Cinque domande

sullo scenario futuro 

Con queste cinque domande ci prefiggiamo di individuare i nodi che la crisi sanitaria del Covid-19 con le sue conseguenze ha provocato a livello mondiale, con l’idea che, come disse anni fa un economista americano, la crisi, per quanto terribile, è un’occasione da non perdere.

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Gli intervistati: 

1. Walter Siti, Matteo Meschiari, Francesco Guala 
2. Francesca Rigotti, Davide Sisto, Luigi Zoja
3. Romano Madera, Claudio Piersanti, Claudio Bartocci
4. Nus, Nicole Janigro, Gustavo Pietropolli Charmet


1. Walter Siti, Matteo Meschiari, Francesco Guala (8 aprile 2020)

Walter Siti, scrittore

1. Quali saranno a tuo parere i principali cambiamenti che la pandemia del coronavirus ha prodotto? Provando a differenziare tra aspetti sociali, economici e culturali.

Il cambiamento principale si è registrato nella vita quotidiana: abbiamo capito quanto, nell’equilibrio delle masse, fosse legato all’uscire. Uscire di casa per evadere da se stessi. Tutte le chiacchiere vane, da cui non si impara niente, avevano una potente funzione rassicurante; uscire era la vera arma di distrazione di massa, molto più dell’intrattenimento o della propaganda politica. Stare muso a muso con se stessi, o con gli altri membri della famiglia, fa terribilmente paura. Fare shopping in giro aiutava i depressi molto più di quanto non li aiuti comprare le stesse cose su Amazon – che poi non sono proprio le stesse, perché in questo momento Amazon fa fatica a recapitare le cose inutili. La distinzione, riattualizzata, tra beni necessari e beni superflui butta all’aria uno dei maggiori risultati del consumismo. I Comuni e le Regioni hanno sempre avuto nei loro bilanci una somma da dedicare agli “eventi culturali”: libri al mare o in montagna, sagre del bagòss tradizionale, le contr/azioni femminili, la settimana della psiche, il cinema in grotta. Il sonno della Regione generava mostre. Sarebbe bello pensare che almeno di questo si possa d’ora in poi fare a meno, se non fosse che online se ne stanno già trovando i sostituti parodici.

2. Due questioni sono emerse con evidenza da questa crisi sanitaria: la globalizzazione economica e la comunicazione planetaria; a tuo parere, anche se difficile fare previsioni, come cambieranno le cose?

La globalizzazione ha permesso a mezzo mondo di aumentare il proprio tenore di vita, ma consente ai virus di espandersi come mai prima d’ora era accaduto, con una velocità inedita. La velocità degli scambi ci sta mostrando il proprio lato oscuro. Ora, che siamo sotto botta, si riscoprono i patriottismi, i confini, le radici. Forse si capirà che far produrre soltanto a certi Paesi in via di sviluppo i prodotti con scarso profitto marginale, riservandosi le produzioni fighe, è una decisione stupida quando poi di quei prodotti banali si ha un urgente bisogno; la distribuzione delle produzioni diventerà forse meno dissennata, ma non credo che la globalizzazione (connessa alla concentrazione capitalista) finirà. Dopotutto, in quarantena stiamo vivendo di Google, di Huawei, di Amazon: cioè delle più gigantesche multinazionali con bilanci che fanno impallidire quelli di molti Stati nazionali. Il delirio comunicativo, con la scusa dell’informazione sanitaria, invece di diminuire sta aumentando, la virtualità e l’irrealtà non contagiano (fisicamente).

3. Negli ultimi decenni si è parlato ampiamento della crisi dei temi umanistici, dell’umanesimo tradizionale, a vantaggio della tecnologia e della scienza come motori dello sviluppo e del cambiamento. A tuo parere sarà ancora così o l’elemento umanistico, coi suoi valori, torna di attualità? E di quale umanesimo si tratterà?

Non so, certo la reclusione forzata costringe chiunque a riflettere e svela che la tecnologia (compresa quella medica) ha i piedi d’argilla. Le utopie della Singularity University, con la vittoria sulla morte, si allontanano nella bruma. Il post human perde di fascino, di fronte al figlio che ti abbraccia e con gli occhi terrorizzati ti chiede “allora papà, è vero che dobbiamo andare tutti in cielo?” Si riscopre l’uomo attraverso la sua fragilità, la vita attraverso la presenza della morte troppo a lungo rimossa. Ma la tecnologia, astuta, ha assunto da tempo un aspetto ‘naturale’, con interfaccia a prova di idiota, ed è proprio a queste interfaccia che ci appoggiamo in questi giorni di vagabondaggio impossibile. L’umanesimo non può tornare se non mediato dalla tecnologia, e dunque su basi materiali che non dipendono dall’uomo ma dall’anonimato della finanza. L’uomo vitruviano di Leonardo era al centro dell’universo, ma la scienza ci ha ormai dimostrato quanto questa concezione sia ridicola: la tecnologia, figlia della scienza, ritrova nella madre il proprio fondamento. L’unico umanesimo possibile oggi, più che nelle fantasie sempre troppo fragili dell’arte o della morale, sta nella riscoperta della scienza come dubbio.

4. Uno dei temi discussi negli ultimi anni era quello della crisi delle élites tradizionali, quelle politiche ed economiche. A tuo parere escono indebolite o rafforzate? E il sistema capitalistico, nelle sue differenti forme, dagli Stati Uniti alla Cina, come esce da questa crisi sanitaria? Rafforzato o indebolito?

Da un punto di vista geopolitico, è ormai opinione comune che questa pandemia porterà a un’egemonia della Cina, che soppianterà quasi in tutto il mondo quella degli Usa. Le nostre élites tradizionali sono sempre state atlantico-centriche, e si troveranno irrimediabilmente smarrite. Per non parlare delle élites culturali in senso specialistico, artistiche e letterarie, che da almeno cinquant’anni sono una provincia dell’impero americano. Per quel che riguarda invece la formazione e la consistenza delle élites, c’è da sperare almeno che l’odiosa folle corsa al populismo anti-élitario, particolarmente euforica negli ultimi anni in Italia grazie alla doppia pressione di Salvini e dei Cinque Stelle, possa segnare una battuta d’arresto. A emergenza finita, forse qualcuno si renderà conto che averla affrontata con un ceto politico improvvisato e dilettantesco non è stata una gran mossa. Ammettere la necessità delle élites, in ogni campo, sarebbe già un primo passo; ma formarle richiede strutture educative che sarà difficile costruire nel pieno di una crisi economica devastante. Sarà più facile, nella seconda emergenza, ricorrere alla consolidata trafila del nepotismo e delle raccomandazioni politiche.

5. La diseguaglianza sociale che è emersa anche in questo frangente critico è destinata a perpetuarsi una volta terminata la crisi sanitaria o invece vedremo emergere dei cambiamenti sul piano economico e sulla distribuzione della ricchezza?

Credo, ahimè, che sia destinata a perpetuarsi, se non addirittura a rafforzarsi. La tenaglia agirà sui due lati. Da un lato, molte aziende medio-piccole saranno costrette a chiudere i battenti, mentre le sole in grado di sopportare qualche anno di perdite, mirando a un futuro monopolio, saranno le multinazionali fagocitanti. Dall’altro lato, in molte zone d’Italia, visti gli impacci disperanti della burocrazia, le sole entità capaci di erogare immediatamente liquidità per chi non ha da mangiare saranno le criminalità organizzate, mafia ‘ndràngheta e camorra. Gli istinti autoritari che l’emergenza sanitaria ha fatto affiorare condurranno, temo, a forme di crudeltà nei confronti dei più deboli; a una sorta di eugenetica morale per cui se muori di fame è perché non hai spina dorsale e liberi la società da un peso. Ci saranno sommosse represse duramente, e pochi protesteranno con energia. Ovviamente non mancheranno carità e volontariato, ma la loro stessa presenza confermerà che le disuguaglianze si saranno cronicizzate. Temo che l’azzeramento del ceto medio, già in corso prima del virus, si aggraverà e non resteranno che due ceti: i salvati e i sommersi.


