Intervista a monsignor Pierbattista Pizzaballa, Amministratore Apostolico di Gerusalemme dei Latini
A cura di Gioele Anni
(NPG 2019-06-2)
Padre Pierbattista Pizzaballa è un uomo schivo. Profondo e silenzioso come le notti della pianura bergamasca. È nato e cresciuto a Castel Liteggio, frazione di Cologno al Serio, ultimo di tre fratelli maschi. Poche case e tanti campi dove, oggi come da ragazzino, l’arcivescovo di Gerusalemme ama vagare in bicicletta. La fortezza del Liteggio fu costruita dai Visconti nel quindicesimo secolo per controllare il confine tra Ducato di Milano e Repubblica di Venezia. E i confini, a quanto pare, sono nel destino di questo sacerdote francescano. Dal 1990, con poche pause, vive in uno dei luoghi più contesi al mondo: Gerusalemme, la Terra Santa ma straziata da un conflitto che sembra irrisolvibile. Lui che viene da una zona di nebbia e quiete, come in un film di Ermanno Olmi, è finito nel cuore convulso del Medio Oriente. Potrebbe sembrare un pesce fuor d’acqua e così pensava anche lui, che non voleva accettare la prima missione in Palestina. Invece oggi non potrebbe farne a meno. Dopo la fine del suo mandato da custode di Terrasanta, nel 2016, papa Francesco lo ha subito nominato amministratore apostolico di Gerusalemme dei Latini. Un patriarcato che si estende su Palestina, Israele, Giordania e Cipro. Qui, dove il cristianesimo è nato, i cattolici oggi sono una piccola minoranza che si affida alla grazia di Dio.
Eccellenza, si dice che lei non volesse venire in Terrasanta. È così?
È vero. Sono passati quasi trent’anni, era il 1990. Il 15 settembre fui ordinato prete dopo gli studi dai francescani a Rimini. Li avevo conosciuti da bambino durante le vacanze con la famiglia e sono finito a fare il noviziato lì. All’improvviso, senza alcuna previsione, il mio padre superiore mi chiese di partire. Per me fu uno shock.
Insomma non fu una partenza per vocazione.
Diciamo che fu una vocazione controversa, almeno all’inizio. Ma poi, a poco a poco, quello che era amaro si trasformò in dolcezza.
Che cosa l’ha convinta a rimanere così a lungo a Gerusalemme?
Ho scoperto pian piano tanti aspetti belli e positivi di questa terra. Ho fatto incontri che hanno segnato la mia vita. E allora ho capito che, nonostante la mia ritrosia, questo era il posto che il Signore aveva scelto per me. Anche se ci è voluto tempo. Tutta la Terrasanta, e Gerusalemme in particolare, non sono generose con chi ha fretta.
Siamo abituati a sentir parlare delle tante criticità della Terrasanta. Quali sono invece questi elementi di bellezza che lei ha trovato?
Al primo posto metto le persone che ho incontrato. Uomini e donne che vivono intensamente la loro relazione con Dio e sono aperte all’altro. Vivere a Gerusalemme ti aiuta a comprendere che la tua prospettiva di vita e il tuo orientamento religioso non sono gli unici. Anche gli altri sono felici. Non sto parlando di relativismo e non dico che va tutto bene, anzi. Ma vedere che anche gli altri hanno una vita piena e gioiosa, anche se non credono nella tua stessa religione, ti spinge a ripensarti e a metterti in dialogo con loro. E così, un secondo elemento: in Terrasanta capisci molto bene come l’altro diventi indispensabile anche nel tuo cammino personale di credente. La domanda dell’altro, su di te e sulla tua vita di fede, ti costringe a rimetterti in discussione in maniera positiva.
I giovani del Medio Oriente vivono in un contesto non semplice. In che modo la Chiesa cattolica cerca di accompagnarli nel discernimento vocazionale?
Le problematiche del patriarcato di Gerusalemme, che è molto esteso, sono diverse da quelle della realtà occidentale. I giovani del Medio Oriente, e della Terrasanta in particolare, affrontano situazioni complesse. Prima di tutto sono chiamati a un discernimento pratico: il lavoro manca, mettere su una famiglia è difficile, le prospettive di vita sono complicate. Anche l’aumento della discriminazione religiosa è un fattore che spinge molti a voler partire.
E i giovani cristiani, che tipo di realtà vivono?
Nel mondo arabo vivono la condizione di chi è minoranza. E in Israele sono doppia minoranza: rispetto al mondo musulmano e rispetto a quello ebreo. In più affrontano le stesse sfide concrete degli altri giovani. Per questo fare discernimento, capire la tua vocazione di cristiano all’interno di questo contesto non è semplice. Cerchiamo di comprendere insieme che cosa significa per un giovane essere cristiano, qual è lo stile da adottare, in che modo esporsi nella società.
Ha parlato del confronto tra cristiani. Come va invece il dialogo interreligioso?
Ci sono esperienze positive e negative. Il nostro compito è facilitare quelle positive, che interessano diversi ambiti. Per esempio lo studio dei testi sacri: ci sono persone di diverse fedi che semplicemente si ritrovano per leggere la Bibbia, il Vangelo o il Corano. Desiderano ascoltarsi a vicenda e provare a capirsi. E poi ci sono momenti interreligiosi che riguardano attività concrete: aiuto a situazioni di povertà, dialogo sulla giustizia e i diritti. È interessante che tutte queste attività nascono dal basso. Sono esigenze che vengono spontaneamente dalle famiglie e generano occasioni di confronto che non sono promosse dai vertici istituzionali. Questo dovrebbe farci riflettere.
Eccellenza, non le capita mai di pensare: “È troppo difficile, gli sforzi in questa terra sono troppo grandi”?
Lo penso un giorno sì, e l’altro pure.
E come fa ad andare avanti?
Bisogna affidarsi alla grazia di Dio, perché qui capisci che è più grande di te. Tu devi dare il tuo contributo anche se a volte ti senti impotente. Ma il tuo modo di stare dentro alle questioni, il tuo stile, possono aiutare anche gli altri a viverle meglio. La missione di ogni giorno è creare quei legami che fanno nascere la solidarietà di cui abbiamo tanto bisogno per fare quel poco che è possibile. Non sarà un aumento dei grandi gesti, ma dei piccoli interventi nel territorio a poter fare la differenza.
E forse è più facile affidarsi alla grazia in questi luoghi, dove Dio si è fatto carne.
Sono luoghi abitati dalla presenza di Dio ma anche da tanto male. E qui sta il discernimento: trovare sempre la presenza di Dio, che c’è. E poi saperla definire, e illuminarla.