riconciliazione finale dell'umanità e del mondo con Dio, può essere descritta come l'ultimo e assoluto sacrificio che inaugura l'era in cui il culto sacrificale è definitivamente superato: il culto cristiano è annuncio, celebrazione, rendimento di grazie (eucaristia), intercessione, ma non sacrificio nel senso dell'Antico Testamento e di varie altre espressioni del mondo delle religioni. L'idea è ulteriormente sottolineata dal fatto che l'Epistola agli Ebrei vede in Cristo non solo la vittima sacrificale ma anche il sacerdote, cioè colui che celebra il sacrificio (2,17 e passim). Il Vangelo di Giovanni, indicando in Gesù l'Agnello (animale sacrificale, appunto) di Dio (1,29.36, ma anche, con chiara allusione, 19,32: all'agnello sacrificato non vengono spezzate le ossa) si muove nella stessa direzione, così come l'Apocalisse in cui l'immagine dell'Agnello è ricorrente. È importante ribadire che l'utilizzazione della categoria di sacrificio da parte del Nuovo Testamento svuota, per così dire, dall'interno la logica religiosa sacrificale: in Gesù è Dio stesso a operare il sacrificio che reca salvezza, trasformando così quella che era una richiesta di prestazioni religiose umane in un dono: questo libera la comunità cristiana dall'esigenza di offrire a Dio prestazioni religiose per ottenerne la benevolenza. Quando dunque Paolo esorta i credenti a «presentare i [. ..] corpi in sacrificio vivente, santo, gradito a Dio» (Rom. 12,1), esprime l'avvenuto mutamento di prospettiva: se Dio non ha bisogno di prestazioni sacrificali per riconciliarsi con l'umanità, l'autenticità dell'esperienza di fede cristiana si esprime nel mettere il corpo, cioè la concretezza della propria esistenza umana, al servizio delle altre e degli altri nella vita quotidiana. Il baricentro dell'espressione umana della fede si sposta dal tempio alla società, dal culto sacrificale all'impegno secolare nella storia (fondamentale, al riguardo, Käsemann 1985, pp. 146-152).
Paolo approfondisce in modo determinante queste immagini cogliendo il fatto che la morte di Gesù, avvenuta in nome della Legge, inaugura un rapporto completamente nuovo tra l'umanità e la Legge stessa: è come se la capacità della Legge di condannare il peccatore si fosse concentrata su Gesù, liberando così noi tutti (Gal. 3,13). Dopo Gesù, la Legge e le sue conseguenze non si possono più comprendere come parola che condanna poiché «il documento a noi ostile», che smaschera il peccato e ci mette sotto accusa è stato «inchiodato alla croce», come afferma Colossesi 2,14, interpretando in forma assai plastica il pensiero dell'apostolo; in ambito cristiano, la Legge mantiene il proprio valore (Rom. 3,31), ma non può più essere vista, grazie alla croce, come «causa dell'inimicizia» (Ef. 2,15). Secondo Paolo, poiché la croce è l'evento salvifico, l'obbedienza al comandamento di Dio, senza nulla perdere della sua importanza, non va intesa come «opera» che l'essere umano possa far valere come un merito nei confronti di Dio. L'obbedienza è espressione grata e gioiosa della novità della vita redenta, ma la salvezza non ne dipende, bensì è legata in tutto e per tutto alla grazia di Dio rivelata in Cristo crocifisso.
