Gesù davanti a Pilato
Rinaldo Fabris
In tutti e quattro i Vangeli si racconta che Gesù è consegnato dal supremo consiglio ebraico al governatore romano (Ponzio) Pilato (Mc 15,1; Mt 27,2; Le 23,1; Gv 18,28). Il particolare dell'intervento di Pilato nella storia di Gesù è confermato da Tacito e da Flavio Giuseppe. Si discute sul ruolo del rappresentante di Roma nella condanna di Gesù. Il governatore si è limitato a ratificare e dare esecuzione alla "sentenza" del sinedrio? Ha impostato in modo autonomo un nuovo procedimento, che si è chiuso con una sentenza di condanna alla morte di croce? Si fa anche l'ipotesi che Pilato abbia tenuto conto del risvolto politico delle accuse presentate dal sinedrio contro Gesù, e, facendo un supplemento di indagini, sia arrivato alla conclusione che Gesù è passibile della pena capitale. Per rispondere a questi interrogativi e verificare le varie ipotesi, si devono esaminare i testi dei Vangeli sul ruolo di Pilato nella vicenda di Gesù, confrontandoli con le altre fonti sulla figura del governatore romano e sulla sua amministrazione della Giudea dal 26 al 36 d.C.
Nei quattro Vangeli il dibattimento davanti a Pilato segue un canovaccio comune:
1. le autorità ebraiche, che hanno condotto Gesù dal governatore, lo accusano;
2. Pilato interroga Gesù, che tace o risponde in modo reticente;
3. il governatore romano cerca, con qualche espediente — scambio con Barabba — di liberare Gesù, perché si rende conto che è innocente;
4. sotto l'incalzare delle autorità ebraiche, che mobilitano la folla, Pilato fa condannare Gesù alla morte di croce.
Su questo schema tradizionale s'innestano gli ampliamenti dei singoli autori dei Vangeli secondo il proprio progetto redazionale. Matteo segue la traccia di Marco, con alcune aggiunte sul destino tragico di Giuda e il ruolo del popolo che chiede la crocifissione di Gesù. L'autore del quarto Vangelo presenta un quadro drammatico, con due scenari: all'interno del pretorio si svolge il dialogo tra Gesù e Pilato, all'esterno avviene la trattativa di Pilato con i capi dei sacerdoti e i Giudei.
Nel racconto di Luca, fin dall'inizio, si riportano i capi di accusa contro Gesù: «Abbiamo trovato costui che metteva in agitazione il nostro popolo, impediva di pagare tributi a Cesare e affermava di essere Cristo re» (Lc 23,2)30. Davanti a Pilato Gesù è accusato di essere un agitatore, che solleva il popolo contro l'occupazione romana e si proclama Messia, che, in termini politici, significa "re". L'accusa di proclamarsi "re" è presupposta nella domanda che Pilato rivolge a Gesù in tutti e quattro i racconti: «Sý eî ho basiléus tôn Iudàiōn?, "Tu sei il re dei Giudei?» (Mc 15,2; Mt 27,11; Gv 18,33). Il dibattimento davanti a Pilato ruota attorno all'appellativo "re dei Giudei", riportato anche nel titulus della tavoletta apposta alla croce, dove si riassume il motivo della condanna di Gesù. Davanti al governatore romano la sua pretesa messianica è una minaccia per la sovranità di Roma in Giudea. In tutte le province dell'impero, l'unico basiléus legittimo è il "principe" di Roma, che può dare o riconoscere il titolo di re a qualche governante locale benemerito, come nel caso di Erode, riconosciuto rex socius dal senato.
