La parola come Cristo
Christoph Theobald
Che cos'è la parola di Dio?
Vorrei dire che la parola di Dio è anzitutto una parola d'uomo [1]. Cos'è che permette il passaggio dalla parola d'uomo, tra esseri umani, alla parola di Dio, ossia a ciò che fa di Dio l'origine stessa di questa parola? Tale questione viene affrontata nel primo testo del Nuovo Testamento, la Prima lettera ai Tessalonicesi:
Proprio per questo anche noi rendiamo continuamente grazie a Dio perché, ricevendo la parola di Dio che vi abbiamo fatto udire, l'avete accolta non come parola di uomini ma, qual è veramente, come parola di Dio, che opera in voi credenti (1 Ts 2,13).
Si riconosce qui chiaramente che si tratta anzitutto di una parola d'uomo, e di una parola scambiata. Ma cos'è che permette di riconoscerla come parola di Dio? Il fatto che, secondo Paolo, essa è già all'opera in coloro che l'accolgono. Per l'apostolo il criterio ultimo è il vangelo, in altri termini una parola esorbitante, di cui nessun essere umano può portare il peso, una parola di cui Dio solo (o colui che chiamiamo Dio) può essere l'origine: una parola di bontà radicale, e sempre situata, sempre rivolta a qualcuno, o a un gruppo, qui e ora; e ciò in situazioni umane più o meno drammatiche, nel senso che sono presenti le forze di morte sotto varie forme: la cattiveria, la disgrazia, la malattia... E al cuore di queste situazioni che è detta una parola divina perché radicalmente buona. Ma non viene unicamente dall'esterno: essa è ciò che l'essere umano attende come compimento della propria esistenza.
Chi porta la parola?
Quando Paolo scrive la Prima lettera ai Tessalonicesi, i vangeli, così come li conosciamo, non sono ancora stati scritti. Il vangelo è una parola orale. Ma chi porta questa parola?
A portarla sono delle comunità e degli individui. Ma siccome non possono portare tutto il carico di tale parola, ecco che designano un Altro a portarla. Siamo già in un processo di scrittura, ma si tratta di scritti di circostanza. Paolo, dal canto suo, rinvia a Gesù Cristo. E Cristo a chi rinvia? Neppure lui può portare da solo questa parola, perciò dice: "Come il Padre ha mandato me, anch'io mando voi" (Gv 20,21). Per vivere ciò che è impossibile dal punto di vista umano, cioè la bontà radicale in seno a una storia che sembra incessantemente contraddirla, qualcuno è venuto - Gesù di Nazaret -, se ne è fatto carico e l'ha annunciata come vangelo. Prima che noi annunciassimo lui come vangelo, Gesù stesso ha annunciato il vangelo di Dio.
Già nella Genesi vi è una sorta di protovangelo: il prologo, il racconto della creazione, in cui il Verbo creatore è identificato con la parola di Dio per eccellenza, nella sua bontà radicale, quello sguardo portato, giorno dopo giorno, da Dio su tutta la creazione: "È cosa buona ... E cosa molto buona". Vediamo bene come la Genesi attraversi tutta la nostra esistenza umana nella sua diversità elementare (paternità, maternità, fecondità, sterilità, fraternità, sororità, gemellanza), con le sue violenze e i suoi problemi. E vediamo altrettanto bene come l'uomo proietti continuamente su Dio i suoi fantasmi, il contrario di quelle situazioni difficili, e debba attraverso la sua esistenza accedere a ciò che chiamiamo parola di Dio, che è quella bontà radicale che permette all'esistenza umana di mantenere la sua promessa.
Chi accoglie la parola vive di Dio, ma chi non la accoglie vive nelle tenebre, dice Giovanni. Non accogliere la Bontà significa dunque essere nelle tenebre? Sì, perché si resta semplicemente nella drammaticità della storia umana, ed è ciò che possiamo chiamare per l'appunto "tenebre". È un atto di non accoglienza della parola. Noi la chiamiamo parola di Dio, ed è chiaramente rinviata alla nostra libertà. Siamo noi che diciamo: "Ho ascoltato la Parola". In una chiesa in cui si rischia di identificare troppo alla svelta Scrittura-testo e parola di Dio, in una società in cui si considera troppo rapidamente il cristianesimo una religione del libro (è l'islam che rifluisce su di noi), ritengo che sia bene partire dal fatto che abbiamo a che fare qui, in ogni caso, con una parola d'uomo. L'atto di fede di chi accoglie e, prima di tutto e soprattutto, la fede di chi pronuncia la parola permettono a questa parola di diventare parola di Dio. Uno dei compiti della Scrittura è di fornircene alcuni criteri precisi.