Con ciò siamo già passati a un'ulteriore immagine del significato della croce di Gesù: quella della rivelazione della giustizia di Dio, centrale in Paolo, in particolare nelle epistole ai Galati e ai Romani. In Galati 2,21 l'apostolo afferma che se la «giustizia» dipende dalla Legge, Cristo è morto inutilmente. Giustizia è qui il giusto rapporto dell'essere umano con Dio; la croce di Cristo sarebbe inutile se tale rapporto fosse raggiungibile mediante l'obbedienza; in realtà è lo stesso Dio d'amore che ci viene incontro, e la croce di Gesù è il luogo eminente in cui tale prossimità si manifesta e in cui ci viene attribuita la giustizia di Dio. Si può mostrare (Jüngel 1978) che il contenuto del messaggio paolinico, cioè la vicinanza di Dio manifestata come perdono gratuito e immeritato, è anche al centro della tradizione evangelica ed è esplicitamente tematizzato nelle parabole di Gesù. È tuttavia Paolo che elabora il linguaggio tecnico dell'annuncio della giustizia di Dio e che pone con maggior forza il rapporto tra questa e la morte in croce di Gesù. Nell'antica teologia cristiana è Agostino a sottolineare l'importanza della riflessione di Paolo nel quadro del Nuovo Testamento; nel XVI secolo la Riforma protestante riscopre con forza il primato del messaggio della giustificazione che con grande cura elabora in prospettiva dottrinale (tra le molte sintesi al riguardo cfr. Lohse 1995, pp. 274-294 e McGrath 2000, pp. 115-148). Nei successivi cinque secoli la testimonianza resa dalle chiese della Riforma all'evangelo della giustizia di Dio manifestata nella croce di Gesù è stata motivo di aspra condanna da parte della chiesa cattolico-romana: negli ultimi decenni sembra che tali contrasti possano essere relativizzati, e autorevoli documenti ecumenici ritengono anzi di poter già constatare un consenso di fondo sull'essenziale (cfr. Maffeis 1998 e Ferrario-Ricca 1999).
In Paolo l'evento della croce di Cristo è approfondito teologicamente come rivelazione del volto di Dio e unica chiave interpretativa della realtà. Se Dio è colui che si rivela nel Crocifisso, le «cose forti» di questo mondo, le cose «che sono», che contano a occhi umani sono private della loro consistenza a opera di Dio, il quale mette al centro le cose «ignobili», «sprezzate», «che non sono»; e ogni tentativo di parlare di Dio che non abbia nel dono manifestato nella morte di Gesù il proprio inizio, la propria sostanza e la propria conclusione è destinato a infrangersi di fronte alla decisione del Creatore di rivelarsi nella «parola della croce» (1 Cor. 1,18-31). Anche da questo punto di vista, la risurrezione di Gesù illumina il significato definitivo e assoluto (escatologico) della croce: quando Dio sarà «tutto in tutti» (1 Cor. 15,28), la verità del Crocifisso sarà manifestata nella gloria come il volto primo e ultimo della creazione (questo è il tema fondamentale della grande interpretazione dell'Epistola ai Romani offerta da Käsemann 1973). È necessario ribadire che la riflessione dell'apostolo non presenta un contenuto diverso rispetto ai Vangeli ma fornisce un quadro teologico altamente elaborato che costituisce per le chiese cristiane un criterio decisivo di lettura dell'intero Nuovo Testamento.
Secondo Paolo e la tradizione che a lui si richiama, la morte di Gesù dev'essere anche vista come evento di riconciliazione tra Dio e gli esseri umani (Rom. 5,10; 2 Cor. 5,18 s.): nel pensiero apostolico l'azione riconciliatrice è quella di Dio che interviene in Cristo. Affermando la propria verità nella croce, Dio toglie di mezzo il potere del peccato di separare l'essere umano da Dio e instaura la propria signoria, che è signoria dell'amore. L'immagine della riconciliazione tende fortemente a convergere con l'annuncio della giustificazione. Tuttavia, come è stato mostrato soprattutto da Dietrich Bonhoeffer (Bonhoeffer 1995), mostra specifiche potenzialità sulpiano etico: chi guarda la realtà come riconciliata in Cristo, cioè in ultima analisi come unitaria e accolta da Dio, è invitato a superare un'etica dei princìpi per svilupparne una che parta dall'adesione, critica ma cordiale, alla «legge del reale», cioè alla concretezza della storia, vissuta come spazio in cui si esercita, nel servizio, la responsabilità dei/delle credenti.
Il Nuovo Testamento descrive la croce di Gesù anche come vittoria sulle forze negative che incatenano le donne e gli uomini a un destino di morte (cfr. Aulén 1930/31, unilaterale ma importante). In Matteo 27,5 lb-53 la morte di Gesù è accompagnata da un terremoto e dalla risurrezione di «molti corpi di santi»: l'idea è che siamo di fronte all'evento finale, in cui Dio cambia il corso della storia opponendo il suo definitivo no a tutto ciò che si oppone alla pienezza di vita delle sue figlie e dei suoi figli e che si riassume nella morte. Analogamente va letto Ebrei 2,14 s.: qui si afferma che «colui che ha potere sulla morte» è il diavolo, la cui autorità è annullata dalla morte di Gesù. Il motivo della vittoria dell'«Agnello sgozzato» è poi centrale nel libro dell'Apocalisse: anzi, l'Apocalisse (rivelazione) è questo, lo squadernamento del Dio mistero della storia, del suo senso nascosto, Gesù ucciso e vincitore, che trascina nella vittoria coloro che sono uccisi a motivo del suo nome. Lungi dall'essere una raccolta di oracoli sulle dinamiche della fine del mondo e dei relativi segni premonitori, l'Apocalisse è il più politico di tutti i libri neotestamentari (cfr. Käsemann 1972, pp. 165-181) e si rivolge a comunità perseguitate fino alla morte dal potere romano annunciando che la vera, grande battaglia è già stata vinta, dall'Agnello che riscatta il sangue dei testimoni.