Matteo Meschiari, antropologo

1. Quali saranno a tuo parere i principali cambiamenti che la pandemia del coronavirus ha prodotto? Provando a differenziare tra aspetti sociali, economici e culturali.

Vorrei concentrarmi almeno per questa domanda sui possibili effetti positivi. Siamo una specie dotata di grande capacità di adattamento, sempre in equilibrio tra analisi predittiva dell’esperienza ed elaborazione di scenari alternativi. Il Covid-19 è il primo vero grande trauma collettivo dell’Antropocene, mille volte più potente nell’aggredire l’immaginario delle persone del problema climatico. Credo quindi che il primo effetto duraturo della pandemia sarà quello di preparare l’umanità al prossimo step cognitivo, quello dell’accettazione del collasso ambientale come problema numero uno della nostra specie. Il crollo di molte strutture economiche, sociali, politiche e culturali genererà dolore, ma stimolerà anche qualcosa di diverso dalle solite reazioni rettiliane, irrazionali oscurantiste. Molta gente, privata del giocattolo del benessere, diventerà più vigile sui propri diritti fondamentali, e sarà forse più disposta ad esigerne il rispetto. Consapevolezza nel buio, insomma. E un rilancio esponenziale delle capacità immaginative come tecnica di sopravvivenza.

2. Due questioni sono emerse con evidenza da questa crisi sanitaria: la globalizzazione economica e la comunicazione planetaria; a tuo parere, anche se difficile fare previsioni, come cambieranno le cose?

Il neoliberismo è al cuore di questa crisi, nel senso che l’ha generata, l’ha amplificata e senza alcun pudore di fronte alla morte ne sta ritardando la soluzione. Questo perché l’erosione dei diritti elementari alla salute ha funzionato per decenni nella grande bolla illusoria del “va tutto bene”, “noi non ci fermiamo”, “la produzione a ogni costo”. Ora che i costi sono sotto gli occhi di tutti e l’evidenza dei fatti svergogna la propaganda populista, sovranista, capitalista, sarà più difficile parlare in futuro di privatizzazione e di sviluppo economico. Personalmente credo che, usciti dal guado, vedremo un’orgia di recupero nel tentativo di tamponare il vuoto lasciato dalle enormi ricchezze vaporizzate dal blocco. Ma se alcuni sciacalli politici faranno leva sulla nuova miseria per erodere i principi democratici, il malessere rafforzerà anche il dubbio in quella parte del paese che, addormentata, si è già lasciata irretire da qualche tribuno della plebe. Economia in crisi profonda e comunicazione da remoto trasformeranno in modo radicale il discorso politico. Rendendolo più complesso, più articolato, più bisognoso di reali competenze.

3. Negli ultimi decenni si è parlato ampiamento della crisi dei temi umanistici, dell’umanesimo tradizionale, a vantaggio della tecnologia e della scienza come motori dello sviluppo e del cambiamento. A tuo parere sarà ancora così o l’elemento umanistico, coi suoi valori, torna di attualità? E di quale umanesimo si tratterà?

Non ho alcun dubbio sul fatto che la cultura umanistica potrà e dovrà assumere un ruolo guida nell’attraversamento delle molte crisi che ci attendono. Faccio un esempio: il romanzo. Da circa trent’anni l’editoria e un pubblico abitudinario di lettori hanno premiato il romanzo neoliberista, quello tardo borghese, fatto di corna, malattie, montagne salvifiche, cene tra amici e salotti della nonna. Covid-19 è entrato in queste rappresentazioni e le ha svuotate. Se insomma eravamo ancora lì a elaborare il trauma degli anni di piombo, magari nella metarealtà di uno schermo televisivo, adesso nel salotto di nonna è arrivato un tremendo dinosauro nero, prelinguistico, prerazionale, sordo alla dialettica dei filosofi, non estetizzabile dai poeti. Che fare? Vogliamo davvero continuare a produrre romanzi della memoria e dell’assenza? Forse la gente non vorrà guardare negli occhi il dinosauro nero, ma avrà comunque bisogno di strumenti cognitivi per riflettere sulla nuova realtà, e non più in termini di svago ma di sopravvivenza. Se dunque l’umanesimo passerà attraverso una nuova consapevolezza del collasso forse avrà qualcosa da dire in tutte maiuscole. Altrimenti avremo perso l’ultima occasione di pensare il nostro futuro in termini antropologici e non solo produttivi.

4. Uno dei temi discussi negli ultimi anni era quello della crisi delle élites tradizionali, quelle politiche ed economiche. A tuo parere escono indebolite o rafforzate? E il sistema capitalistico, nelle sue differenti forme, dagli Stati Uniti alla Cina, come esce da questa crisi sanitaria? Rafforzato o indebolito?

In queste ore, guardando i canali di Venezia limpidi come non sono mai stati, gli animali selvatici scendere in città, le mappe delle polveri sottili passare da rosse a gialle e poi verdi, alcune voci autorevoli hanno salutato con entusiasmo il radioso cambiamento che ci attende. Un futuro che non potrà non essere anticapitalista, ambientalista, addirittura comunista. Le narrazioni dell’Età dell’oro sono sempre gemelle di quelle dell’Apocalisse, sono insomma la stessa narrazione dialettica in bilico tra utopia e distopia. La realtà sarà invece molto simile allo status quo, semplicemente esasperato, cioè più violento e più brutale. Il capitalismo, lo sappiamo, ha grandi facoltà di adattamento. E sappiamo perfettamente che esiste un’economia del disastro con gestori che contano proprio sul collasso per arricchirsi. Credo che la prossima evoluzione del capitalismo sarà all’insegna della polarizzazione di classe, con oligarchie economiche da un lato e masse di nuovi schiavi legalizzati. I sintomi erano già lì prima di Covid-19, la pandemia è una specie di enzima catalizzatore. Ma tutto si gioca adesso: riconoscere i futuri oligarchi potrebbe fare la differenza.

5. La diseguaglianza sociale che è emersa anche in questo frangente critico è destinata a perpetuarsi una volta terminata la crisi sanitaria o invece vedremo emergere dei cambiamenti sul piano economico e sulla distribuzione della ricchezza?

La caratteristica strutturale di ogni collasso è la perdita dei saperi. Nell’età del bronzo numerose città stato, ognuna delle quali aveva sviluppato un alfabeto, crollarono e rimasero in ginocchio per secoli, a volte per millenni. Dove prima c’erano biblioteche di tavolette cuneiformi crebbe l’erba e arrivarono a pascolare le capre. Oggi vediamo gli effetti della diseguaglianza sociale nelle aspettative di vita del malato. Prima lo sapevamo in teoria, oggi contiamo i morti giorno per giorno. Quello che voglio dire è che non è mai solo un problema di ricchezza ma di cultura. Ci preoccupiamo del blocco e del rilancio dell’economia, ma se i saperi crollano, e ci sono molti indizi di questo crollo, allora l’esito sarà uno e uno solo: pochissimi ricchi, moltissimi poveri. La cultura non è un surplus, un bene di lusso, è uno stato di veglia sulla realtà e sui nostri valori sociali. Se pensiamo alla ripresa del business as usual senza reinventare l’economia in termini di mutuo appoggio, se insomma il neoliberismo individualista verrà reintegrato tale e quale, lo scenario avrà un colore unico, fatto di miseria e ignoranza. E il momento per capire dove andiamo è adesso, prima della fine della quarantena.


Francesco Guala, economista

1. Quali saranno a tuo parere i principali cambiamenti che la pandemia del coronavirus ha prodotto? Provando a differenziare tra aspetti sociali, economici e culturali.

Credo che sia difficile fare previsioni, perché gli effetti dipenderanno dalla durata delle misure restrittive. Se effettivamente ci sarà una ripresa graduale delle attività a partire da fine Aprile o nei primi giorni di Maggio, credo che ci dimenticheremo presto di questo brutto periodo. Se invece l’emergenza dovesse durare anche oltre l’estate, temo che gli effetti saranno molto più radicali e meno prevedibili.