Un primo criterio è l'importanza di chi accoglie e della sua fede. La parola è accolta come realtà già all'opera, in attesa dentro di me. Il criterio propriamente divino, che dice qualcosa su Dio stesso - un Dio che parla, appunto -, è la bontà radicale come notizia: una notizia che mi raggiunge qui e ora, nella storia dell'umanità, con la sua bellezza e con tutto ciò che ha di drammatico. Una cosa che mi pare importante dire qui è che l'ascolto della parola altrui non necessariamente risale fino alla sua fonte. Io posso ascoltare qualcuno che mi parla, posso accogliere la buona notizia del vangelo, nel senso forte del termine, e cambiare strada senza accedere necessariamente alla fonte divina di tale parola. E un fenomeno molto presente attorno a noi: io divento un essere parlante, vivo una sorta di conversione interiore, trovo il senso della mia esistenza, leggo le Scritture come una scuola di umanità. Ma per varie ragioni - perché la parola "Dio", per esempio, evoca una quantità di cose insopportabili e inaccettabili per me - non arrivo a identificare questa esperienza con la fonte, cioè con colui che chiamiamo Dio.
Secondo criterio: perché comprendiamo Cristo come parola di Dio, vale a dire la parola come Cristo, o Cristo come Parola di Dio? Vi è un solo argomento, che mi pare sufficiente: è la credibilità dell'"evangelizzatore" Cristo. Tutto qui. Egli è l'unico che ha annunciato il vangelo di Dio in modo assolutamente credibile; chiaramente non a nome proprio, ma in nome di colui che egli chiama abba ("papà"): un modo molto radicale di rivolgersi alla bontà di suo Padre. Egli ha posto in gioco la propria esistenza per quella parola. Perciò ascoltare lui significa ascoltare Dio; vedere lui equivale a vedere Dio. La credibilità di Cristo consiste nella sua radicale concordanza con se stesso, cioè nella sua libertà, nella sua autorità: egli dice ciò che pensa e fa ciò che dice. Ha un rispetto assoluto del ricevente, come Paolo. Non dice mai ai suoi interlocutori: "Sono io che ti ho salvato", bensì: "La tua fede ti ha salvato". In definitiva egli si lascia sorprendere da ciò che il suo vangelo produce negli altri. Si lascia istruire; in tal senso egli è un discepolo, nel senso di Isaia: "La parola mi risveglia ogni mattina, ogni mattina mi risveglia perché io ascolti come chi si lascia istruire" (cf. Is 50,4). Egli ascolta il vangelo di Dio dalla bocca della donna emorroissa o dai gesti più semplici delle persone che lo attorniano...
Egli mette in gioco la propria esistenza di fronte all'opposizione. Ciò implica - ed è forse l'aspetto estremo della parola di Dio - un rapporto del tutto nuovo con la morte. Quando dice: "Chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del vangelo, la salverà" (Mc 8,35), egli parla anche e anzitutto di se stesso. Consegnare la propria esistenza manifesta l'aspetto estremo della parola di Dio: Dio stesso mette in gioco la sua bontà nella storia della libertà umana. La comunità primitiva, coloro che hanno incontrato Gesù e coloro ai quali il Risorto si è mostrato vivente fanno fatica ad attraversare la morte che lui ha dovuto attraversare, giovane, su una croce... Eppure quella comunità nascente ha tutte le Scritture, il nostro Antico Testamento è a sua disposizione per comprendere in che cosa quella figura, assolutamente unica, riempie una matrice che è già là, e la supera radicalmente: egli è la parola di Dio.
L'atto di interpretazione
Come possiamo qualificare allora - negli Atti degli apostoli (cf. At 17,16 ss.) - il comportamento degli ateniesi, che non sono, strettamente parlando, "nemici" dell'Antico Testamento, ma non hanno neppure familiarità con esso?