Luca, che ha formulato in modo esplicito l'accusa delle autorità ebraiche davanti al governatore romano, si preoccupa di mostrare che Gesù è innocente. Dopo la domanda iniziale – "Tu sei il re dei Giudei?" – Pilato dichiara ai capi dei sacerdoti e alle folle: «Non trovo in quest'uomo alcun motivo di condanna» (Lc 23,4). Gli accusatori insistono dicendo: «Costui solleva il popolo, insegnando per tutta la Giudea dopo aver cominciato dalla Galilea, fino a qui» (Lc 23,5). Il riferimento all'attività di Gesù in Galilea dà l'appiglio a Pilato per inviare Gesù al tetrarca Erode Antipa, che è l'autorità competente per quel territorio. Il narratore segnala che anche Erode si trova in quei giorni a Gerusalemme, come Pilato. L'autore del terzo Vangelo ha dei canali per attingere informazioni su Erode Antipa (cf. Lc 8,3; At 13,1). L'intermezzo dell'incontro di Gesù con il tetrarca della Galilea offre a Luca l'occasione per far dichiarare per la seconda volta la sua innocenza. Nonostante le accuse dei capi dei sacerdoti e degli scribi contro Gesù, Erode non prende nessuna decisione e lo rimanda dal procuratore. Rivolgendosi alle autorità ebraiche, Pilato dice: «Mi avete portato quest'uomo come agitatore del popolo. Ecco, io l'ho esaminato davanti a voi, ma non ho trovato in quest'uomo nessuna delle colpe di cui lo accusate; e neanche Erode: infatti, ce l'ha rimandato. Ecco, egli non ha fatto nulla che meriti la morte» (Lc 23,13-15). I due rappresentanti del potere politico centrale e locale sono concordi nel riconoscere l'innocenza di Gesù. Prima di cedere alla richiesta di quelli che vogliono la crocifissione di Gesù, Pilato, "per la terza volta", dichiarerà: «Non to trovato in lui nulla che meriti la morte» (Lc 23,22).
La tendenza apologetica di Luca, nel racconto del dibattimento davanti a Pilato, corrisponde all'impostazione complessiva della sua opera in due libri. Più volte nel racconto della missione di Paolo negli Atti degli apostoli egli mostra che il movimento fondato da Gesù, ingiustamente condannato alla morte di croce, non è una minaccia per le istituzioni dell'impero (cf. At 17,6-7; 18,12-16). Nella prospettiva apologetica rientra anche la proposta di Pilato di uno scambio di Gesù con Barabba, un sedizioso, messo in prigione per omicidio (Lc 23,17- 19.25).
Per il rappresentante dell'impero, Gesù non è una minaccia né per l'ordine pubblico, né per il governo di Roma in Giudea. Su questo sfondo risalta l'incoerenza del governatore romano. Mentre riconosce che Gesù non ha fatto nulla che meriti la morte, nello stesso tempo lo sottopone alla pena della flagellazione, con il proposito di liberarlo (Lc 23,15-16.22). Nel racconto lucano la flagellazione di Gesù sarebbe un tentativo di Pilato per sottrarre Gesù alla morte di croce. Alla fine il governatore cede alla pressione di quelli che a gran voce chiedono che sia crocifisso: «Consegnò Gesù al loro volere» (Lc 23,25).
L'orientamento apologetico, più evidente nella narrazione lucana, è presente, con toni diversi, anche negli altri racconti. Marco e Matteo motivano la proposta di Pilato dello scambio Gesù-Barabba, con questa annotazione: «(Pilato) sapeva che i capi dei sacerdoti glielo (Gesù) avevano consegnato per invidia, dià phthónon» (Mc 15,10; Mt 27,18)33. I capi dei sacerdoti – "gli anziani" (Mt) – sobillano la folla e la persuadono a chiedere il rilascio di Barabba e la morte di Gesù (Mt). Mentre Pilato prende la difesa di Gesù, chiedendo alla folla: «Che male ha fatto?», la folla, sobillata dalle autorità, reclama a gran voce che sia crocifisso (Mc 15,14; Mt 27,23).
Parallelamente alla promozione del governatore romano ad "avvocato" di Gesù, si accentua la responsabilità dell'autorità ebraica e della folla. Matteo drammatizza quest'antitesi nella scena di Pilato, che si lava le mani davanti alla folla. Mentre egli dichiara: «Non sono responsabile di questo sangue», "tutto il popolo" grida: «Il suo sangue ricada su di noi e sopra i nostri figli» (Mt 27,24-25). Il significato del gesto di Pilato, delle sue parole e della risposta del "popolo" si comprende sullo sfondo della normativa biblica relativamente all'omicidio commesso da ignoti. Gli anziani della città più vicina al luogo, dove è stato trovato il cadavere, si laveranno le mani su una giovenca, a cui è stata spezzata la nuca in un torrente, dicendo: «Le nostre mani non hanno sparso questo sangue...non imputare al tuo popolo Israele sangue innocente!» (Dt 21,7-8).
Anche l'autore del quarto Vangelo attribuisce la morte di croce di Gesù alla pressione o al ricatto dei Giudei, che minacciano di denunciare Pilato a Cesare perché vorrebbe liberare Gesù, che si proclama "re dei Giudei": «Se liberi costui, non sei amico di Cesare! Chiunque si fa re si mette contro Cesare» (Gv 19,12). L'espressione "amico di Cesare" (imperatore) richiama il titolo onorifico ufficiale attribuito ad alcuni alti funzionari benemeriti dell'impero. Nel clima di sospetti per delitti di "lesa maestà", sotto Tiberio, soprattutto dopo la caduta di Seiano nell'ottobre del 31 d.C., le parole dei Giudei possono essere interpretate come ricatto politico nei confronti di Pilato (cf. Tacito, Ann. III, 38; Svetonio, Tib. 58).