2. Due questioni sono emerse con evidenza da questa crisi sanitaria: la globalizzazione economica e la comunicazione planetaria; a tuo parere, anche se difficile fare previsioni, come cambieranno le cose?

La nostra vita dipende ormai in modo essenziale dai commerci globali. In termini molto semplici: se dovessimo tornare indietro, diventeremmo tutti più poveri. Partendo da una situazione di notevole benessere, molti non se ne accorgeranno. Altri invece, che non si considerano ricchi ma che davano per scontato di potere acquistare un nuovo maglione o un paio di pantaloni ogni mese spendendo trenta euro, scopriranno che non sarà più possibile. Ci sarebbe inoltre un rallentamento della crescita economica dei paesi meno ricchi, anche se alcuni (come la Cina) probabilmente riuscirebbero a continuare a crescere grazie alle loro grandi dimensioni.

3. Negli ultimi decenni si è parlato ampiamento della crisi dei temi umanistici, dell’umanesimo tradizionale, a vantaggio della tecnologia e della scienza come motori dello sviluppo e del cambiamento. A tuo parere sarà ancora così o l’elemento umanistico, coi suoi valori, torna di attualità? E di quale umanesimo si tratterà?

La formazione umanistica è importante nei settori dei servizi culturali e alla persona, nonché nella comunicazione. Ma soprattutto è essenziale per la tenuta democratica dei nostri sistemi politici, un bene che diamo per scontato ma che sarà minacciato dalla crisi. Nel nostro Paese soffriamo anche di una grave carenza di comprensione della scienza da parte dei cittadini e degli intellettuali umanisti, che potrebbe creare problemi in un momento nel quale ci rivolgiamo alla scienza in cerca di protezione.

4. Uno dei temi discussi negli ultimi anni era quello della crisi delle élites tradizionali, quelle politiche ed economiche. A tuo parere escono indebolite o rafforzate? E il sistema capitalistico, nelle sue differenti forme, dagli Stati Uniti alla Cina, come esce da questa crisi sanitaria? Rafforzato o indebolito?

La fine del capitalismo è stata annunciata talmente tante volte che non credo valga la pena discuterne – anche perché il capitalismo non è certamente una cosa sola. Mi sembra per esempio fantascientifico prevedere che la Cina cambi radicalmente il suo modello economico, che è un modello capitalista. L’anello debole sarà se mai la politica.

5. La diseguaglianza sociale che è emersa anche in questo frangente critico è destinata a perpetuarsi una volta terminata la crisi sanitaria o invece vedremo emergere dei cambiamenti sul piano economico e sulla distribuzione della ricchezza?

Si innescheranno diversi meccanismi in diversi paesi. In Italia quasi sicuramente ci sarà un intervento sui risparmi dei cittadini, in qualche forma da definire. Dato che il risparmio privato è concentrato nelle fasce più anziane della popolazione, che sono state protette dal grande sacrificio dei giovani, sarebbe un intervento giusto. Ma in un paese con un’età media alta degli elettori, sarà difficile prendere una decisione del genere per i partiti politici. Inoltre, il mito della famiglia fa sì che gli anziani vedano i propri risparmi come una garanzia per i propri figli – percezione sbagliata, se gli alti risparmi uniti a un alto debito pubblico generano una bassa crescita economica. Cambiare queste percezioni non sarà facile: avremo bisogno di un forte movimento di opinione a favore dei giovani e orientato verso il futuro, in grado di resistere ai populisti che già stanno scaldando i motori in vista della fine della crisi, quando esploderanno le tensioni sociali.

(https://www.doppiozero.com/materiali/cinque-domande-sullo-scenario-futuro)

2. Francesca Rigotti, Davide Sisto, Luigi Zoja (15 aprile 2020)


Francesca Rigotti, filosofa

1. Quali saranno a tuo parere i principali cambiamenti che la pandemia del coronavirus ha prodotto? Provando a differenziare tra aspetti sociali, economici e culturali.

La pandemia ha prodotto ovunque un immenso ricorso agli strumenti hightech, oltre che biotech. Ora, si sarebbe immaginato anche soltanto negli anni '90 di chiudere in casa tanta gente (non tutta: la società è stata spaccata in due: chi doveva/poteva lavorare e comandare e chi no, mentre i bambini sono stati privati di diritti essenziali)? Ci sarebbero state queste chiusure se non ci fosse stata Internet? Se non si fosse pensato: “Faranno il telelavoro, giocheranno e forse seguiranno le lezioni con smartphone e tablet, passeranno la giornata dietro alle notizie o visitando siti online di musei, ascoltando musica, scambiandosi notizie sul nulla”? Penso di no. L'esistenza di Internet ha giustificato e permesso l'arresto domiciliare e impedito di pensare ad altre misure; e questi strumenti continueranno a imperversare portando danni all'istruzione, limitando la privacy, intensificando i controlli. A ogni crisi recente abbiamo assistito alla recrudescenza di queste misure. Qualche aspetto positivo ci sarà, se il telelavoro permetterà di non doversi più spostare ogni giorno. Temo di più comunque gli effetti negativi che si adotteranno, ricorrendo alle nuove tecnologie, per sorvegliare e risparmiare (sull'istruzione e sulla sanità, dove altrimenti?).

2. Due questioni sono emerse con evidenza da questa crisi sanitaria: la globalizzazione economica e la comunicazione planetaria; a tuo parere, anche se difficile fare previsioni, come cambieranno le cose?

Immagino che la Cina cercherà di estendere la sua egemonia presentandola come benevola; sarà l'amico forte e bonario che in realtà avvolgerà e soffocherà con le proprie condizioni i paesi in difficoltà che se ne lasceranno morbidamente avvolgere, senza capire o senza tener conto del fatto che la attuale Cina è una dittatura capitalista antiliberale basata sul disprezzo dei diritti umani e sulla sorveglianza generalizzata che verrà estesa agli stati vassalli.

3. Negli ultimi decenni si è parlato ampiamente della crisi dei temi umanistici, dell’umanesimo tradizionale, a vantaggio della tecnologia e della scienza come motori dello sviluppo e del cambiamento. A tuo parere sarà ancora così o l’elemento umanistico, coi suoi valori, torna di attualità? E di quale umanesimo si tratterà?

Temo, temo molto che al di là del rispetto che ancora troverà nelle anime belle, il culto della tecnologia (di cui al punto uno) soffocherà i pochi luoghi dove l'umanesimo è ancora presente, riducendolo a un'orchidea secca. Lo temo anche se io personalmente continuerò a battermi perché ciò non avvenga e mai mi arrenderò a chi ritiene la partita definitivamente persa.

4. Uno dei temi discussi negli ultimi anni era quello della crisi delle élites tradizionali, quelle politiche ed economiche. A tuo parere escono indebolite o rafforzate? E il sistema capitalistico, nelle sue differenti forme, dagli Stati Uniti alla Cina, come esce da questa crisi sanitaria? Rafforzato o indebolito?

Élites? Quali élites? Magari ci fossero delle élites tra i governanti dei paesi. In Italia di sicuro non ne vedo. Ci sono in senso letterale, perché i governanti sono stati “eletti”. Ma che siano degli “eletti” nel senso di persone pregevoli e di alta qualità, mi dispiace, no. Mi ero illusa sulle sardine, ma quando ho sentito il loro leader dichiarare in televisione che il presidente del consiglio si comporta bene perché agisce “da buon padre di famiglia” ho colto nell'uso dell'immagine paternalista (diffusa anche dalle terribili ripetute sentenze “state a casa” o, ancor peggio, “lo facciamo per il vostro bene”) la profonda ignoranza dei principi democratici. Della Cina ho detto, che esce incredibilmente rafforzata nel suo sistema economico finto comunista e vero capitalista autoritario. Per gli USA vedo un forte declino.

5. La diseguaglianza sociale che è emersa anche in questo frangente critico è destinata a perpetuarsi una volta terminata la crisi sanitaria o invece vedremo emergere dei cambiamenti sul piano economico e sulla distribuzione della ricchezza?

