Intervista a monsignor Andrew Nkea Fuanya, Vescovo di Mamfe (Camerun)
A cura di Gioele Anni
(NPG 2019-05-2)
«Tutta quella gente, una marea... Dimenticarla è impossibile». Monsignor Andrew Nkea Fuanya ha studiato a Roma all’inizio del millennio. Tifava Totti mentre la squadra giallorossa vinceva lo scudetto e un milione di persone scendeva in festa per le strade. È un vescovo giovane, 53 anni, e viene dal Camerun occidentale, al confine con la Nigeria. Parla un inglese perfetto, è colto e disponibile. Nell’episcopato africano è apprezzato sia per il radicamento nella vita del continente che per la conoscenza del diritto canonico. Ha ottenuto il dottorato alla pontifica università Urbaniana nel 2003, poi è tornato in Africa. Nel 2013 papa Francesco lo ha nominato vescovo ausiliare di Mamfe e sei mesi più tardi è diventato ordinario della stessa diocesi. Negli ultimi tempi, un’ombra si stende sulla sua terra. La regione è anglofona mentre il governo centrale e la maggior parte del paese sono francofoni. Da un paio d’anni violenti scontri tra bande di separatisti e i soldati dell’esercito nazionale stanno sconvolgendo il territorio. Ne fanno le spese i civili: circa 30mila, di cui 10mila solo dalla regione di Mamfe, sono scappati in Nigeria. Al Sinodo ha portato l’esperienza della sua regione ferita ma capace di celebrare la fede con la gioia incontenibile dell’Africa.
Eccellenza, che cosa porta a casa dal Sinodo?
Il primo aspetto di cui si fa esperienza è che la Chiesa è davvero universale. Come dice il “Credo”: una, santa, cattolica e apostolica. C’è il successore di Pietro nella sua città, intorno a lui tutti i vescovi e i laici che discutono delle questioni più importanti per la Chiesa. Per me questa è un’immagine potente dell’unità della Chiesa.
Eppure i problemi sono diversi nelle varie regioni del mondo.
Sì, la grande quantità di differenze è la seconda cosa che mi ha colpito qui a Roma. Le difficoltà dei giovani in Asia non sono le stesse dei giovani europei né di quelli africani. E le soluzioni che si possono applicare in Europa non funzionerebbero in Africa, quelle africane in Asia, e così via. Tutto questo mi ha colpito, ma credo che sia un dono: avere così tante differenze al proprio interno è la vera ricchezza della Chiesa.
Quali azioni dovrebbe intraprendere la Chiesa africana per rispondere ai bisogni dei propri giovani?
Dopo il Sinodo, noi vescovi africani dobbiamo pensare in modo molto concreto a come far sì che i nostri giovani restino in Africa e non cerchino fortuna negli altri continenti. Dobbiamo creare un ambiente favorevole per i giovani, un’atmosfera che li induca a non lasciare la loro terra. Stiamo perdendo molto capitale umano in questi anni: i giovani partono e se ne vanno in Europa o altrove alla ricerca di lavoro. Ma noi africani possiamo creare lavoro per i giovani e la Chiesa dovrebbe fare la sua parte per potenziare i progetti di sviluppo all’interno del continente.
E dal punto di vista spirituale, vede qualche urgenza?
Penso che la Chiesa africana debba guardare al proprio futuro. Oggi le nostre chiese sono piene di giovani ma se non facciamo dei piani pastorali che mettano al centro le nuove generazioni, un giorno se ne andranno. Dobbiamo guardare a quello che è accaduto in Europa, dove i giovani si sono via via allontanati, e capire perché è successo. È un fenomeno che potrebbe ripetersi anche da noi e abbiamo il compito di trovare misure adeguate per evitare che avvenga nelle stesse dimensioni.
Quali sono oggi le ricchezze della Chiesa africana?
Per prima cosa, in Africa non diciamo la messa. Noi celebriamo la messa! Le persone sono contente quando sono in chiesa perché cantiamo, balliamo e comunque manteniamo un clima solenne. Tutto questo rende le funzioni davvero emozionanti. Poi, i nostri giovani vedono che la Chiesa africana riflette i valori culturali del continente. Si sentono a casa quando vengono nei nostri ambienti, dalle scuole alle parrocchie, e questo è un grande punto di forza della nostra realtà. E infine diamo molta importanza alla comunità. Questo dà ai giovani il senso di appartenenza: se rimangono nella Chiesa è perché si sentono parte di qualcosa che è più grande di loro.
Nel 2015 papa Francesco ha scelto di inaugurare il Giubileo della misericordia proprio nel vostro continente, in Repubblica Centrafricana. Che cosa ha significato per voi quella giornata?
Io c’ero, ero a Bangui quel giorno. Sono stato insieme col Papa e gli altri vescovi alla celebrazione di apertura della porta santa. È stato un segno fortissimo, commovente per tutta la Chiesa africana. Noi viviamo molte persecuzioni, la nostra gente è colpita da tante sofferenze. Quel giorno le persone, vedendo che il Papa apriva la porta della misericordia in mezzo a loro, in Africa, hanno sentito che Dio li ama. Hanno visto che, anche in mezzo a tutti i drammi, l’amore di Dio è presente e li accompagna. Quello di Francesco è stato un gesto profetico.
Molti giovani occidentali sentono il desiderio di fare dei periodi di volontariato in Africa. che cosa possono portare a casa da un’esperienza di questo tipo?
Vado oltre: penso che ogni giovane, prima di finire l’università, dovrebbe fare un anno in Africa. La farei diventare una regola, un po’ come il servizio militare. I giovani occidentali ne uscirebbero più equilibrati, questo periodo li aiuterebbe a crescere come persone. È facile vivere in Europa e pensare che tutto il mondo sia fatto così. Ma la realtà è molto diversa, anzi la gran parte del mondo non è ricca come l’Europa o il Nord America. Quando vieni in Africa vedi come vivono gli africani, e questo ti aiuta ad apprezzare di più il mondo.
Un padre sinodale ha lanciato l’idea di progetti strutturati e continuativi di volontariato internazionale, tra Paesi di continenti diversi. Potrebbe funzionare?
Assolutamente sì, quell’intervento mi ha entusiasmato. Spero che i vescovi prenderanno sul serio la questione e daranno notizia delle iniziative che verranno avviate perché faranno crescere meglio i giovani. Molti ragazzi in Occidente non danno valore a quello che hanno, perché non hanno idea di cosa ci sia dall’altra parte del mondo. Devono solo venire in Africa e vedere quello che c’è, le persone che non hanno niente ma sono veramente felici. Se invece hai tutto, ma non sei felice, allora è il momento di fare qualcosa.