In forza dell'insieme del messaggio biblico, tuttavia, occorre generalizzare l'affermazione: Cristo riscatta non solo il sangue dei testimoni ma di tutti i morti, a cominciare da quanti sono morti «per niente». Qui trova la sua profonda ragion d'essere il motivo, presupposto e in ogni caso presente in molti testi, della discesa di Gesù negli inferi tra il Venerdì santo e la Pasqua (Mt. 12,40; At. 2,24-27; Rom. 10,7; I Pie. 3,19; 4,6), evento in cui vince le potenze dei luoghi profondi, recando libertà a quanti sono imprigionati nel regno dei morti. Si tratta evidentemente di una concezione mitologica, ben nota all'immaginario religioso del mondo antico (G. Barth 1995, pp. 139-141) e ripresa dal Credo apostolico nell'affermazione che Cristo «discese nel soggiorno dei morti». Anche se il linguaggio in cui si esprime non è per noi facile da comprendere, tale motivo è importante: significa che la morte di Gesù estende la propria potenza salvifica anche all'indietro, conferendo una prospettiva nuova e inattesa anche alla morte di chi è vissuto prima di lui. Più in generale, la discesa di Gesù nel soggiorno dei morti vuole sottolineare la presenza salvifica della croce di Gesù in tutte le situazioni e i luoghi in cui la morte manifesta nel modo più acuto la propria assurdità. L'inferno è Auschwitz, sono i quartieri metropolitani dove i barboni muoiono di freddo, è quella parte di mondo (due terzi? tre quarti?) in cui bambini e adulti muoiono a milioni di fame o assassinati dai poteri locali, lontano dagli obiettivi delle telecamere. Affermando che Gesù è «disceso nel soggiorno dei morti» la chiesa cristiana intende annunciare che non esiste morte di donna o uomo che non sia assunta nella salvezza donata da Dio in Gesù Cristo. Nessuno, credente o ateo, può sottrarsi alla constatazione che la storia è dominata da forze oscure che si nutrono di sangue e dolore che sono più potenti di ogni buona volontà. Ebbene, la Bibbia osa affermare che l'amore di Dio in Gesù crocifisso giunge là dove nessuna forza buona ed emancipatrice può giungere, recando salvezza a chi è stato schiacciato dal male.
L'idea della morte di Cristo come vittoria che si estende a tutti gli sconfitti si presta, naturalmente, a essere attaccata come sublimazione della sconfitta, della debolezza e in generale della morte. Coloro che sono stati schiacciati dalla storia e comunque quanti non riescono ad accettare il comune destino di morte nel suo carattere ineluttabile si consolerebbero a buon mercato con pensieri trionfalistici legati alla croce e alla risurrezione di Cristo, pegno di una redenzione tanto radicale quanto invisibile e mai sperimentata da nessuno non perché nascosta ma perché illusoria. Anzi, la predicazione della croce come vittoria non sarebbe solo del tutto inutile ma anche dannosa in quanto favorirebbe la rassegnazione e la passività, scoraggiando quel poco o tanto di opposizione pratica alle forze del male che gli esseri umani potrebbero mettere in campo. Tale critica radicale si è presentata, in particolare negli ultimi secoli, in tutte le possibili varianti, dal pessimismo cosmico di Leopardi all'umanesimo politico-emancipatorio della tradizione marxista, all' Anticristo di Nietzsche, legato alla sua dottrina del Superuomo che, anche interpretata in optimam partem, non pare dissociabile da un oscuro irrazionalismo che pone drasticamente in questione la possibilità di progettare forme di convivenza davvero umane. Nella sua radice profonda, una simile posizione è la rigorosa conseguenza di ogni ateismo, che rifiuta come improponibile la stessa domanda sul senso della realtà. Come già abbiamo ricordato, è possibile mostrare (Küng 1978, pp. 495-508) che tale atteggiamento, che può esprimersi coerentemente solo come nichilismo, cioè rifiuto radicale di un valore legato alla realtà stessa (ontologico), non può essere mantenuto in modo rigoroso. L'azione, qualunque azione, implica una scelta che richiede una ragione e quindi un senso. Il nichilismo, e la disperazione, più o meno filosoficamente ammantata, che questo porta con sé, non può tuttavia essere confutato sul piano del ragionamento. La chiesa di Gesù crocifisso può opporgli solo la testimonianza, cioè una prassi che mostri che la vittoria di Cristo sulle potenze della morte ha già qui e ora conseguenze cariche di significato in grado di inserire nella tragedia della storia prospettive di speranza. La proclamazione della parola della croce diviene immediatamente vocazione al servizio.