Ciò che è straordinario, negli Atti, è che Paolo, quando giunge ad Atene, ricostruisce anzitutto un quadro culturale nel quale gli ateniesi possono ritrovarsi: "Voi siete il popolo più religioso che io conosca...". C'è nella città un tempio al dio ignoto, dunque una specie di vibrazione attorno alla parola "dio", che indica il mistero della finitezza umana (cf. At 17,26-28). Paolo ricostruisce una sorta di interiorità dal lato dell'ascoltatore, un terreno in cui la parola di Dio può essere accolta, citando per esempio, al posto delle Scritture, la poesia greca. L'ostacolo di fondo, per gli ateniesi, non è la concordanza di Paolo con se stesso né la persona di Cristo, ma è la questione della morte e della resurrezione: "Su questo ti sentiremo un'altra volta" (At 17,32). Ma non va dimenticato che un uomo e una donna ascoltano, e questo basta: il celebre Pseudo-Dionigi l'Areopagita e una donna di nome Damaris.
Noi abbiamo delle mediazioni. E quando si hanno delle mediazioni, dei testi chiave che sono già una cristallizzazione dell'esperienza - come l'Iliade, l'Odissea, le tragedie o le Upanisad -, si entra in un conflitto culturale, religioso, e non vi è più accesso a Dio al di fuori di un atto di interpretazione. La parola del magistero non è la parola di Dio, la Scrittura non è di per sé la parola di Dio; perché questa parola possa essere intesa oggi, è necessario tradurla e interpretarla. Ma dire interpretazione e traduzione significa dire rischio di deformazione. Il ruolo del magistero è aiutarci a non interrompere troppo presto l'atto di ascolto, ad ascoltare fino in fondo. Ogni epoca ha il suo "politicamente" o "ecclesialmente corretto": ognuna ama udire certe cose nelle Scritture, e non altre. Sul piano individuale, bisogna che la conversione vada fino in fondo, non la si deve soltanto incominciare.
Indubbiamente, vi è un rischio nel considerare la Scrittura in sé come parola di Dio; ma dirla "ispirata" vuol dire qualcosa di fondamentale: quell'insieme di testi ci conduce fino in fondo all'ascolto della parola stessa di Dio, il che avviene in ultima istanza nella preghiera, in un atto liturgico: "Parola di Dio! - Rendiamo grazie a Dio!". Si tratta di un testo ispirante: andiamo alla sua fonte, e scopriamo che là, in quello spazio preciso, risuona la parola di Dio per darci la vita.
Quando la parola prende corpo
Possiamo chiederci: come questa parola diventa carne, come prende corpo attraverso la preghiera, e come esserle accoglienti, offrirle un'ospitalità interiore? Insomma, come è possibile un incontro vivo con Dio?
Per questa ricezione i racconti evangelici (dal lato dei discepoli o di altri personaggi) ci delineano varie tappe, che sfociano in quell'esperienza fondamentale che Paolo esprime così: "Non vivo più io, ma Cristo vive in me" (Gal 2,2o); esperienza che sant'Agostino traduce in termini di presenza del Maestro interiore. La bussola non è più all'esterno, bensì. all'interno. Il suo versante liturgico o ecclesiale è l'eucaristia. È ciò che va colto nell'ultima cena o nell'episodio dei pellegrini di Emmaus: l'esistenza di Cristo passa in noi.
Vi è sempre in partenza un'esperienza di guarigione, che può prendere forme estremamente diverse nell'incontro con Cristo o con colui che tiene il posto di Cristo: essere risollevati nella carne, nello spirito, nel cuore, poter dire in verità "io". Più precisamente, Cristo ci guarisce dalle forze di morte che abitano in noi tutti: le "tenebre". È la tappa iniziale che porta alla dichiarazione: "Figlio, figlia, la tua fede ti ha salvato".
