Lettere europee /7
Renato Cursi
(NPG 2021-02-2)
L’integrazione europea è innanzitutto un progetto di pace. Papa Francesco l’ha ricordato a più riprese, a partire dalla sua visita al Parlamento Europeo, nella sede storica di Strasburgo, il 25 novembre 2014. Tale concetto è stato poi da lui ribadito tanto in occasione della consegna del Premio Carlo Magno nel 2016 quanto nel convegno Rethinking Europe nel 2017. Da ultimo, nella Lettera Enciclica Fratelli Tutti (FT), Papa Francesco ha indicato il “sogno di un’Europa unita” come il primo esempio di integrazione regionale che ha portato frutti negli ultimi anni (FT 10). L’integrazione regionale vi è proposta come una soluzione intermedia promettente, in quanto rende possibile “che l’universalità non dissolva le particolarità”, come se fosse un “primo esercizio indispensabile per ottenere una sana integrazione universale” (FT 151). Quest’analisi peraltro vale tanto per i popoli e paesi di piccole dimensioni, che possono ricorrere a forme di cooperazione regionale con i vicini per difendersi da aggressioni militari e commerciali esterne, quanto per quelli grandi e potenti, perché “oggi nessuno Stato nazionale isolato è in grado di assicurare il bene comune della propria popolazione” (FT 153).
Tuttavia, non si possono non cogliere alcune contraddizioni e alcuni dubbi sulla sostenibilità dell’architettura di pace europea. Non a caso, Papa Francesco colloca il pur positivo esempio dell’Unione Europea, nel capitolo di Fratelli Tutti dedicato alle “ombre di un mondo chiuso” e in particolare tra i paragrafi dedicati ai “sogni che vanno in frantumi”. Potremmo analizzare le contraddizioni nascoste tra le pieghe dei Trattati sull’Unione Europea (TUE) e sul suo Funzionamento (TFUE), come le tante opacità di un processo decisionale che, pur formalmente democratico, presenta molti limiti sul piano della partecipazione e della trasparenza sostanziale. Oppure potremmo concentrarci sulle contraddizioni di un mercato unico che presenta ancora tante barriere e ingiustizie nascoste, come anche una competizione fiscale sempre più evidente e iniqua. Ad ogni buon conto, la più evidente contraddizione di un processo volto a promuovere la pace tra i suoi partecipanti, sembra essere lo sforzo degli stessi nel promuovere al contempo la guerra altrove.
Si possono certamente fare delle precisazioni, ad esempio sottolineando che non tutte le armi esportate dai Paesi dell’Unione Europea verso i Paesi Terzi sono destinate ad animare conflitti armati, bensì spesso a dotare le forze dell’ordine di questi Paesi dei mezzi per garantire la sicurezza dei propri cittadini. Senza neanche arrivare ancora a mettere in discussione questo concetto di sicurezza armata, occorre tuttavia rilevare che sommando i dati dei propri membri, come quelli riportati annualmente dall’istituto “SIPRI” di Stoccolma, l’Unione Europea risulta tra i primi tre esportatori di armi al mondo. Risulta inoltre da varie e autorevoli indagini internazionali che queste stesse armi vengono ritrovate anche in possesso a forze armate coinvolte in conflitti, come quelli in corso da anni in Libia o in Yemen, tra gli altri, per cui le istituzioni internazionali deputate alla difesa della pace, quali l’ONU, hanno richiesto da tempo un embargo della vendita delle armi. Peraltro solo sei anni or sono è entrato in vigore un Trattato Internazionale sul Commercio di Armi. Oltre ad essere strutturalmente viziato, purtroppo, questo Trattato si sta rivelando facilmente aggirabile, come avviene già da tempo in Italia con la pionieristica legge n. 185 del 1990.
L’Unione Europea, per la prima volta nella storia, ha inserito nel proprio bilancio pluriennale (2021-2027) una voce di spesa dedicata ad un fondo per la “difesa”: lo “European Defence Fund”. Per alcuni osservatori questa è una buona notizia sia in termini geopolitici sia in termini di costruzione della pace. Un’autonomia dell’Europa nell’industria della difesa, secondo quest’analisi, la emanciperebbe dalle politiche militari degli Stati Uniti d’America e della NATO, abilitandola a proteggersi con mezzi e criteri propri nei confronti delle crescenti minacce esterne. Inoltre, un bilancio comune della difesa consentirebbe di ridurre le spese militari nazionali. Premesso che quest’ultima affermazione richiede ancora di essere verificata in maniera imparziale, occorre chiedersi quanto i cittadini dell’Unione Europea siano realmente coinvolti in queste decisioni. Ascoltando i giovani, sembra che certe scelte strategiche nel campo della difesa e della pace continuino ad essere prese a prescindere dalla loro visione per il presente e il futuro.
