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    Giacobbe ed Esaù: problemi da ragazzi?


    I giovani nella Bibbia /2

    Raffaele Mantegazza


    (NPG 2017-01-93)

    Il primo che nacque era rosso e peloso come un mantello di pelo. Così fu chiamato Esaù. Dopo nacque suo fratello, che con la mano teneva il calcagno di Esaù e fu chiamato Giacobbe. Isacco aveva sessant'anni quando Rebecca li partorì (Gen 25, 25-26).

    Due figli maschi, per di più gemelli: straordinaria benedizione divina per l’israelita, una vera e propria Barakà. Ma anche una situazione difficile dal punto di vista educativo, una fucina di conflitti che il testo biblico ci mostra già iniziati nel grembo materno. Ogni genitore sa benissimo come ogni figlio sia in realtà un figlio unico, come non si amino i figli allo stesso modo: il che non significa affatto che si ami uno/a più dell’altro/a ma che li si ama diversamente. Ma la storia di Esau e Giacobbe è una vicenda sconcertante di un amore sbilanciato e di una preferenza materna smaccata, e il testo biblico ce lo comunica immediatamente:

    I due bambini crebbero; Esaù divenne un esperto cacciatore, un uomo di campagna, e Giacobbe un uomo tranquillo che se ne stava nelle tende. Isacco amava Esaù, perché la cacciagione era di suo gusto. Rebecca invece amava Giacobbe (Gen 25, 27-28).

    Le cose non andrebbero poi così male per Esau (in fin dei conti almeno un genitore lo ama, anche se per motivi strumentali, mentre l’amore di Rebecca sembra gratuito e materno); ma purtroppo per lui è la madre la vera regista della scena educativa, e il suo amore esclusivo per Giacobbe arriverà a danneggiare il povero Esau. La storia dei due fratelli è la storia di un odio fraterno, forte e tenace come sanno essere i rapporti famigliari soprattutto quando riguardano giovani e ragazzi. Giacobbe è spietato nei confronti del fratello, nessuna remora morale lo trattiene quando si tratta di allearsi con la madre contro il gemello. Questo cinismo di Giacobbe deve avere scosso la coscienza ebraica al punto che le narrazioni apocrife hanno sentito il bisogno di modificare il dettato scritturale; da un lato hanno cercato di svalutare Esau e di mostrarlo come un essere demoniaco (in una leggenda, quando entra in casa di Isacco, sotto i piedi di Esau si spalanca l’inferno[1]); dall’altro hanno invece magnificato Giacobbe arrivando a dire che anche se Isacco amava la selvaggina di Esau, la carne cucinatagli da Giacobbe “era dotata di tutti i sapori più ambiti, compreso quello del cibo che Dio elargirà al giusti nel mondo a venire (…) aveva il gusto della prelibatezza che più si desiderava”[2]. Tra l’altro la caratteristica del sapore di un cibo che varia a seconda dei gusti di chi lo mangia è attribuita da un’altra leggenda alla manna[3].
    L’episodio della primogenitura acquistata (cfr Gen 25, 29-34) ci mette però di fronte a una scelta irrevocabile di YHWH nei confronti di Giacobbe: del resto secondo una leggenda ebraica, la lenticchia rappresenta la morte perché essa ha la forma di una ruota e la morta ruota continuamente tra gli uomini[4]: dunque Giacobbe sceglie la vita, Esau accetta un destino di morte. Un destino che sarà confermato dalle sue scelte future, prima tra tutte la scelta matrimoniale, che tanti conflitti portava nelle famiglie e che anche oggi rappresenta comunque lo strappo del giovane dalla famiglia di origine:

    Or Esau, all'età di quarant'anni, prese in moglie Giudit, figlia di Beeri, l'Ittita, e Basmat, figlia di Elon, l'Ittita. Esse furono causa di profonda amarezza per Isacco e per Rebecca (Gen 26, 34-35).

    Ma è nella scena della benedizione ”estorta” che incontriamo anzitutto la grande regia di Rebecca, che traveste Giacobbe per farlo assomigliare al peloso Esau, e poi l’inganno nel quale l’inconsapevole Isacco cade,

    «Avvicìnati, figlio mio, e lascia che io ti tasti, per sapere se sei proprio mio figlio Esaù, o no». Giacobbe s'avvicinò a suo padre Isacco; e, come questi lo ebbe tastato, disse: «La voce è la voce di Giacobbe, ma le mani sono le mani d'Esau». Non lo riconobbe, perché le sue mani erano pelose come le mani di suo fratello Esaù, e lo benedisse. Disse: «Tu sei proprio mio figlio Esaù?» Egli rispose: «Sì». E Isacco gli disse: «Portami da mangiare la selvaggina di mio figlio, e io ti benedirò». Giacobbe gliene servì, e Isacco mangiò. Giacobbe gli portò anche del vino, ed egli bevve. Poi suo padre Isacco gli disse: «Ora avvicìnati e baciami, figlio mio». Egli s'avvicinò e lo baciò. E Isacco sentì l'odore dei vestiti, e lo benedisse dicendo: «Ecco, l'odore di mio figlio è come l'odore di un campo, che il SIGNORE ha benedetto (Gen 27, 21-27).