Spero intensamente che i movimenti verdi riescano a imporre altre condizioni di sviluppo che oltre che far del bene al pianeta potrebbero anche spianare alcune disuguaglianze grossolane, imponendo misure che evitino gli incassi spropositati dei giganti del Web. Se qualcosa di nuovo verrà la immagino proveniente dai paesi del Nord nei quali la coscienza ecologica è molto più avanzata che nel sud dell'Europa.


Davide Sisto, filosofo

1. Quali saranno a tuo parere i principali cambiamenti che la pandemia del coronavirus ha prodotto? Provando a differenziare tra aspetti sociali, economici e culturali.

Per misurare i cambiamenti che sta producendo la pandemia del coronavirus occorre, a mio avviso, porre la propria attenzione sul vocabolario attualmente in uso. All’improvviso, lo spazio pubblico ha cominciato a utilizzare in modo reiterato parole come “assembramento”, “distanziamento sociale”, “lockdown”, “patologia pregressa”.
L’aspetto più interessante è il legame tra la situazione di emergenza e l’attribuzione di un significato positivo a termini che generalmente indicano un che di negativo (il “distanziamento sociale”) e, viceversa, di un significato negativo a termini che generalmente indicano un che di positivo (il “contatto fisico”). Ora, questo tipo di attribuzione di significato ha un suo senso specifico nel periodo temporalmente limitato di una emergenza. Ma, se ha ragione Yuval Noah Harari quando sostiene che i provvedimenti d’emergenza a breve termine diventano parti costitutive della quotidianità, poiché è la natura stessa delle emergenze a determinare un’accelerazione dei processi storici, allora si corre il rischio di creare patologici modelli sociali a partire da condizioni di vita del tutto eccezionali e temporanee. Sono giorni che leggiamo, per esempio, sui giornali previsioni di un futuro privo di abbracci tra le persone, in cui la didattica online e lo smart working diverranno predominanti nel mondo dell’istruzione e del lavoro, in cui si baratterà la visita “fisica” ai musei con quella “virtuale” stando nelle proprie abitazioni, in cui i cinema si muteranno nei drive in di “paninara” memoria e in cui, infine, gli unici concerti che vedremo saranno quelli registrati e condivisi su YouTube. Addirittura, circolano in Rete diversi – deliranti – articoli sugli Hikikomori quali modelli da seguire nella nuova vita post-Coronavirus.
In altre parole, il cambiamento generato dal Coronavirus sembra tradursi nel baratto della vita offline con una vita interamente online, creando un danno epocale per un numero incalcolabile di lavoratori. Congelati i corpi nei singoli appartamenti, si lascia libero arbitrio alle identità digitali, non soggette ai rischi che corrono le identità fisiche. Questo baratto, in fondo già in parte previsto da una società intesa a puntare tecnologicamente sugli avatar e sugli ologrammi degli esseri umani, non tiene conto che la medicina è peggiore della malattia che intende curare. Sotto molteplici punti di vista: da quello sociale a quello psicologico, da quello economico a quello culturale.
Al di là della necessaria prudenza in un’epoca segnata da una pandemia molto pericolosa, lasciare campo libero alla paura dell’altro – che mi può contagiare o che, viceversa, io posso contagiare – significa creare una società ipocondriaca che accentua la sfiducia nei confronti delle relazioni umane ed enfatizza le differenze. Lo “stare a casa” in modo non problematico implica, infatti, specifici confort nelle abitazioni, un limpido benessere psicofisico, lavorativo, economico e familiare, nonché una marcata capacità a utilizzare gli strumenti digitali. Tutte varianti che, in linea generale, sono assenti nella maggior parte della popolazione. Inoltre, sorvolando sui disastri economici che l’emergenza produrrà e sull’eterogeneità del mondo del lavoro, la diffidenza nei confronti dell’altro rischia di accentuare quella chiusura in sé – e all’interno del proprio piccolo nucleo di appartenenza – da cui non possono che seguire conseguenze nefaste sul piano politico e culturale (del tutto a vantaggio dell’estremismo nazionalista e delle peggiori forme di sovranismo populista).
Ecco che si ritorna al punto di partenza: il linguaggio. Sarebbe opportuno pensare che i cambiamenti, con cui ci dovremo confrontare, non devono implicare situazioni di “aut-aut”, accentuate dal facile uso di termini che attribuiscono un valore qualitativo all’alienazione. Bisogna, cioè, gestire con la corretta dose di razionalità la vita pubblica, investendo sulla sanità e integrando la dimensione offline con quella online: non è positivo creare un mondo in cui l’essere un Hikikomori rappresenti la norma corretta, in quanto alla mercé di un sistema sanitario carente per colpa della miopia politica. Facendo così, si debella un virus per svilupparne molti altri, più devastanti a lungo termine.

2. Due questioni sono emerse con evidenza da questa crisi sanitaria: la globalizzazione economica e la comunicazione planetaria; a tuo parere, anche se difficile fare previsioni, come cambieranno le cose?

Preferisco non addentrarmi nel campo della globalizzazione economica, per non dire banalità da bar in quanto privo delle competenze necessarie per fornire una chiave di lettura che sia quantomeno acuta. Mi soffermo, invece, sul tema della comunicazione planetaria, che rientra nelle mie competenze di ricerca. Ritengo che il Covid-19 abbia portato alla luce due tendenze radicalmente contrapposte relative al rapporto tra la dimensione online e la dimensione offline.
Da una parte, ha evidenziato quanto le due dimensioni siano integrate l’una nell’altra. Nel momento in cui i nostri corpi sono stati congelati negli appartamenti, ci siamo affidati alle nostre identità digitali, il cui compito è la narrazione collettiva dell’evento in corso. Camus, in La Peste, racconta che, almeno nella prima fase di quarantena, i cittadini non hanno più modo di comunicare tra loro: vietato lo scambio di corrispondenza cartacea (le lettere possono, infatti, diventare veicolo di contagio) e limitate le comunicazioni telefoniche per i casi urgenti (la morte, la nascita e i matrimoni), restano a disposizione delle persone i soli telegrammi. «Creature legate dalla mente, dal cuore e dalla carne – scrive Camus – furono ridotte a cercare i segni dell’antica comunione nelle maiuscole di un dispaccio di dieci parole».
A leggere oggi questa frase viene da sorridere. I social network, quali autobiografie culturali collettive, mettono ciascuno di noi nella condizione di contribuire alla narrazione collettiva e intergenerazionale della pandemia. Le parole, le immagini e i suoni danno forma alla nostra corporeità digitale, la quale coincide con il messaggio che veicoliamo con e verso gli altri. Pensiamo alle video-chiamate, diventate gli strumenti essenziali per mantenere il legame tra i sani e i malati, e ai funerali in streaming, alternative tecnologiche ai classici riti funebri. Non solo autobiografie culturali collettive, anche enciclopedie dei morti. Pensiamo, a proposito, a una destabilizzante pagina Facebook come “Noi denunceremo”, in cui i parenti dei morti in Lombardia raccontano nei minimi dettagli le loro vicende personali, taggando – molto spesso – i cari che non ci sono più e, pertanto, rinviando i lettori ai loro profili colmi di dati biografici.
La quantità di dati prodotti nei social network, nonché in ogni luogo frequentato in Rete, modifica in maniera sostanziale la dialettica tra scrittura e lettura a cui siamo abituati, rivoluzionando le regole delle narrazioni e delle comunicazioni. Come osserva Kenneth Goldsmith, «il web funziona sia come luogo di lettura che di scrittura: per gli scrittori è una grande scorta di testo da cui costruire letteratura; i lettori fanno la stessa cosa, tracciando sentieri attraverso questo groviglio di informazioni e finendo per fare anche da filtro» (CTRL+C, CTRL+V – scrittura non creativa, p. 187). Le sintassi normativo-descrittive, che connotano in particolare il tipo di scrittura sviluppato man mano dai social network, permettono agli stessi lettori di diventare a loro volta scrittori, trasformando sé stessi da creatori e accumulatori seriali di dati a biografi della propria vita. Essi plasmano, cioè, la propria memoria autobiografica giorno dopo giorno, contribuendo a tratteggiare contemporaneamente il profilo biografico altrui.
Da un’altra parte, invece, il Covid-19 ha evidenziato quanto le due dimensioni online e offline possano essere in contrasto tra loro. L’ho sottolineato nella risposta precedente. L’aver barattato – per emergenza – la presenza fisica con quella digitale spinge molte persone a credere che la seconda possa fare a meno della prima. La sostituzione, già ampiamente in corso là dove l’iperconnessione diviene patologica e si fanno esperimenti per renderci immortali sottoforma di spettri digitali, è enfatizzata dalla precarietà della attuale situazione sanitaria. Sembra che sia in corso la rivincita della più ingenua forma di dualismo cartesiano, per cui ai corpi mortali si contrappone la forza immortale dei loro avatar digitali. Sono all’ordine del giorno gli scenari distopici relativi a una vita in cui il congelamento dei corpi, necessario per proteggerli, va di pari passo con la realizzazione del mind uploading nella sua versione meno estrema (l’identificazione del sé con il profilo social).
Come già evidenziato, occorre essere molto attenti a fare in modo che la sostituzione non prevalga sull’integrazione, scambiando quindi la protezione della vita biologica con una sua reclusione forzata a tempo indeterminato. Tale scambio dimentica volutamente il ruolo inevitabile della morte quale elemento costitutivo del nostro stare al mondo.
In definitiva, occorre cercare di trarre le opportunità che ci offrono le identità digitali, messi i corpi momentaneamente in standby, senza – per questo – identificarci completamente con loro.