La scena finale, ricostruita dall'autore del quarto Vangelo, prepara l'esito tragico del dibattimento del caso di Gesù davanti a Pilato. Il governatore lo fa condurre fuori, si siede in tribunale «nel luogo chiamato Litòstroto, in ebraico Gabbatà» (Gv 19,13)36. L'autore segnala il momento e l'ora in sintonia con il calendario liturgico ebraico: «Era la Parasceve della Pasqua, verso mezzogiorno» (Gv 19,14). Pilato si rivolge ai Giudei dicendo: «Ecco il vostro re!». Essi gridano: «Via! Via! Crocifiggilo!». In tono provocatorio Pilato domanda: «Metterò in croce il vostro re?». I capi dei sacerdoti dichiarano: «Non abbiamo altro re che Cesare» (Gv 19,15). Nella breve frase conclusiva l'autore conferma la sua prospettiva circa il ruolo dei Giudei nella morte di Gesù: «Allora lo consegnò loro perché fosse crocifisso» (Gv 19,16). La situazione è paradossale: rifiutando Gesù, i Giudei scelgono Cesare come unico loro "re". Sullo sfondo di questa scena giovannea stanno le pagine bibliche, dove il popolo di Israele sceglie un re terreno, al posto dell'unico re, che è Dio (cf. Gdc 8,22-23; 1Sam 8,7-8; 12,12). Rinunciando all'unica sovranità di Dio, si sottomettono al potere mondano che ne prende il posto.
1. La figura del governatore Pilato nelle fonti extra-evangeliche
La versione giovannea del dibattimento di Gesù davanti a Pilato ne accentua la dimensione apologetica e soprattutto "cristologica", presente, in gradazione diversa, anche nel racconto della passione dei Vangeli sinottici. Davanti a questa situazione dei testi si pone l'interrogativo: Qual è l'attendibilità storica dei racconti dei Vangeli circa la comparizione di Gesù davanti al governatore romano? Prima di dare una risposta si devono confrontare i dati evangelici con quelli delle fonti profane sulla figura e l'attività amministrativa di Ponzio Pilato in Giudea.
Lo storico ebreo Flavio Giuseppe, nelle sue due opere maggiori: La Guerra giudaica (75-79 d.C.) e Le Antichità giudaiche (93-94 d.C.), riporta alcuni episodi relativi al governo di Ponzio Pilato in Giudea dal 26 al 36 d.C., che consentono di farsi un'idea del suo carattere e della sua linea politica nel rapporto con i Giudei e con le autorità del tempio. Nei primi anni della sua amministrazione il nuovo governatore, che succede a Valerio Grato, provoca la reazione dei Giudei con alcuni gesti che rivelano la sua scarsa sensibilità politica. Rompendo con una consuetudine rispettata dai suoi predecessori, durante un trasferimento dei soldati da Cesarea a Gerusalemme, Pilato fa introdurre nella città, nottetempo, i medaglioni con l'immagine o i busti dell'imperatore che fanno parte delle insegne militari. Di fronte alla reazione dei Giudei, che si recano a Cesarea per chiedere la rimozione delle immagini, considerate una violazione della loro tradizione religiosa e dello statuto della città santa, Pilato, dapprima tenta di rispondere con una dimostrazione di forza, simulando un attacco dei soldati contro gli inermi Giudei, poi cede alla loro resistenza e dà ordine di rimuovere le immagini dell'imperatore (G. Flavio, Bell. Il, 9,2-3 [169-174]; Ant. 18, 3, 1 [55-59]).