Cosa da sottolineare, inoltre: colui che sta di fronte - Cristo Gesù - si ritrae. È la logica costante dei racconti evangelici. Tutto ha inizio con l'invito: "Seguitemi", o in Paolo: "Imitatemi". Ci si attacca a lui, Cristo, parola di Dio, per una sorta di "fascinazione", di "seduzione d'amore"; ma se si va fino in fondo nella relazione con lui, egli ci conduce altrove. Non lega a sé le persone. Seguirlo significa in un certo senso andare là dove egli si annulla nel mistero pasquale: "È bene per voi che io me ne vada" (Gv 16,7). Nella tradizione cristiana, questa è una soglia che facciamo fatica a varcare: molti infatti occupano il "posto di Cristo", siano essi accompagnatori, superiori o un'autorità ecclesiale. Sant'Agostino ci dice che, se abbiamo il dovere di ascoltare la parola dei maestri, questa tuttavia non può essere assimilata alla parola di Dio. I maestri attorno a noi ci rinviano all'unico Maestro, il quale, dal canto suo, si ritrae in noi. Egli si fa da parte, mentre ci rinvia a qualcun altro: alla nostra origine, alla parola di Dio, al Padre. Si tratta di un'esperienza che chiamo di inversione, e che è forse la soglia essenziale dell'esperienza di ascolto. Essa ha una struttura dossologica: non si guarda più verso Dio, ma ci si vede guardati da Dio ("Nella tua luce vediamo la luce": Sal 36,1o). Guardare la realtà con i propri occhi, ma con lo sguardo di Dio, significa accostare in modo radicalmente nuovo i limiti delle cose - le sofferenze, le tragedie -, ma anche la bellezza degli esseri umani e della creazione.
L'ultima tappa di tale esperienza è dunque questa inversione o conversione: essere generati da Dio stesso. È degno di nota, nei racconti evangelici, il fatto che la loro struttura rimandi all'unicità degli episodi. Entrando, con la propria storia, in uno di quegli episodi, e in definitiva nell'insieme dell'itinerario proposto, si sperimenta la forza ispirante di quei testi, e si risale alla loro origine. È Gesù Cristo che noi acclamiamo, e non il testo del vangelo: "Lode a te, o Cristo!", lode a te che sei il Verbo di Dio. Sì, ma tu non sei parola senza di me, senza di noi.
Il colloquio spirituale è chiaramente il momento in cui questa relazione fondamentale tra lui - il terzo - e me mi porta a riattraversare le tre tappe che abbiamo percorso. Ciò suppone, da parte del maestro spirituale, la stessa capacità di ritrarsi che troviamo in Gesù di Nazaret. Il discepolo è colui che si lascia istruire dalla vita. È la forza di Ignazio di Loyola: la sua capacità di registrare ciò che producono le nostre reazioni, quali che siano, di lasciarle emergere in noi per vedere le trasformazioni che operano, quindi di lasciarci condurre gradualmente ad attraversare l'esperienza di guarigione, a rivisitare tutte le nostre relazioni, per approdare all'inversione della conversione. Ignazio dispiega questo itinerario su un piano nel contempo affettivo e intellettuale, con le nostre immagini e con le nostre consolazioni e le nostre desolazioni, radicando tale esperienza nella carne della nostra esistenza.
Un laboratorio spirituale
In che modo Cristo dà pienamente corpo alla parola di Dio?
Quando si parla di carne, di corpo, di incarnazione, si parla anzitutto di un rapporto pieno con lo spazio e con il tempo, la Galilea di allora e le nostre Galilee di oggi. In queste Galilee non ci sono unicamente sinagoghe o chiese, ci sono anche case e uffici, strade e incroci... È su questi cammini che i testi circolano oggi, e ci sono molteplici luoghi nella società in cui possono essere letti, approfonditi, e rinviare gruppi o individui alla loro umanità. Sono luoghi che a mio avviso vanno sviluppati, perché sono "porte" attraverso le quali tutt'a un tratto la parola di Dio può essere udita come tale.