A questo proposito, nella raccomandazione che chiude il Comunicato Finale dell’iniziativa “Economy of Francesco”, adottato nell’evento tenutosi online e ad Assisi il 21 novembre 2020 al termine di un lavoro preparatorio durato mesi che ha collegato centinaia di giovani da tutto il mondo, si legge:
“chiediamo infine l’impegno di tutti perché si avvicini il tempo profetizzato da Isaia: “Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci; un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo, non si eserciteranno più nell’arte della guerra” (Is 2, 4). Noi giovani non tolleriamo più che si sottraggono risorse alla scuola, alla sanità, al nostro presente e futuro per costruire armi e per alimentare le guerre necessarie a venderle. Vorremmo raccontare ai nostri figli che il mondo in guerra è finito per sempre.”
L’Europa può e deve, per essere coerente alla propria conversione postbellica e al proprio progetto di pace, rendersi capace di un altro modello di difesa. Non basta essere il più grande donatore al mondo per la cooperazione internazionale allo sviluppo, se con l’altra mano si alimentano conflitti e interessi opachi che mettono in discussione anche il bene promosso con i primi aiuti. Occorre dare ai giovani la possibilità di costruire questo modello alternativo e di testimoniarne l’efficacia. La pastorale giovanile in Italia promuove da tempo la scelta del Servizio Civile, le cui nobili origini (peraltro oggi spesso non sufficientemente tramandate ai giovani) sappiamo risalire all’obiezione di coscienza alla leva militare. Accanto a questa pietra miliare, occorre scoprire le potenzialità di iniziative pionieristiche come quella dei “Corpi Civili di Pace” (CCP). L’Italia ha già formato e inviato due contingenti di giovani tra i 18 e i 30 anni che hanno trascorso periodi all’estero per svolgere azioni di pace non governative nelle aree di conflitto e a rischio di conflitto e nelle aree di emergenza ambientale: questi giovani hanno rappresentato all'estero il volto più bello del proprio Paese, impegnandosi nell’educazione alla pace, nella protezione dei difensori di diritti umani, nella prevenzione e nella trasformazione dei conflitti. Sembra però che alcuni limiti burocratici impediscano una fruizione più ampia di quest’opportunità. Il dibattito intorno a iniziative come quella dei CCP o a campagne come “Un’altra difesa è possibile” per la difesa non armata e nonviolenta, tuttavia, resta ancora debole in Italia e non sono molte le realtà ecclesiali coinvolte attivamente in questi processi.
Il 9 dicembre 2020 ha compiuto cinque anni la prima risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU su “Giovani, Pace e Sicurezza”. Questo strumento, adottato dal massimo organo mondiale deputato al mantenimento della pace e della sicurezza, ha riconosciuto l’urgenza di coinvolgere attivamente i giovani in questi processi, passando da destinatari passivi a protagonisti. Da allora organizzazioni giovanili in tutto il mondo stanno animando una vera e propria agenda internazionale su questi temi. In Italia, pur essendosi già formata una rete di realtà della società civile sensibili a quest’agenda, le istituzioni non hanno ancora adottato un Piano Nazionale di Azione dedicato. A livello europeo si stanno sperimentando i Corpi Europei di Solidarietà, i quali, a partire dalla nuova Strategia dell’UE per la Gioventù adottata nel 2018, sostituiscono il Servizio Volontario Europeo. Sono iniziative preziose che, insieme a programmi come l’Erasmus, stanno formando generazioni di giovani a valori importanti e coerenti con il progetto originario dell’integrazione europea.
Questa realtà cozza drasticamente con i dati riportati sopra sulla produzione e sul traffico di armi. La recente pandemia peraltro dovrebbe aver scosso le certezze della retorica securitaria che difendeva il paradigma della sicurezza armata. A questa da tempo si oppone il modello della “sicurezza umana”, fondata su ben altri indicatori. La stessa pace può essere promossa in termini positivi attraverso l’educazione: da alcuni anni ricercatori e istituzioni come l’Institute for Economics & Peace stanno promuovendo con criteri e indicatori scientifici il concetto di “pace positiva”, che richiama a sua volta quello di “pace con mezzi pacifici” promosso ancor prima dal professor Johan Galtung al Peace Research Institute di Oslo. Il Vangelo che invita a “riporre la spada nel fodero” e a “porgere l’altra guancia” può illuminare una riflessione, un discernimento e una conversione su questi temi con le nuove generazioni di giovani italiani ed europei. In attesa che possa baciarsi escatologicamente con la giustizia, come profetizzato dal salmista, la pace, che è la prima parola del Risorto, non deve rimanere la prerogativa di poche realtà ecclesiali. Beati tutti i costruttori e gli educatori di pace.