3. Negli ultimi decenni si è parlato ampiamento della crisi dei temi umanistici, dell’umanesimo tradizionale, a vantaggio della tecnologia e della scienza come motori dello sviluppo e del cambiamento. A tuo parere sarà ancora così o l’elemento umanistico, coi suoi valori, torna di attualità? E di quale umanesimo si tratterà?

Mai come oggi le discipline umanistiche devono avere il coraggio di entrare in scena nello spazio pubblico. L’incredibile sviluppo delle tecnologie digitali e della scienza, quali principali motori del cambiamento in corso, rischia di generare più criticità che opportunità se non sostenuto dalle discipline umanistiche. Negli ultimi 15-20 anni abbiamo vissuto trasformazioni tecnologiche che non hanno precedenti nella storia. Per comprenderle e interpretarle, nonché per trarne i vantaggi più proficui per tutti, è necessario utilizzare gli strumenti concettuali e razionali forniti dallo studio attento e reiterato delle materie umanistiche.
Invece, noto che il mondo umanistico, a tratti eccessivamente reazionario e tradizionalista, tende ad assumere un atteggiamento di distacco o di critica pregiudizievole nei confronti di ciò che definisce – in maniera anacronistica – come “Tecnica”. Non serve a niente autoflagellarsi, esclamando con le lacrime agli occhi “O tempora, o mores!”; serve invece maturare uno sguardo vigile ed equidistante tanto dal facile entusiasmo quanto dal melodramma apocalittico. I problemi dell’umanità sono sempre gli stessi, semplicemente mutano forma man mano che prolunghiamo noi stessi tramite le nostre identità digitali. La filosofia, la psicologia, la sociologia, l’antropologia, ecc. sono discipline che permettono di offrire soluzioni e risposte che le discipline tecno-scientifiche non sono in grado di dare.
Personalmente, lo noto nel campo in cui mi sono specializzato, la Digital Death: la morte è sempre la più grande paura e il più grande mistero per l’essere umano. Soffriamo per la morte altrui nello stesso identico modo di chi ci ha preceduti. Il morto resta, per definizione, l’incarnazione della presenza di un assente, spingendoci a inventare ogni sotterfugio per plasmare la memoria individuale e collettiva, di modo da trattenere il morto con noi. Oggi, disponiamo di particolari strumenti tecnologici e scientifici che forniscono soluzioni inedite al nostro desiderio di essere eterni e alla volontà di ricordare e mantenere viva la memoria. Per rendere tali strumenti proficui e non problematici le discipline umanistiche sono fondamentali. Tuttavia, tali discipline devono svegliarsi e uscire dalle sabbie mobili in cui tendono, troppo stesso, a stare con assoluta convinzione.

4. Uno dei temi discussi negli ultimi anni era quello della crisi delle élites tradizionali, quelle politiche ed economiche. A tuo parere escono indebolite o rafforzate? E il sistema capitalistico, nelle sue differenti forme, dagli Stati Uniti alla Cina, come esce da questa crisi sanitaria? Rafforzato o indebolito?

Si sostiene generalmente che il sistema tecnico-scientifico si stia posizionando al centro della scena del mondo, mettendo in disparte le élites politiche ed economiche. La pandemia attuale ha evidenziato, indubbiamente, il ruolo primario degli scienziati che si pongono accanto ai capi di Stato per affrontare l’emergenza. Penso che sarà sempre più consueta un’integrazione tra il piano politico “tradizionale” e quello – diciamo – più tecnologico e scientifico. Dove ciò possa portare non lo so, non essendo un esperto. Così come, a naso, non sono molto convinto che la crisi sanitaria rappresenterà un duro colpo per il sistema capitalistico vigente, come in tanti auspicano. Temo, semmai, che tale sistema sarà molto abile a reinventarsi e a mettere a frutto, a danno dei più, le sue prerogative in una fase storica di enorme debolezza sociale, culturale, economica e lavorativa.

5. La diseguaglianza sociale che è emersa anche in questo frangente critico è destinata a perpetuarsi una volta terminata la crisi sanitaria o invece vedremo emergere dei cambiamenti sul piano economico e sulla distribuzione della ricchezza?

Sono estremamente pessimista a riguardo. Pertanto, credo che le diseguaglianze sociali, ben enfatizzate dall’emergenza sanitaria, tenderanno ad aumentare. Abbiamo visto, in questo ultimo mese e mezzo, che tanto è facile dire “tutti a casa” quanto è difficile stare concretamente a casa. Non è scontato averne una, non è scontato potersi permettere di non andare a lavorare in un posto fisico, non è scontato disporre di una abitazione le cui caratteristiche rendano agevole la quarantena, non è scontato disporre di un equilibrio psicofisico che permetta l’immobilità dei corpi, non è scontato disporre di una serena condizione familiare e sentimentale, non è infine scontato avere gli strumenti tecnologici necessari per sopperire alle mancanze fisiche. Contemporaneamente, abbiamo visto che, come sempre succede, non tutti i malati hanno avuto gli stessi trattamenti e che molte morti sono il risultato di un’incuria gestionale e di anni e anni di devastazione della sanità pubblica.
Dubito che, una volta usciti dalla condizione di emergenza, queste diseguaglianze non verranno ulteriormente ampliate. Ciascuno pensa per sé e gli Stati non hanno né la capacità di affrontare razionalmente la situazione né i mezzi economici per venire incontro a tutte le esigenze. Temo che ognuno dovrà arrangiarsi e che i più deboli soccomberanno facilmente. A meno che non si riscopra, in extremis, una solidarietà sociale e collettiva autentica che, andando oltre gli inutili inni nazionali suonati alle ore 18, renda concreto il senso di appartenenza all’umanità.


Luigi Zoja, psicoanalista

1. Quali saranno a tuo parere i principali cambiamenti che la pandemia del coronavirus ha prodotto? Provando a differenziare tra aspetti sociali, economici e culturali.