Ma, a questo proposito, quale ruolo attribuire agli altri testi "mitici"? Oggi infatti noi abbiamo a che fare con altri testi religiosi forti, come il Corano o il Talmud. Vivendo in una società mista, sia dal punto di vista sociale sia da quello religioso, siamo portati a un approccio di tipo comparatista. Un tempo era riservato a una certa élite, ma oggi tale approccio viene condiviso da tutti coloro che viaggiano, leggono o incontrano altri credenti. D'un tratto, ecco che sempre più gruppi leggono le Scritture e comparano, per esempio, i testi del ciclo di Abramo o dell'annunciazione con i medesimi episodi che si trovano nel Corano. Questa comparazione introduce un'esperienza di ponderazione: cos'è che ha "peso"? Se il testo è ispirato, bisogna dimostrarlo. Non è una questione di apologetica un po' semplicistica: si tratta piuttosto di lasciar concretamente che i testi facciano un lavorio al cuore della nostra umanità. Ora, essi hanno solidità, hanno peso. Perché? Perché suscitano un atto di fede elementare, non nel senso divino del termine (cioè rivolgendosi a Dio), ma nel senso di un atto di senso. La vita ha un senso, e non un senso astratto: si tratta delle situazioni elementari dell'esistenza umana.
Pensiamo ai discepoli di Emmaus: sono nella disperazione o perdita di speranza, perché Gesù di Nazaret è morto. Attraverso tale situazione essi sono ricondotti verso quel "luogo" di conversione veramente centrale che è il confrontarsi con la morte. Gesù risponde al loro scoraggiamento ponendo delle domande: "Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?" (Lc 24,26). Qui non è questione di destino: la parola di Dio non implica un disegno prefabbricato. E solo in un secondo momento che essi scoprono - e che io posso scoprire - a qual punto la parola di Dio è risuonata nell'esistenza di quell'uomo e nella loro, nella mia. Gli eventi cominciano a "co-spirare" e a trovare senso, coerenza, in un atto di rilettura, sullo sfondo di tutte le Scritture. Il lettore arriva al momento essenziale quando avviene il gesto fondamentale dell'"apertura", dello spezzare il pane, della condivisione. Spezzare il pane diviene il simbolo del dono della propria esistenza, rendendo il cuore ardente, suscitando un'intelligenza interiore, sensibile e al tempo stesso molto discreta. Si manifesta un'armonia: sono contento. Non è l'immediatezza della "contentezza", ma il dono di sentire che le cose sono al loro posto. Nel racconto questa armonia è dapprima sperimentata da due persone; in seguito essa edifica il corpo, quando la "contentezza" dei due discepoli di Emmaus è preceduta dalla "contentezza" degli undici che li accolgono. Ci troviamo di fronte alla medesima struttura che caratterizza l'inizio della Prima lettera ai Tessalonicesi. Ciò che gli undici annunciano ai discepoli di Emmaus: "Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone!" (Lc 24,34) è già all'opera in quei due pellegrini.
Certo, qui si pone il problema del rapporto che noi abbiamo con il corpo stesso di Cristo. C'è qualcosa di molto emozionante nel ripercorrere la storia di Cristo, a partire dal suo corpo di infante fino al suo corpo sulla croce. Come si può, nella preghiera, accostarlo, toccarlo, sapendo che egli è parola di Dio?
Si potrebbe dire, invertendo i termini, che, proprio perché abbiamo "compreso" interiormente che egli è parola di Dio, noi possiamo toccarlo. Egli è infatti la parola radicalmente incarnata. Chiaramente, ciò avviene attraverso il nostro proprio corpo e la nostra capacità di immaginazione, direbbe Ignazio. La Scrittura ci fornisce le immagini (e il nostro laboratorio le ricompone) e ci introduce nel movimento di "sparizione" di Cristo per rinascere in noi. Nella preghiera sarebbe un'illusione dire a se stessi: "Sono arrivato in fondo. Ora non ho più bisogno di Cristo". Perché la vita umana e spirituale è un processo che ricomincia di continuo. L'anno liturgico ce lo ricorda. La parola di Dio è anzitutto una parola d'uomo, carica dell'infinito dell'umanità, di un infinito che non cessiamo mai di riscoprire: Cristo è in tutto simile a noi, escluso il peccato. Siamo dunque invitati a toccarlo, a incontrarlo, a mangiarlo (l'eucaristia), a nutrirci di lui (egli passa in noi) e a entrare progressivamente nel suo movimento pasquale di annullamento.
NOTE
1 Articolo pubblicato in Christus 225 (2010), pp. 51-59.
(FONTE: Lo stile della vita cristiana, Qiqajon 2015, pp. 13-25)