Nel Vangelo di Giovanni il racconto dell'ultima cena è sostituito da quello della lavanda dei piedi (Giov. 13,1-20), in cui il Signore si manifesta come servo: lo fa per dare un esempio (13,5) «affinché anche voi facciate come ho fatto io». La croce di Cristo, in quanto chiave interpretativa della sua vita, ha un decisivo significato esemplare, in quanto chiama a «seguire le sue orme» (1 Pie. 2,21); il discepolo che vive della grazia è «imitatore» (1 Tess. 1,6; 1 Cor. 11,1) di Cristo. Il motivo dell'esempio è sicuramente quello più facilmente comprensibile perché immediatamente traducibile in termini morali; non a caso, proprio quando, penetrando nella teologia cristiana, la critica razionalista pone in dubbio il significato delle immagini neotestamentarie che cercano di spiegare il significato salvifico della morte di Gesù, il tema dell'esempio viene ulteriormente sottolineato in quanto privilegerebbe la concretezza dell'agire morale su quelle che vengono ritenute le fumisterie mitologiche e teologiche dell' «espiazione», del «riscatto» e simili. È certamente vero quello che afferma Ernst Käsemann in un passo memorabile: se anche di tutto il messaggio cristiano capissi e vivessi «soltanto» l'esempio di solidarietà umana di Gesù, «saprei pur sempre qualcosa di lui. Se non vivessi e non credessi null'altro, vivrei e crederei pur sempre con lui e un solo raggio della sua luce nella nostra esistenza mi sembra più importante di tutto il sole di un'intera ortodossia» (Käsemann 1972, p. 47). L'unica risposta possibile, in effetti, è «amen». Tuttavia anche Käsemann afferma che, nella prospettiva della Scrittura, la forza di Gesù come esempio deriva dal fatto che la sua è la croce del Figlio di Dio e che dunque essa inserisce nella realtà la potenza salvifica del Creatore e non semplicemente quella dell' azione umana moralmente significativa. In tale quadro il motivo dell'esempio è assolutamente centrale proprio perché trascrive nella prassi la fede nella potenza del Crocifisso, impedendole di degenerare in ideologia religiosa. La vicenda di Gesù e la sua morte sono esemplari perché rivelano il punto di vista di Dio nei confronti della storia: Dio guarda il mondo, le donne e gli uomini con gli occhi del Crocifisso. In Gesù, si identifica con i crocifissi della storia e, facendolo, assegna alla sua chiesa il posto e la prospettiva che le competono. La chiesa di Gesù guarda la storia (deve guardarla, è chiamata a guardarla) dal punto di vista di Gesù e non da un altro: cioè da quello degli uccisi e non degli uccisori, degli sfruttati e non degli sfruttatori, dei poveri e non dei ricchi, degli «affamati e assetati di giustizia» (Mt. 5,6) e non dei difensori dei privilegi di pochi. Essa è consapevole che «lo sguardo dal basso» (Bonhoeffer 1988, p. 74) o, il che è lo stesso, dall'alto della croce, dalla prospettiva degli ultimi, è un punto di vista accanto ad altri, parziale e relativo: ma si tratta della parzialità di Dio stesso che, come s'è già detto, non è affatto neutrale né equidistante.