A. Metto in una unica risposta l’elemento sociale e quello culturale. Per valutare l’impatto sui nostri stati d’animo profondi, e quindi sui comportamenti, bisognerebbe sapere quanto durerà il lock-down. Più dura e più cambieremo. E, se ci fosse una seconda ondata di virus, a parità di durata della chiusura totale lo scossone alla nostra ingenua onnipotenza sarebbe più profondo. Se i politici dessero la priorità alla nostra salute, come dicono, dovrebbero proseguire la chiusura – con poche selezionate attenuazioni – fino a quando non sarà pronto un vaccino o altro medicinale almeno parzialmente di concreta efficacia: cosa che non avverrà. Supponiamo che si torni al lavoro intorno ad agosto. Di “vacanze” ne avremmo già fatte, e il concetto stesso di vacanza andrebbe riformulato. In Italia e nel mondo per l’individuo medio potrebbero cambiare un poco le priorità: meno consumi esteriori – vesti, automobili, viaggi, cene e aperitivi – più consumi interiori: letture, buoni spettacoli, musica. In Italia in particolare, paese estroverso e molto colpito, il riadattamento sarà una mazzata su certi lati di temperamento “simpatici” ma adolescenziali e che ci rendono fragili. Nel comportamento quotidiano potrebbe per es. esserci un certo ritorno alla cucina tradizionale: richiede più tempo ma è comunque un nostro “capitale storico-sociale” che si stava diluendo. Potrebbero diminuire i “giochi di semi-coppia” (stiamo insieme ma intanto incontro, nascostamente o apertamente, una terza persona) sostituiti da posizioni più adulte (ci separiamo; oppure: data la mia età considero il rapporto di coppia definitivo). Le coppie ora costrette a stare insieme potrebbero dividersi in modo più deciso. Oppure, fra 9 mesi, potremmo constatare che, dopotutto hanno una buona intimità. Nel post-moderno ci sono coppie che sembrano mal assortite, perché confessano di non avere, o quasi, rapporti. Ma di fatto non passano tempo insieme, e quando capita sono troppo stanche.
B. Dal punto di vista economico, l’Italia si è lentamente auto-promossa a “borghesia di massa” (per attenuare lo slogan un po’ eccessivo di Ricolfi: Società signorile di massa). Una conseguenza è stata lo spostamento elettorale a destra, malgrado i nuovi raggruppamenti di destra fossero caratterizzati da poche idee. Anzi, forse proprio per questo: e la nuova mentalità consumista è poco compatibile con finalità di lungo termine, come quelle cattoliche o comuniste. Più che di un “ceto medio di massa” si potrebbe parlare di un “ceto medio di magma”: che si trova ad aver elementi comuni quasi casualmente, non perché abbia un programma comune. Una seconda conseguenza è stato il rifiuto di misure straordinarie, come una imposta patrimoniale, anche quando il debito rischiava di scappare di mano rendendola attuale: ognuno, infatti, credeva di avere ormai un serio patrimonio da difendere. Ma di serio c’era soprattutto, fra i politici che decidono le tasse, il desiderio di compiacere ai proprio elettori oggi, anziché prevedere la tenuta del paese domani. Ora ci sarà un taglio trasversale immenso della ricchezza, quindi una imposta patrimoniale di fatto se non di nome. La FED ha promesso liquidità illimitate: stamperà Dollari. La BCE ha meno libertà, ma verosimilmente troverà accordi per imboccare una via simile. Pompando la liquidità che manca, pur con fallimenti sanguinosi l’economia ripartirà. Ma i patrimoni posseduti almeno per un po’ perderanno sensibilmente valore, perché non ci sarà un mercato con molti potenziali compratori che ne tengano su le quotazioni. E, se le banche centrali metteranno masse ingenti di nuova liquidità in circolazione, la loro unità di misura ($ o € o altro) potrà rapidamente passare dalla scarsità alla inflazione: che corrisponde a un altro, strisciante impoverimento di tutti: ma soprattutto dei più indifesi (nell’economia classica l’inflazione è detta “l’imposta sui poveri” perché erode particolarmente i redditi da lavoro dipendente).

2. Due questioni sono emerse con evidenza da questa crisi sanitaria: la globalizzazione economica e la comunicazione planetaria; a tuo parere, anche se difficile fare previsioni, come cambieranno le cose?

A. La globalizzazione dovrebbe essere temperata da misure protettive dei mercati interni e delle fasce sociali deboli: e questa, ragionevolmente, è uno dei pochi cambiamenti socio-economici che si potrebbero realizzare con relativa concordia. Il problema esisteva ben prima del coronavirus ed è stato fatto ben poco per affrontarlo: anche perché le fasce sociali deboli sono state le prime – per mancanza di informazione – a favorirlo, a circolo vizioso. Molto schematicamente: se nel secolo scorso un indumento-base come la T-shirt costava € 5, con l’arrivo di Cina e Asia sul mercato europeo è sceso gradualmente a € 1 al pezzo. Ormai assuefatto ad automatismi consumisti, invece di comprarne una come prima e tenersi in tasca € 4 da investire nel futuro (libri, mutuo) l’italiano medio ha improvvidamente comprato 5 T-shirt, di colori diversi, dando l’ultima botta alla nostra industria tessile.
Da tempo si dice che ormai gli stati, con le loro leggi, contano meno delle multinazionali, o almeno del commercio internazionale. Questo è vero fino a un certo punto. Gli USA, e Trump in particolare, riescono a proteggere il loro mercato. L’Italia da sola quasi non conta. La UE avrebbe una “leva” quasi corrispondente a Trump, ma manca di un esecutivo con vasti poteri e ha un bilancio molto povero, rispetto a quelli degli stati che la compongono. I cittadini dei paesi europei, e gli italiani in particolare, vorrebbero più aiuto dalla Unione, il che comporterebbe ampliare i poteri e le finanze di Bruxelles: ma, al momento delle elezioni, il partito che più spinge in quella direzione, e che quindi si chiama Più Europa, riceve voti minimi. I voti vanno a chi strilla: Meno Europa! come la Lega: un masochismo che forse ha l’uguale solo nel fervore con cui masse considerevoli (non maggioranze, come a volte si dice) portarono al potere Hitler e Mussolini. Con la crisi attuale, in teoria i movimenti più europeisti dovrebbero esser finalmente favoriti. Invece, la UE è al più basso livello di popolarità, complice la stampa di destra ma soprattutto la quasi totalità dei canali televisivi, che alimenta un nuovo “scontro di civiltà” tra Bruxelles e l’Italia o addirittura tra Europa del Nord e del Sud: mentre un appello all’azione congiunta firmato da 300 intellettuali e docenti universitari italo-tedeschi è passato sotto silenzio.
In pratica, si rendono comunque necessari – ora, ben prima di qualunque elezione – interventi e organismi straordinari per gestire l’emergenza sanitaria ed economica. Questa novità potrebbe portare – nostro malgrado –a una maggiore collaborazione fra governi, a un ampliamento di budget e poteri europei e alla creazione di organismi sovranazionali che possono restare.
B. La comunicazione è pure da tempo scappata di mano, e finita in buona parte nelle mani di una Silicon Valley: dove risiedono persone abbastanza colte, ma motivate troppo esclusivamente dal loro interesse personale. Internet ha sostituito in parte la carta. All’inizio ha ampliato infinitamente le possibilità di conoscenza, ma presto ha prodotto il “paradosso di internet”: passata una certa soglia, aumenta la confusione anziché la conoscenza. I “social” hanno agilizzato ancor più la comunicazione: ma favorendo messaggi concentrati, tanto aggressivi quanto falsi (fakes). La crisi del virus ha portato però una novità. Nella stampa e soprattutto in TV è balzato in primo piano un protagonista antico, ma insieme “nuovo”: lo scienziato. Malgrado l’esibizionismo e la frettolosità dei presentatori, sono questi che ora “bucano lo schermo”. Stiamo assistendo a una inattesa correzione della perversa “legge” di Dunning – Kruger, secondo cui le persone che non sanno diventano gradualmente convinte di sapere. Per il momento, questa è un’inversione molto positiva. Durerà? Sono uno psicoanalista, di profeti ne abbiamo avuti anche troppi. (Si vedano in internet gli artt. sul Dunning – Kruger Effect.)

3. Negli ultimi decenni si è parlato ampiamento della crisi dei temi umanistici, dell’umanesimo tradizionale, a vantaggio della tecnologia e della scienza come motori dello sviluppo e del cambiamento. A tuo parere sarà ancora così o l’elemento umanistico, coi suoi valori, torna di attualità? E di quale umanesimo si tratterà?