Un episodio analogo capita alcuni anni dopo a proposito degli "scudi dorati", recanti un'iscrizione in onore dell'imperatore. L'episodio è riferito da Filone di Alessandria, nella Legatio ad Gaium, dove si riporta una lettera del re Agrippa all'imperatore Caligola (37 d.C.). A prova della politica tollerante e liberale dell'imperatore Tiberio verso gli Ebrei, si cita il caso di Pilato, che aveva fatto esporre al palazzo di Erode a Gerusalemme gli scudi dorati con iscrizioni, che furono interpretati dai Giudei come implicito riferimento al culto dell'imperatore. I notabili ebrei, sostenuti dai figli di Erode, chiesero che fossero rimossi, minacciando di inviare una delegazione di protesta a Roma. Di fronte a questa minaccia Pilato fa ritirare gli scudi dedicatori. Nella Lettera si riporta un giudizio sul carattere di Pilato: «Era per natura inflessibile e, in aggiunta alla sua arroganza, duro». Il governatore aveva paura di un ricorso dei notabili giudei a Roma, perché c'era il rischio che fossero denunciate altre cose della sua amministrazione, tutte «le sue concussioni, le sue violenze, le sue rapine e brutalità, le sue torture e la serie di esecuzioni senza processo, la sua crudeltà spaventosa e senza limiti... Con il suo temperamento vendicativo e violento Pilato si trova in difficoltà: non ha il coraggio di togliere gli scudi dedicati all'imperatore e nello stesso tempo non vuole dare soddisfazione ai sudditi ebrei». I maggiorenti di Gerusalemme ne approfittano per inviare la loro supplica a Tiberio, che ordina a Pilato di rimuovere gli scudi dal palazzo di Gerusalemme e portarli a Cesarea Marittima nel tempio dedicato ad Augusto (Filone, Leg. Gai. 38 [299-305]).
Il ritratto di Pilato, in questo documento citato da Filone, è decisamente negativo. Anche facendo lo sconto delle esagerazioni retoriche del testo, si può affermare che Pilato ha lasciato un cattivo ricordo della sua amministrazione in Giudea. Un'eco della politica provocatoria e repressiva di Pilato si trova nel Vangelo di Luca: Pilato ha fatto scorrere il sangue di alcuni Galilei nel tempio assieme a quello dei loro sacrifici (Lc 13,1). Si pensa che la linea politica di Pilato in Giudea sia stata dé7 terminata dal consigliere dell'imperatore Tiberio, Seiano – dal 28 al 31 d.C. – ostile ai Giudei (cf. Filone, Leg. Gai. 24 [159-161]; In Flaccum 1 [1]). Seiano può avere incoraggiato Pilato in alcuni gesti di provocazione, ma la sua condotta generale si deve imputare ad altre cause, connesse con il suo carattere e la sua incapacità politica.
Tra gli interventi repressivi che confermano la mancanza di tatto e sensibilità culturale del governatore Ponzio Pilato, è quello connesso con il suo progetto di costruire un acquedotto per portare l'acqua a Gerusalemme, prelevando il denaro dal tesoro del tempio. Quando Pilato si reca a Gerusalemme, la popolazione, che sa di questo progetto, si mette a protestare davanti al tribunale del governatore, perché ritiene un insulto al santuario l'uso profano del denaro dato per il culto. Pilato,prevedendo la sommossa popolare, ha sguinzagliato i soldati in abiti civili armati di randelli che, a un segnale convenuto, si mettono a colpire a sangue la gente, provocando numerosi morti (G. Flavio, Bell. II, 9,4 [175-177]; Ant. 18, 3,2 [60-62]).
L'ultima repressione violenta ordinata da Pilato riguarda la comunità samaritana. Con questo intervento si gioca anche il posto di governatore della Giudea. Secondo il racconto di Flavio Giuseppe, un "ciarlatano e imbroglione" convinse i Samaritani a radunarsi sul monte Garizim con la promessa che là avrebbe mostrato loro i vasi sacri del tempio nascosti e sepolti da Mosè. Molti Samaritani, fidandosi delle sue parole, si radunarono armati in una località ai piedi del monte. Pilato li prevenne facendo occupare la cima con un distaccamento di cavalleria e soldati con armi pesanti, che dispersero i Samaritani radunati, uccidendone una parte e catturando altri come schiavi. Pilato fece mettere a morte i capi e i promotori dell'assembramento dei Samaritani. Dopo questi fatti il senato dei Samaritani si reca dal proconsole di Siria, Lucio Vitellio, per accusare Pilato di quella strage. Vitellio invia uno dei suoi amici, Marcello, in Giudea come governatore e ordina a Pilato di andare a Roma per rispondere davanti all'imperatore delle accuse dei Samaritani. Flavio Giuseppe conclude il suo racconto dicendo che «Pilato, dopo avere passato dieci anni nella Giudea, si affrettò ad andare a Roma, obbedendo agli ordini di Vitellio, dato che non poteva rifiutarsi» (G. Flavio, Ant. 18, 4,1-2 [85-89]).