Parlando delle diverse letture bibliche della croce come di «immagini» o, più precisamente, «metafore», non intendiamo in alcun modo svalutarle ma, al contrario, metterne in luce il valore decisivo nei suoi aspetti culturalmente condizionati e in quelli permanenti. Le metafore bibliche sono, in ogni caso, relative, in un duplice senso.
a) In primo luogo, ognuna di esse trova la propria interpretazione e il proprio limite nelle altre. Nessuna metafora può essere isolata e il significato salvifico della croce «per noi» scaturisce dal reciproco rapporto tra le diverse immagini anche quando è di tensione dialettica. In tale prospettiva non pare appropriato parlare, per esempio, di una dottrina biblica del sacrificio espiatorio bensì di un'immagine del sacrificio espiatorio che, insieme ad altre, intende esprimere in che senso la croce di Gesù cambia la nostra vita e la nostra morte.
b) Inoltre, le metafore bibliche non devono né intendono impedire di crearne di nuove: la teologia è anzi chiamata ad attingere a piene mani alla sapienza di fede custodita nella liturgia e nella preghiera, ma soprattutto alla storia delle donne e degli uomini, alla prassi di liberazione umana e alle lotte che la accompagnano per esprimere in forme e linguaggi sempre nuovi il significato della croce di Gesù. Le immagini della Scrittura hanno tuttavia un essenziale valore di paradigma e di criterio critico poiché non tutte le metafore sono adatte a testimoniare ciò di cui parla il Nuovo Testamento. Quando per esempio la retorica nazista considera Gesù come l'eroe ariano e interpreta la sua morte sulla scorta del canto di Horst Wessel (ex lenone arruolato nei cosiddetti «reparti d'assalto» di Ernst Röhm e morto in una rissa), ciò non costituisce un aiuto a ri-dire la verità di Dio: la teologia cristiana, mentre auspica una moltiplicazione di immagini e di modelli per raccontare alle donne e agli uomini del nostro tempo l'opera di Dio in Gesù, è anche chiamata a esercitare un'attenta opera di discernimento affinché le diverse metafore siano eco autentica, anche se necessariamente parziale, dell'unico evangelo.
L'universo simbolico legato a termini come «espiazione», «riscatto», «sacrificio», «vittoria» e anche «esempio» permette al Nuovo Testamento di chiarire che la croce di Gesù è opera dell'amore di Dio. Naturalmente essa resta un evento storico che esprime in modo eminente l'umana crudeltà ma in quanto tale si pone sullo stesso piano delle altre, innumerevoli croci erette nel corso della storia; anche il fatto che quella di Gesù sia la morte di un giusto innocente non la distingue, purtroppo, da mille e mille altre. L'aspetto decisivo che fa sì che essa sia «per noi» è che Dio fa propria questa storia di dolore e, in essa, si porge all'umanità come colui che subisce la violenza, ma in modo assolutamente attivo, offrendo il proprio amore senza confini. Dio Padre fa propria la sofferenza e la morte del Crocifisso e lo Spirito ne rinnova giorno per giorno l'efficacia nella storia: in nome dell'Ucciso è possibile camminare di fronte a Dio e al servizio delle donne e degli uomini, liberi dalla paura del peccato, cioè consapevoli che questo non ci impedisce un'esistenza pienamente umana, carica di significato, e promessa a nulla di meno che alla vittoria sulla morte, inaugurata da Gesù. Da questo punto di vista trinitario, parlare del «Dio crocifisso» (Moltmann 1973) è certo paradossale ma, in quanto si tratta effettivamente del paradosso della rivelazione, biblicamente corretto. L'ascolto dell'annuncio biblico della croce di Gesù chiama alla riflessione teologica, impone di cercare di comprendere quanto si crede, per amarlo e viverlo. Né la comprensione né la prassi, tuttavia, sono l'ultima parola della fede, ma entrambe sfociano nella lode. La contemplazione credente della croce induce la chiesa ad associarsi alla celebrazione apostolica del «Dio per noi»: «Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Colui che non ha risparmiato il suo Figlio, come non ci donerà anche tutte le cose con lui? [.. .] Poiché io sono persuaso che né morte, né vita, né angeli, né principati, né cose presenti, né cose future, né potestà, né altezza, né profondità, né alcun'altra creatura, potranno separarci dall'amore di Dio che è in Cristo Gesù, nostro Signore» (Rom. 8,31 s.38 s.).
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(FONTE: Libertà di credere. La fede della Chiesa, Claudiana 2000, pp. 117-138)