Dovrebbe tornare di attualità. Non attribuirei però all’umanesimo una qualifica, un aggettivo. Se così facessimo, rischierebbe di essere l’umanesimo di una qualche élite, di qualche accademia. Una ulteriore parte della scuola e dell’università, visto che già è stata costretta a farlo, si digitalizzerà. Questo rende l’umanesimo ancor più necessario perché gli schermi conservano le informazioni e la conoscenza, ma allontanano l’uomo.

4. Uno dei temi discussi negli ultimi anni era quello della crisi delle élites tradizionali, quelle politiche ed economiche. A tuo parere escono indebolite o rafforzate? E il sistema capitalistico, nelle sue differenti forme, dagli Stati Uniti alla Cina, come esce da questa crisi sanitaria? Rafforzato o indebolito?

Preferisco non parlare di un “sistema”. Questo personifica, può sottintendere un centro con delle intenzioni, un po’ come si pensava che lo fosse Mosca per il “sistema comunista”: mentre abbiamo constatato che Mosca non riusciva a controllare l’URSS e neppure il Partito. Concettualizzare un “sistema” rischia di diventare un alibi per puntare il dito anziché fare i compiti più elementari, che da generazioni vengono rinviati. Preferisco anche non riferirmi troppo alla presente crisi sanitaria mondiale, che segnerà una generazione: e sulla quale, quindi, il 2020 permette ancora di dire ben poco. Scrivendo in febbraio ho già ricordato che l’Organizzazione Mondiale della Sanità aveva avvertito in diverse occasioni - l’ultima volta nel 2018 – dell’arrivo probabile di una pandemia, che chiamava Disease X. Quasi niente è stato fatto, soprattutto in Italia. Praticamente nulla in Europa, per la mancanza di poteri già sottolineata.
Non so se esiste un “sistema capitalistico”. Forse ne esistono tanti. Esistono infiniti sottosistemi, anche loro poco definibili, perché alla fine chi esiste sono gli uomini. Cinquant’anni fa esisteva il capitalismo all’italiana, misto, con molte partecipazioni statali. Funzionava decentemente e dava benessere. Avevamo anche legislazioni sociali e ci illudevamo di essere un paese progressista: ci illudevamo, nel senso che l’eccezione italiana corrispondeva a un progressismo dominato dal Partito comunista. Col risultato che, quando il comunismo è scomparso, è scomparso il progressismo. Anche il capitalismo all’italiana non ha funzionato più e ha fornito soprattutto corruzione. Esisteva il capitalismo scandinavo: la proprietà era privata, ma aveva ferrei correttivi sociali. Nella globalizzazione non ha retto, ma i compromessi che ha lasciato corrispondono alla più giusta delle società umane di tutti i tempi. (Quanti pazienti, reduci del ’68, mi hanno detto: Come vorrei che mio padre fosse ancora vivo per dirgli che aveva ragione, quando diceva che la soluzione sarebbe stata una socialdemocrazia scandinava!) La globalizzazione – che ci domina – non è tanto un modello produttivo quanto un tipo di relazioni internazionali. Per modificare veramente l’incastro internazionale ci vorrebbe un accordo tra i grandi attori: USA, Cina, UE. Questo sistema, invece, è difficilmente alterabile perché permette – in misura diversa a seconda degli attori – redditi crescenti contemporaneamente a una disponibilità di merci crescenti: di fatto, quest’ultima procede più rapidamente, così c’è sempre qualcosa che vorremmo comprare e non abbiamo ancora acquistato. Tutto il circolo perverso si basa dunque su un certo “consenso consumistico della massa”. Parola che uso intenzionalmente, al posto di popolo: perché quello che chiamavamo popolo, come già diceva Hanna Arendt, si è gradualmente trasformato in plebe. In un certo senso, almeno inizialmente, il tentativo del comunismo era di lasciarlo popolo. Aveva fatto male i conti: perché, poniamo, gli inglesi vorrebbero trasformarsi in plebe e i russi no? Anche i russi sono umani, certo non diversi dagli altri nel loro fondo umano. (In Russia corre un detto: Il comunismo è stato una invenzione delle élites per giocare col popolo.)
Naturalmente sarebbe necessaria qualche altra distinzione fra i nuovi attori mondiali. In Cina e India crescono sia redditi che merci disponibili. In Occidente, e in modo particolare in Italia, crescono le merci ma aumentano solo i redditi alti. Nel nostro paese, come dice per esempio Cacciari, il mondo irrigidito della politica e della comunicazione dovrebbe andare a casa, essere in gran parte sostituito. In Francia, piaccia o no, è arrivato Macron, politico diverso. In Germania, il nuovo secolo è segnato da Merkel: indipendentemente dal gradimento, donna e dell’Est. Che in 30 anni è stato quasi integrato nel resto del paese. In Italia dopo oltre un secolo e mezzo non abbiamo integrato il Mezzogiorno. Qui dovrebbero succedere più cose che altrove, ma è possibile che ne succedano di meno. Fra quelle che possono succedere: Potrebbe esserci una Terza Repubblica. Ma anche la Seconda non ha cambiato molto. Potremmo uscire dal G 8, perché l’Italia non sarà più fra le prime otto potenze economiche del mondo. Ma anche questa non è una vera novità. Dopo il successo stellare del Rinascimento, che portò l’Italia a essere sia culturalmente sia economicamente il primo paese del mondo, il solo periodo di crescita economica (e, forse non a caso, anche culturale) dell’Italia sono stati gli anni dopo il 1945. Si veda la Storia economica d’Italia, a cura di Ciocca e Toniolo, addirittura nell’Introduzione. Altro che “in questo momento l’Italia non cresce”, come dicono dei politici che evidentemente non aprono un libro: la crescita è l’eccezione, la stagnazione è la regola secolare.

5. La diseguaglianza sociale che è emersa anche in questo frangente critico è destinata a perpetuarsi una volta terminata la crisi sanitaria o invece vedremo emergere dei cambiamenti sul piano economico e sulla distribuzione della ricchezza?

Io credo che neanche Keynes e Roosevelt, agli inizi degli anni ’30, sapessero dove sarebbe finita l’economia. Speravano di indirizzarla: e, sicuramente, avevano a disposizione più strumenti di quanti ne abbiano ora i politici o gli economisti. Per una serie infinita di motivi, ma anche per una ragione molto facile da riassumere e che riguarda la nostra mentalità, la psicologia prevalente, in particolare in Italia: poteri pubblici e privati cittadini, nel nostro paese ritenuto così sollecito verso i figli e attento ai valori famigliari, hanno pensato ad accrescere le attuali comodità, non le possibilità future.
Per restare al tema: qualunque sistema fiscale ha due finalità complementari, da un lato finanziare attività e servizi pubblici, dall’altro correggere le differenze di ricchezza. Per far questo ha bisogno non solo di leggi impositive, ma anche della partecipazione dei cittadini. Personalmente ho vissuto a lungo fuori d’Italia e viaggiato molto. In nessuno dei paesi incontrati ho trovato meno attenzione che in Italia alla psicologia del contribuente: che deve pagare le tasse, ma va anche convinto e reso partecipe. Il sistema fiscale italiano non sembra mai orientato a cercare questo consenso, solo a riempire le proprie immediate esigenze di cassa. Col risultato che, in momenti di drammatico bisogno come questo, in cui bisogna cercare finanziamenti enormi e rapidi, si trova privo del principale know-how: il dialogo tra l’istituzione pubblica che deve chiedere e il cittadino che deve dare. O la base impositiva per una equa imposta patrimoniale, che in altri paesi esiste al di fuori dell’emergenza economica.
Quanto all’emergenza sanitaria, non sappiamo quando terminerà. Azzardare previsioni rischierebbe di farsi partecipe di quell’atteggiamento di sufficienza mista a incompetenza che – ho cercato fin qui di sottintendere – è fra i virus culturali dei nostri mass media.
Poiché anche delle pandemie che erano state previste è stato difficile prevedere la durata, non possiamo neppure rispondere con certezza come fece Freud. Ottantenne e malato, quando nel settembre 1939 gli chiesero: “Pensa anche lei che sarà l’ultima guerra?” rispose: “Sarà la mia ultima guerra”.

