Mors turpissima crucis
Giuseppe Barbaglio
Hengel e Kuhn ci hanno messo a disposizione un ricco dossier di testimonianze letterarie latine e greche. Il lessico era vario: crux e stauros i sostantivi che indicano propriamente il palo verticale, con i corrispondenti verbi crucifigere/stauroun. Patibulum indica una pars pro toto: era di fatto la sbarra orizzontale della croce. Più generici i termini di «legno» (lignum/xylon) e di palo (stipes/skolops). Si ricorreva infine ai verbi appendere (suspendere/kremannynai) e inchiodare (affigere/prosêloun).
La croce aveva diverse forme: con la trave traversale fissata in cima al grande palo verticale a forma di T (crux commissa) o anche a metà in forma di Ϯ (crux immissa). Il condannato, nudo, era immobilizzato con le braccia legate mediante corde o anche, più raramente, con chiodi ai piedi e alle braccia. Perché il corpo del crocifisso non pesasse in giù provocando una fine repentina per asfissia, veniva fissato al palo verticale uno sgabello su cui poteva appoggiare il sedere e in qualche modo reggersi; invece le testimonianze del supporto per appoggiarvi i piedi (suppedaneum) non risalgono oltre il III sec. d.C. Anche un grosso tronco di albero però bastava per appendervi, legato, un condannato.
Le croci erano piantate in luogo pubblico ed esposto perché fossero visibili e così raggiungessero il loro scopo di deterrenza. In merito abbiamo la testimonianza di Tacito: a Roma le esecuzioni avvenivano sul colle Esquilino (campus Esquilinus), «luogo riservato alle pene servili» (locus servilibus poenis sepositus) (Ann 15,60,1). Se il condannato doveva portare la croce, questa in realtà era limitata al patibolo, mentre il palo verticale era ben fissato sul posto.
La crocifissione veniva eseguita in più modalità. Lo attesta per es. Flavio Giuseppe: «... i soldati si divertivano a crocifiggere i prigionieri in varie posizioni, e tale era il loro numero che mancavano lo spazio per le croci e le croci per le vittime» (Bell 5,451). Ma più analitico è Seneca in Dial 6,20,3: «Vedo qui delle croci, non però dello stesso genere, ma costruite da questi in un modo e da quelli in un altro. Alcuni appendono le loro vittime a testa in giù, altri le impalano, altri divaricano le braccia sul patibolo».
Del titulus crucis, una tavoletta su cui era scritta la causa della condanna, abbiamo testimonianze nelle Vite dei Cesari di Svetonio: lo storico romano parla di uno schiavo colpevole, preceduto da una tavoletta indicativa della ragione della pena (praecedente titulo qui causam poenae indicaret), condotto a un pubblico banchetto e circondato dai commensali (Calig 32,2); quindi narra di un padre di famiglia della Tracia condannato nell'arena ai cani cum hoc titulo: Impie locutus parmularius («Un fautore del partito dei gladiatori traci ha parlato in modo empio») (Domit 10,1). Da parte sua Dione Cassio si riferisce a uno schiavo condotto attraverso il foro «con un'iscrizione (grammata) che notificava il motivo (hê aitia) del suo essere portato alla morte, e dopo essi lo crocifissero» (54,3,7). A Tertulliano che afferma: «Quando nella tavoletta (tabella) voi leggete questo capo d'accusa "cristiano"...» (Apolog 2,20) fa eco Eusebio di Cesarea: «Preceduto da una tavoletta (pinax) nella quale era scritto in lingua latina: "Costui è Attalo cristiano", fu condotto in giro per l'anfiteatro» (Hist Eccl 5,1,44).
La croce era annoverata tra le pene più orribili, anzi spesso capeggiava la classifica. Nelle Sententiae Paulus elenca come pene massime crux, crematio, decollatio (5,17,2). Ma anche la damnatio ad bestias a volte era inserita al vertice delle pene più spaventose. Apuleio infatti attesta questa triade: ferae, ignis, patibulum (Metam 6,32,1); Tacito inverte i termini delle ultime due: ferae, crux, ignis (Ann 15,44,4) e Lucano ha il seguente ordine: crux, flammae, dens ferarum (Pharsalia 10,517). Anche Ignazio di Antiochia menziona la s detta triade, invertendo l'ordine dei componenti: pyr, stauros, theriôn systaseis (fuoco, croce, branchi di belve) (Rom 5,3).