    Il testo è inequivocabile e rimane ancora oggi sconcertante: nel conflitto tra i due giovani YHWH sceglie uno dei due commettendo quella che ai nostri occhi sembra una palese e inaccettabile preferenza (come peraltro aveva fatto con Abele). Ma qui c’è in gioco altro: “nessuna clausola vincolava la benedizione impartita da Isacco al figlio maggiore: Esau avrebbe goduto di prosperità in questo mondo, senza dover dar prova di meritarsela. Quella destinata a Giacobbe secondo le parole della benedizione, invece, dipendeva dalle sue buone opere”[5]. Questo commento tratto da una leggenda apocrifi ci mette sulla strada per una reinterpretazione parziale dell’episodio, importante anche a livello pedagogico. La benedizione del primogenito è un segno di elezione, ma come sempre nel pensiero giudaico il concetto dio elezione è legato all’idea di responsabilità. L’eletto, il benedetto, non è privilegiato: è semmai colui che dovrà fare di più, impegnarsi maggiormente, colui le cui opere dovranno sempre essere all’altezza della sua responsabilità. Esau se la prende, a ragione, per questa ingiustizia, e Rebecca cerca (un po’ goffamente) di mettere una pezza alla situazione:

    Esaù odiava Giacobbe, a causa della benedizione datagli da suo padre, e disse in cuor suo: «I giorni del lutto di mio padre si avvicinano, allora ucciderò mio fratello Giacobbe». Furono riferite a Rebecca le parole di Esaù, suo figlio maggiore, e lei mandò a chiamare Giacobbe, suo figlio minore, e gli disse: «Esaù, tuo fratello, vuole vendicarsi e ucciderti. Ora, figlio mio, ubbidisci alla mia voce; lèvati e fuggi a Caran da mio fratello Labano, rimani laggiù, finché il furore di tuo fratello sia passato, finché l'ira di tuo fratello si sia stornata da te ed egli abbia dimenticato quello che tu gli hai fatto. Allora io manderò a farti ritornare da laggiù. Perché dovrei essere privata di voi due in uno stesso giorno?» (Gen 27, 41-44).

    Ma sarà ancora Giacobbe, reso protagonista della storia proprio dalla responsabilità che ha avuto dalle benedizione, a cercare il fratello per chiedergli perdono:

    Giacobbe alzò gli occhi, guardò, ed ecco Esaù che veniva avendo con sé quattrocento uomini. Allora divise i figli tra Lea, Rachele e le due serve. Mise davanti le serve e i loro figli, poi Lea e i suoi due figli, e infine Rachele e Giuseppe. Egli stesso passò davanti a loro, e si inchinò fino a terra sette volte, finché si fu avvicinato a suo fratello. Ed Esaù gli corse incontro, l'abbracciò, gli si gettò al collo, lo baciò e piansero (Gen 33, 1-4).

    È vero che anche qui il testo biblico non abbandona la predilezione per Giacobbe. E’ infatti lui a dare una ennesima lezione al fratello, mostrandogli una straordinaria definizione del ruolo del “capo” che non è colui che marcia davanti al popolo ma colui che chiude la fila, prendendosi cura dei deboli e degli ultimi:

    Poi Esaù disse: «Partiamo, incamminiamoci, io andrò davanti a te». Giacobbe rispose: «Il mio signore sa che i bambini sono in tenera età e che ho con me delle pecore e delle vacche che allattano; se si forzasse la loro andatura anche per un giorno solo, le bestie morirebbero. Passi dunque il mio signore davanti al suo servo; e io me ne verrò pian piano, al passo del bestiame che mi precederà, e al passo dei bambini, finché arrivi presso al mio signore, a Seir» (Gen 33, 12-14).

    Così si conclude la storia dei due gemelli litigiosi, una storia nella quale tanti fratelli attuali potranno trovare ispirazione per comprendere i loro rancori e le loro riappacificazioni. Ma l’odio fraterno era sentito come troppo forte per accettare in modo passivo questo lieto fine. E infatti l’apocrifo Libro dei Giubilei prevede un finale diverso. Istigato dai suoi figli (che minacciano addirittura di ucciderlo) Esau si volta contro Giacobbe, e le sue parole mostrano come l’odio covato in infanzia e in gioventù non sia per niente sfumato:

    Se il porco cambierà la sua pelle e le sue setole in lana, e se sulla testa gli spunteranno corna come cerno e pecora, allora io farò fraternità con te. Se le mammelle si separeranno dalle madri (…) e se i lupi, per non mangiarli e non violentarli, faranno pace con gli agnelli, e se i loro cuori saranno rivolti al bene verso loro, allora vi sarà, nel mio cuore, pace con te. E se il leone diventerà amico del bue e si sarà soggiogato insieme con esso sotto lo stesso giogo (…) E se il cervo diventerà bianco come il riso, allora io saprò che ti ho amato e farò pace con te”[6]

    Ma Esau era uscito contro Giacobbe “saltando come il cinghiale he sia capitato sulla lancia che lo ferisce e uccide e non si libera da essa”[7]. E infatti Giacobbe lo ucciderà, ponendo fine a una lunga e triste storia di odio.
    I due differenti finali rendono conto di due differenti valutazioni dei popoli pagani che secondo la tradizione usciranno dai lombi di Esau. Ma a livello antropologico offrono due diversi sbocchi per un rancore fraterno che probabilmente, al di là delle immagini edulcorate, fa parte dei sentimenti umani e che caratterizza anche oggi quella che è, soprattutto in età giovanile, una delle relazioni più forti e misteriose tra due (o più) esseri umani.

    NOTE

    [1] Louis Ginzberg, Le leggende degli ebrei, Vol II, Da Abramo a Giacobbe, Milano, Adelphi, 1996, pag. 146.
    [2]  Ibidem.
    [3] Louis Ginzberg, Le leggende degli ebrei, Vol IV, Mosè in Egitto, Mosè nel deserto, Milano, Adelphi, 199, 2005, pagg. 166-174.
    [4] Ginzberg, Vol II, cit., pag. 130.
    [5] Ginzberg, Vol. II, cit., pag. 148.
    [6] Libro dei Giubilei XXXVII, 22-23.
    [7] Ivi, XXXVII, 24.


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