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    Allo stadio il mio grido a Dio


    Intervista al cardinal Vincent Gerard Nichols, Arcivescovo di Westminster (Inghilterra)

    A cura di Gioele Anni


    (NPG 2018-07-2)

    «A che ora è la partita del Liverpool? Alle 18? Oh no, ho promesso di andare a un concerto benefico… Pazienza, la recupero più tardi». Anche il giovane Vincent Nichols, nato in una cittadina a mezz’ora di treno da Liverpool, andava allo stadio a veder giocare i mitici “Reds”. Proprio lì, su quegli spalti di legno, capì di essere chiamato a diventare prete. In un modo particolare: attraverso un grido contro Dio. Ai tempi era un ragazzino pieno di dubbi, oggi è un uomo alto dai modi educati ma non formali. Nominato vescovo a 46 anni nel 1992, è stato ausiliare di Londra e poi arcivescovo di Birmingham. Dal 2009 è tornato a Westminster come arcivescovo e nel 2014 papa Francesco lo ha creato cardinale. Nel suo intervento in aula del Sinodo ha fatto risuonare il grido delle vittime del «lato oscuro della globalizzazione»: è stato lui a promuovere in Vaticano il “Santa Marta Group”, un progetto contro la tratta di esseri umani che porta allo stesso tavolo vescovi e capi delle polizie da 35 nazioni. Ma negli ultimi anni il suo nome è stato affiancato anche ai dolorosi casi di Charlie Gard e Alfie Evans, i due bambini di Londra e Liverpool morti in ospedale a causa di malattie rarissime dopo un lungo dibattito sull’opportunità di staccare la spina.

    Eminenza, è vero che ha capito la sua vocazione durante una partita di calcio?
    Non durante una partita specifica, ma ricordo in modo vivido una sensazione. Andavo allo stadio in Anfield Road ed ero in mezzo a questa grande folla di 50mila spettatori. Allora me la prendevo con Dio perché sentivo che Lui voleva che diventassi sacerdote, e gli dicevo: «Lasciami stare! Io non voglio essere diverso da tutta questa gente!». Era una protesta, ma poi ho capito che era una parte del mio viaggio di discernimento. Quando stai cercando la tua vocazione, e dal tuo cuore sale un grido, ecco: lì c’è qualcosa da prendere in considerazione.

    Si è mai pentito della scelta che ha fatto?
    No, mai. Per me essere prete è fonte di gioia. Anzi, credo di non essere mai stato del tutto infelice nella mia vita. Per questo sono contento di non aver dato seguito a quella protesta giovanile. Ma appena posso guardo ancora le partite del Liverpool…

    Quali sono state le persone che l’hanno aiutata a fare discernimento quando era giovane?
    In particolare dei sacerdoti, quelli che prestavano servizio nella mia parrocchia. Notavo che erano persone felici e mi dicevo: «Vedi? Sono contenti, la loro vita deve essere bella». Il loro esempio, prima di tutto, mi ha incoraggiato a entrare in seminario. Ma ricordo specialmente quando ho parlato con uno di loro, il prete con cui mi trovavo più a mio agio. Andai da lui ma ero un po’ esitante, e credo che abbia capito i miei dubbi. Quando gli dissi che sentivo la chiamata del Signore, mi diede una risposta che non ho mai dimenticato: «Per favore», furono le sue prime parole, «sappi che non è un peccato se rifiuti una vocazione». Ho pensato spesso a quella risposta, credo che volesse essere sicuro che io non facessi nulla perché mi sentivo obbligato. Voleva che prendessi una decisione veramente libera, perché sapeva quanto fosse delicata per me quella scelta.

    Che cosa l’ha colpita nel Sinodo dei giovani?
    Questo Sinodo è stato un viaggio condiviso. Siamo partiti con l’idea di parlare dei giovani, delle loro difficoltà e di come la Chiesa potrebbe aiutarli. Poi abbiamo iniziato a pensare di parlare ai giovani, e infine abbiamo capito che serve parlare con i giovani.

    La sua città, Londra, è piena di giovani che vengono da tutto il mondo. Come viene vissuta la fede cattolica in questo contesto?
    Londra è una città ricca di mescolanze: dal punto di vista culturale, etnico e anche religioso. La comunità di credenti che riflette più chiaramente questa realtà è proprio quella cattolica. Quando vado nelle parrocchie di Westminster incontro persone di 30 o 40 nazionalità diverse.

    Nel giro di pochi mesi l’Inghilterra è stata scossa da due dolorosi casi di cronaca, le vicende dei bambini Charlie Gard e Alfie Evans afflitti da patologie rarissime. A entrambi i medici hanno infine deciso di staccare la spina, perché giudicati incurabili. I dibattiti etici sono stati aspri e lei si è espresso in modo equilibrato, chiedendo il rispetto della vita fino al suo termine ma anche manifestando apprezzamento per la professionalità dei dottori. Come ha vissuto queste due situazioni?
    È normale che l’opinione pubblica discuta di questioni delicate come l’inizio e la fine della vita, l’aborto e l’eutanasia. Su questi temi si giocano delle battaglie costanti per la mente e per il cuore. Ciò che complica le cose è la presenza di una mentalità liberale secondo cui la decisione personale è il punto cruciale per affrontare questi argomenti, e c’è una forte pressione perché le leggi si adeguino a questa istanza. Al momento, per esempio, un altro tema dibattuto è quello dell’identità di genere e si discute molto sulla condizione delle persone che sentono di avere un’identità diversa dal loro genere biologico. Alcune delle questioni sono davvero complesse, e ovviamente anche la Chiesa è coinvolta nel dialogo con il governo e i legislatori. Quando però si arriva a casi individuali, come quelli dii Charlie Gard e Alfie Evans, ho imparato che l’importante è prestare attenzione ai dettagli. E credo che entrambi gli ospedali si siano comportati con grande sensibilità e cura per i piccoli

    Alcuni credenti tuttavia, anche fuori dall’Inghilterra, non la pensano come lei.
    A mio parere che quello che è mancato nel dibattito dei media, soprattutto all’estero, è stata la volontà di conoscere a fondo i dettagli di entrambe le situazioni. Sia per Charlie che per Alfie si sono attivate delle lobby e delle voci che francamente hanno usato questi bambini per creare discussioni di principio a volte anche molto aggressive. Una di queste discussioni, che arrivava in particolare dall’America, riguardava il ruolo del sistema di sanità pubblico. Alcuni ritengono che la sanità sia qualcosa che bisogna pagare e dunque se si prestano delle cure, per esempio a un bambino in fin di vita, a un certo punto non dev’essere lo Stato a sostenere le spese. Un’altra voce, opposta a questa, chiedeva invece che i familiari avessero l’ultima parola in base ai loro desideri, e che questi dovessero prevalere anche sulla riflessione dei medici. Ma come ho detto anche pubblicamente, penso che gli ospedali abbiano fatto il massimo per aiutare i due bambini. Chi ha accusato i medici di avere una mentalità che va contro la vita, semplicemente non sapeva di cosa stesse parlando.


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