Cicerone la considera «il più crudele e orrido supplizio (crudelissimum taeterrimumque supplicium)» (In Verrem 2,5,64,165) e Seneca chiama la croce infelix lignum (legno sterile) (Epist 101,14), si parlava anche di infamis stipes (palo infamante) (Anthologia Latina 415). Per Origene è la pena più oscena: mors turpissima crucis (Comm in Matt 27,22-26).
Non solo la croce in sé, ma la parola stessa evocava quanto di più spaventoso e orribile esiste al mondo, come attesta Cicerone, inter prete dell'unanime sentire umano: «La parola stessa di croce stia lontana non solo dal corpo dei cittadini romani, ma anche dai loro pensieri, dagli occhi e dalle orecchie (nomen ipsum crucis absit non modo a corpore civium Romanorum, sed etiam a cogitatione, oculis, auribus)» (Pro Rabirio 5,16). Era noto anche il proverbio latino «I in malam/maximam crucem», che voleva dire: «Vai al diavolo» (Plauto; Asin 940).
Non mancano testimonianze che la definiscono la pena che più di ogni altra suscitava commiserazione e pietà. Flavio Giuseppe la chiama infatti la morte più degna di compassione (thanaton ton oiktiston: Bell 7,203). Luciano di Samosata mette in bocca a Prometeo questa confessione: «Sono stato crocifisso nel Caucaso come lo spettacolo più commiserevole (oiktiston theama) per tutti gli Sciti» (Prometheus 4). Sempre Flavio Giuseppe in Bell 5,450 si limita all'aggettivo di base: «passione» degna di avere pietà (oiktron to pathos). Lo stesso storico in Ant 13,380 parlando dell'iniziativa di Alessandro Ianneo di condannare al patibolo 800 ebrei, suoi avversari, la qualifica «azione di una crudeltà senza pari» (pantôn ômotaton ergon) e poco dopo di pena che supera i limiti umani (hyper anthrôpon) (Ant 13,380 e 381).
La descrizione di Seneca evidenzia lo strazio del crocifisso denunciando «l'infame voto di Mecenate» che l'accetta volentieri pur di continuare a vivere: «Vale la pena di pendere dal patibolo con le braccia slogate e il corpo piagato, nella speranza di rinviare quella che, nei tormenti, è la cosa più desiderabile: la fine dei tormenti stessi? [...] Si trova un uomo che, attaccato al maledetto patibolo (illud infelix lignum), ormai sfinito con le spalle e il petto deformati dalla gobba, ha già, oltre il supplizio della croce, mille motivi per desiderare la morte, eppure vuole prolungare l'esistenza che prolungherà i suoi tormenti?» (Ep 101,12.14). Nella stessa lettera il filosofo chiarisce che la morte in croce è una prolungata agonia, un diu mori (ibid. 13).
E la crocifissione era solo l'ultimo atto della tortura, perché di regola la precedeva la flagellazione (mastigoô/ mastizoô/ mastix) del condannato insieme ad altre forme sadiche (basanoi/ basanizô) con cui si infieriva sul malcapitato. Così Flavio Giuseppe parla di quanti avevano tentato la fuga durante l'assedio di Gerusalemme: «furono presi anche molti dei moderati e condotti davanti a Floro [il procuratore romano], che dopo averli fatti flagellare (mastixin proaikisamenos) li mise in croce (anestaurôsen)» (Bell 2,306). Più in generale dei prigionieri di guerra attesta: «venivano flagellati e, dopo aver subito ogni sorta di supplizi prima di morire, erano crocifissi di fronte alle mura» (Beli 5,449). La ferocia di Floro (procuratore negli anni 64-66) giunse a decretare la flagellazione e la crocifissione a carico di «persone appartenenti all'ordine equestre», giudei con cittadinanza romana (Bell 2,308). Luciano di Samosata attesta come nel diritto penale fosse previsto che prima della crocifissione il condannato poteva essere sottoposto alla flagellazione. Narra infatti di un gruppo di persone che propongono pene per un uomo: se il primo dice: «Io suggerisco che sia crocifisso. Un altro: Sì, per Dio; ma che prima sia flagellato» (mastigôthenta ge proteron) (Piscator 2).