Ponzio Pilato, di origine sannita, passato alla storia per il suo coinvolgimento nella condanna di Gesù, è un ex-militare dell'ordine equestre, inviato a rappresentare il potere di Roma in una zona calda dell'impero che richiede tatto e capacità diplomatica. Pilato è un uomo ambiguo, a due facce: tanto è sottomesso e servile verso l'imperatore e i superiori – su ordine del legato di Siria, Lucio Vitellio, va, senza fiatare, a Roma –, altrettanto è intransigente e arrogante con i sudditi della provincia. Sicuro di sé, quando è protetto dai soldati, ricorre, secondo i casi, alla forza, ai sotterfugi e all'astuzia per cavarsi dalle situazioni in cui si è cacciato per la sua ottusità nel capire la specificità culturale e religiosa dei Giudei. Incapace di venire incontro alle esigenze del popolo ebraico, Pilato riesce ad avere buoni rapporti con le grandi famiglie sacerdotali del tempio, come prova l'episodio della costruzione dell'acquedotto di Gerusalemme e la permanenza di Joseph Caifa nella carica di sommo sacerdote per tutto il tempo della sua amministrazione.
2. La condanna di Gesù da parte di Pilato
Il profilo del governatore romano, desunto dagli scritti di Flavio Giuseppe e dalla Lettera di Erode Agrippa, citata da Filone, per alcuni aspetti coincide con quello che si desume dai Vangeli, se si tiene conto del loro genere letterario e del loro scopo. Chiamato a giudicare Gesù, Pilato non vuole scontentare le autorità del tempio e nello stesso tempo non può venire meno al suo ruolo di funzionario dell'amministrazione imperiale. Come governatore della Giudea deve mantenere l'ordine pubblico a tutti i costi. Su questo punto è facilmente ricattabile con la minaccia di una denuncia a Roma (Gv). Nel racconto della passione secondo Marco e Giovanni, Pilato è incuriosito di fronte alla loro religiosità e sorpreso per il silenzio inerme di Gesù (cf. Mc 15,5; Gv 19,8). Per la tradizione cristiana e per gli autori dei Vangeli il caso di Gesù è unico ed eccezionale. Per Ponzio Pilato, che deve governare la provincia della Giudea in un periodo di turbolenze politiche e di fanatismi religiosi, la faccenda di Gesù rientra nell'ordinaria amministrazione. Non è casuale che, assieme a quella di Gesù Nazareno, siano eseguite almeno altre due condanne alla morte di croce (cf. Mc 15,27; Mt 27,38; Lc 23,32-33; Gv 19,18).
La sostanziale convergenza delle fonti, molteplici e diverse, conferma l'esistenza di una tradizione storicamente attendibile, sulla quale si sviluppa il racconto evangelico della condanna di Gesù da parte di Pilato. I capi dei sacerdoti presentano al governatore romano, Ponzio Pilato, Gesù con l'accusa di essere un falso Messia, che equivale a "re dei Giudei" (Lc). Le autorità ebraiche davanti al governatore Pilato mettono in risalto la pericolosità di Gesù "Messia-re" per l'ordine pubblico (Lc). Pilato, diffidente nei confronti dei Giudei e geloso del suo potere, alla fine prende la decisione di far condannare Gesù per evitare pericolosi ricatti e garantire, com'è suo dovere, l'ordine pubblico. La sua presenza a Gerusalemme conferma il dato evangelico che Gesù è stato condannato in prossimità di una festa ebraica. Alcuni particolari della narrazione evangelica, come l'invio di Gesù a Erode (Lc) e la proposta di uno scambio con Barabba, sarebbero in sintonia con lo "stile" di Pilato, che cerca di cavarsi dalle situazioni imbarazzanti con stratagemmi, pur di non dare soddisfazione alle richieste dei Giudei.
Dal punto di vista del diritto romano, Gesù, accusato di proclamarsi "re dei Giudei", è reo del crimen laesae maiestatis, contro l'ordinamento imperiale romano'''. Nel caso di Gesù, che non è cittadino romito, Pilato segue la procedura extra ordinem, prevista dal diritto romano per i peregrini, che lascia molta discrezionalità al giudice. Il magistrato romano interroga l'accusato e alla fine lo condanna alla morte di croce, riservata agli stranieri ribelli e agli schiavi. In conclusioni Pilato giudica Gesù secondo il diritto romano che regola le cause dei sudditi dell'impero – chiamate extra ordinem – condannandolo alla morte di croce. Questa pena capitale, riservata ai ribelli e ai traditori, nella provincia di Giudea è un deterrente contro i tentativi di rivolta antiromana comunque ispirati da motivi religiosi o politici.
(Gesù il "Nazareno", Cittadella 2011, pp. 741-749)