Il disonore per un crocifisso e la sua famiglia raggiungeva il vertice nel frequente abbandono del cadavere insepolto alla fame degli uccelli. Artemidoro afferma che la dovizia del crocifisso è di «nutrire molti corvi» (Inirocrit 4,49) e Petronio gli fa eco: crucis offla, corvorum cibaria («ciò che pende dalla croce è cibo dei corvi») (Satyricon 58,2).
La pena capitale della crocifissione di provenienza, sembra, persiana, era stata fatta propria dai romani, forse per influsso dei cartaginesi (cf. il martirio di Attilio Regolo), riservata soprattutto agli schiavi e ai liberti, rei di crimini. Per questo si chiamava servile supplicium (Tacito, Hist 4,11,3), supplicium in servilem modum (Tacito, Hist 2,72,2), serviles cruciatus (servili torture) (Tacito, Ann 3,50,1) e lo stesso Cicerone la definì in maniera equivalente servitutis extremum summumque supplicium (In Verrem 2,5,66,169). Era una pena che poteva colpire uno schiavo anche arbitrariamente e per capriccio sadico, come attesta Giovenale in un famoso dialogo in cui irride un marito tiranneggiato dalla moglie che spadroneggia in casa: «"Fai crocifiggere questo schiavo! (Pone crucem servo)" ti grida. "Che cosa ha fatto per essere messo in croce (Meruit quo crimine servus supplicium)? Chi sono i testimoni? Chi l'ha denunciato? Ascolta: c'è sempre tempo a uccidere un uomo!". "Sciocco! Forse che uno schiavo è un uomo (ita servus homo est)? Anche se non fatto nulla voglio che sia messo in croce lo stesso; lo comando (hoc volo, sic iubeo). E se lo comando io, basta così (sit pro ratio voluntas)"» (Sat 6,219).
Nelle province dell'impero romano serviva da strumento di suasione per tutti i patrioti ribelli e di terrore per i sudditi. Per la s connotazione di particolare crudeltà e di grande disonore i cittadini romani ne erano di principio esenti: Cicerone può incolpare il governatore romano di Sicilia, Verre, di aver osato in crucem agere una persona che era cittadino romano (In Verrem 2,5,63,16s). Possiamo dunque capire che Paolo di Tarso, cittadino romano, l'abbia evitato morendo decapitato secondo la tradizione attestata nel 200 circa Tertulliano: «gli apostoli hanno sparso il loro sangue per la fede, Pietro ha uguagliato la passione del Signore, Paolo è stato coronato con la morte propria di Giovanni Battista (Petrus passioni dominiate adaequatur; Paulus Iohannis exitu coronatur)» (De praescr haer, 36,3). Solo in caso di alto tradimento contro la patria un cittadino r mano poteva essere messo in croce. Cicerone infatti parla in proposito di perduellio (Pro Rabirio 10). Nel mondo greco si cominciò a farne uso con Alessandro Magno e i Diadochi (cf. Hengel); in precedenza la sensibilità umana dei greci li portava a escluderla. Fu abolita da Costantino in segno di rispetto per la croce di Cristo e a ricordo della sua visione «In hoc signo vinces», come attesta lo storico Sozomeno: Costantino «che aveva una singolare venerazione per la santa croce», «soppresse con una legge dall'uso dei tribunali il supplizio fino ad allora abituale presso i Romani» (Hist eccl 1,8,12 e 13).
Quanto disprezzo circondasse a Roma una credenza religiosa incentrata in un crocifisso, appare con tutta evidenza nel famoso reperto archeologico del Palatino con la figura di un crocifisso dalla testa di asino e la sottostante iscrizione: «Alessameno adora dio (Alexamenos sebete [per sebetai] theon)», un evidente motteggio anticristiano della Roma antica.
Si riteneva che la pena della crocifissione fosse sconosciuta nel mondo giudaico. Basti citare la seguente dichiarazione di Joh. Schneider di diversi anni fa: «Il diritto penale giudaico non conosceva la crocifissione. Secondo la legge giudaica la sospensione al legno si applicava agli idolatri e ai bestemmiatori lapidati, ma non come pena di morte, bensì solo come pena aggiuntiva, a morte intervenuta. In tal modo il giustiziato veniva bollato come maledetto da Dio conformemente a Deut 21,23 (LXX): "Chiunque pende da un legno è maledetto da Dio". Queste parole nel giudaismo furono riferite anche a un crocifisso» (GLNT XII, 975). Ma oggi si valutano testimonianze da cui si può concludere che anche autorità giudaiche, certo in misura assai inferiore alla prassi romana, condannarono alla croce. A proposito di Alessandro Ianneo che fece affiggere in croce 800 giudei, suoi nemici, abbiamo la testimonianza attendibile di Flavio Giuseppe (Ant 13,380). Alla stessa atrocità si riferisce 4QpNah 3-4,1,7b-8: «appese uomini vivi [all'albero, commettendo un abominio che non si commetteva] in Israele dall'antichità, poiché è terribile per l'appeso vivo all'albero». Il Rotolo del Tempio di Qumran poi prevede la pena della crocifissione per il crimine di tradimento: «Nel caso che vi sia un uomo che fa la spia ai danni del suo popolo o che tradisce il suo popolo [...], appendilo al legno e muoia [... . Nel caso che un uomo commette un peccato (per cui è prevista) a sentenza di morte, che fugga fra i gentili e che maledica il suo popolo e i figli d'Israele, appendilo pure lui al legno e muoia» (11Q Templ 64,6b-8,a e 9b-11a). Segue una norma sui corpi crocifissi; «Non lasciate appesi al legno i loro cadaveri, ma seppelliteli il giorno stesso» (11QTempl 64,11b) (tr. A. Vivian).
A queste annotazioni si aggiunga lo stesso Paolo che conferma come la croce fosse intesa dai suoi correligionari segno di maledizione divina; scrivendo infatti ai cristiani della Galazia parla di Gesù in croce maledetto da Dio secondo il dettato di Dt 21,23, e paradossalmente fonte di benedizione salvatrice per i credenti (cf. Gal 3,13- 14). Il carattere infamante della crocifissione è attestato ancora in altri scritti della Bibbia cristiana. La Lettera agli Ebrei afferma che Gesù «si sottopose alla croce con sprezzo della vergogna (aischynés)» (Eb 12,2). E poco più avanti esorta i credenti ad uscire dall'accampamento e ad andare verso Cristo, «portando il suo obbrobrio (oneidismos)» (Eb 13,13). A sua volta Paolo in Gal 5,11 parla di «scandalo della croce», che è preferibile tradurre con «croce scandalosa». Un messia crocifisso non può che essere «pietra d'inciampo per i giudei e follia per i gentili» (1Cor 1,23). La crocifissione è stata per Cristo il massimo dell'umiliazione: «Si è abbassato facendosi obbediente sino alla morte, dico sino alla morte in croce!» (Fil 2,7-8).
In breve, una violenza massima, fisica e morale, è stata fatta a Gesù, accomunato in questo alla feccia della società dell'impero romano.
Come reperto archeologico, importantissima è stata la scoperta nel 1968, appena fuori del perimetro urbano di Gerusalemme, verso nord, in località Giv`at ha-Mivtar, sito di una necropoli giudaica, tra altri di un ossario con i resti di un uomo crocifisso, chiamato Jehohanan, come si legge sull'ossario stesso, giustiziato non durante guerra giudaica ma qualche anno prima della metà del I secolo, dunque pochi anni dopo la crocifissione di Gesù. L'analisi accurata de studiosi ha offerto questi risultati attendibili: probabilmente le braccia del condannato - non vi sono stati rilevati traumi - furono legate piuttosto che inchiodate alla croce; i piedi invece sono stati inchiodati lateralmente alla croce: è stato infatti trovato il chiodo di 11 cm circa che ha trapassato l'osso del calcagno destro, ma, essendo penetrato nel legno storto, non fu tolto per non danneggiare il piede del condannato; dunque il crocifisso stava a gambe divaricate a cavalcioni della trave verticale.
Naturalmente non si può dire se Jehohanan e Gesù siano stati crocifissi allo stesso modo. Come mostra la scoperta, Jehohanan ebbe onorevole sepoltura. Una prova che anche il nazareno poteva avere la stessa sorte.
(FONTE: Gesù ebreo di Galilea. Indagine storica, EDB 2012, pp. 484-490)