(https://www.doppiozero.com/materiali/cinque-domande-sullo-scenario-futuro-0)

3. Romano Madera, Claudio Piersanti, Claudio Bartocci (22 aprile 2020)


Romano Madera, psicoanalista

1. Quali saranno a tuo parere i principali cambiamenti che la pandemia del coronavirus ha prodotto? Provando a differenziare tra aspetti sociali, economici e culturali.

Intanto grazie a Doppiozero per avermi invitato a rispondere a queste domande che possono servire a inquadrare il famoso cigno nero. Vorrei però provare a guardarlo secondo una prospettiva anamorfica: un “cigno periodico trasformista”, che ogni tanto appare sotto le forme di virus, ogni tanto di guerra, ogni tanto di conti economici e finanziari che non tornano. Ogni sempre, invece, in catastrofi sociali e psichiche di parti consistenti degli umani.
La disuguaglianza sociale sta crescendo da decenni. Dalla crisi del 2008 non si è certo usciti invertendo la tendenza, sempre più evidente dagli anni Ottanta in poi. Basta uno sguardo alle tabelle del World Inequality Report del 2018. Se solo si riuscisse a capire la sentenza di condanna al nostro modo di vivere, di produrre, di consumare che traspare da quei numeri, non potremmo evitare di prendere atto della necessità di trasformazione radicale che si imporrebbe a chi abbia l’ardire di pensare in grande e di guardare lontano.
Il virus è certo tremendo di suo, pur se incomparabilmente meno tragico delle epidemie premoderne e moderne (una per tutte, la spagnola, che è già stata ricordata sulle pagine di Doppiozero da Marco Belpoliti), ma funziona anche come meccanismo scatenante di una condizione di crisi strutturale soggiacente, che può reiniziare per un problema finanziario che parte da crediti inesigibili come i mutui subprime, oppure da un’infezione a raggio mondiale. Niente di nuovo, in realtà, nell’economia-mondo capitalistica. Nel 1637 in Olanda un bulbo di tulipano poteva essere venduto al prezzo del salario di un anno e mezzo di un muratore. Quando il prezzo crollò venne giù l’economia internazionale. I Lehman Brothers furono il fattore scatenante del 2008.
Il virus è un reagente “sociodelico”, se mi passate il neologismo: manifesta la struttura profonda della società. Ma noi siamo miopi, molto miopi, e accecati da una vecchia ideologia: la naturalizzazione della storia sociale, come hanno cercato di spiegarci – voci nel deserto – Marx ed Engels. Sembra che tutto sia dovuto al virus, ma gli effetti del virus sono infinitamente più legati alla storia sociale che non alla potenza del male naturale. Non si può fare qui che un accenno al fatto che rispetto alle nostre capacità economiche, sociali, tecniche e scientifiche, il pericolo di una malattia infettiva potrebbe essere molto, ma molto circoscritto e, comunque, superato in modo molto più efficace di quanto è accaduto e accadrà. L’Organizzazione mondiale della sanità prescrive il controllo delle capacità di far fronte alle epidemie ogni tre anni, ma in Italia ne sono passati nove senza simulazioni (negli Stati Uniti ancora di più). Dunque il problema non sta nei virus che sempre ci saranno, come i terremoti o le disgrazie naturali, ma nell’allocazione delle risorse, nelle priorità tecnologiche e scientifiche, nella preparazione e negli accantonamenti per le emergenze. Un esempio: si parla di guerra, ma fosse vero che siamo in guerra contro il virus! In realtà siamo sempre presi da guerre immaginarie che servono il complesso militar-industriale. Non si contano le esercitazioni fatte negli ultimi dieci anni dagli eserciti e dalle flotte di tutto il mondo. E per rimanere al Nord Italia: i vescovi piemontesi hanno giustamente protestato perché quasi tutto è fermo, ma non le fabbriche legate alla filiera dell’F35!
Dunque: socialmente ed economicamente sarà un altro bagno di sangue per i poveri (una sottoclasse immensa) del mondo, per i proletari e per altre fette di ceto medio che crolleranno in una proletarizzazione sempre più sregolata e senza rete. Culturalmente crescerà l’affidamento di una parte della popolazione a soluzioni improvvisate, sia politiche che di concezioni del mondo (già ne siamo pieni: uomini ridicoli travestiti da omini forti, favolette pseudoreligiose, deificazioni di improbabili nature benigne contro rilanci di fantascientifiche sorti magnifiche e progressive garantite dalle tecniche dell’avvenire).
Contro questa valanga distruttiva però, spero e credo che un “resto” (nel senso del “resto di Israele” di cui parlano i profeti biblici) di pensiero attivo e combattivo, di cultura finalmente legata alla vita concreta e misurata sul modo di vivere, avrà occasioni ed energie, risuscitate dal dramma collettivo, per risalire, per ricominciare a opporsi, per ritornare a inventare una politica (o meglio, una metapolitica) in grado, almeno prospetticamente, di misurarsi con le infinite possibilità di “conversione” del nostro modo di produrre, di consumare, di comunicare e di abitare insieme la terra, senza distruggere il ramo che ci dà da vivere.
Intanto vedo, tra gli analizzanti e in me stesso, la necessità di tenersi saldi e svegli di fronte agli incubi ricorrenti delle fantasmagorie dell’impotenza e dell’onnipotenza. Nel trauma collettivo, come per ogni altro danneggiamento ma anche come per ogni novità impensata, quando non si vedono soluzioni, si ritorna nello scenario angoscioso. Angoscioso perché senza soluzione: non si può scappare, non si può contrattaccare (applicando uno sguardo etologico alle reazioni psichiche collettive e individuali). Ritornare al nocciolo della ferita non è, secondo me, una riemersione del passato che non passa, ma una risonanza per qualcosa che si ripresenta, e si ripresenta perché, inevitabilmente, ciò che rimane irrisolto preme perché si trovi una soluzione. Come se si fosse chiusi e non si trovasse più la chiave per uscire… certamente il problema ci perseguiterebbe ossessivamente. Per capirci qualcosa, come accade sempre in ogni problema conoscitivo dell’adattamento (qui è da Piaget che mi faccio aiutare) cerchiamo di assimilare il fenomeno incompreso a qualcosa di già noto (assimilazione). Solo se non funziona proveremo a passare ad altro, a un tentativo nuovo (accomodamento). Così riemergono per molti traumi passati, altri addirittura vengono riscoperti dopo decenni di oblio. Possiamo cancellarli negandoli, svalutandoli, fuggendo in onnipotenze fantasmatiche come se tutto fosse già superato. O soccombere all’angoscia e precipitare nel panico. Oppure vederne il lato comune con il passato e l’aspetto inaudito da affrontare esplorando nuove direzioni.
Una analizzante mi ha raccontato, tempo fa, che uscendo da un piccolo ospedale aveva notato sul frontone di una chiesetta questa scritta: “vivere è continuare a resuscitare”. Appunto. Per chi abbia l’orticaria per le chiese, sentiamo Neruda: “nascere non basta, è per rinascere che siamo nati”. Se c’è un tema ricorrente in questi mesi è proprio questo, volto in mille tradizioni e in mille nuove versioni: morte e rinascita.
La psiche collettiva e individuale sente l’urgenza del passaggio, ma le sirene del mondo che c’è già, l’ideologia e l’affabulazione dello sviluppo progressivo dello stato di cose presente che si vuole perpetuare, soffocano sul nascere questa disponibilità a “immaginare altrimenti” non solo se stessi ma il contesto che, in realtà, plasma la presunta autonomia del “caro io”.

2. Due questioni sono emerse con evidenza da questa crisi sanitaria: la globalizzazione economica e la comunicazione planetaria; a tuo parere, anche se difficile fare previsioni, come cambieranno le cose?

Ci saranno aggiustamenti e passi indietro, ma la globalizzazione come tendenza è irreversibile. Cambieranno, come peraltro sempre negli ultimi cinquecento anni, forme e gerarchie di potere. L’economia mondo, da Braudel a Wallerstein (ma con molte idee già anticipate nel Manifesto del Partito Comunista di Engels e Marx del 1848 e poi in Il capitale), si sviluppa dal XVI secolo in poi. Al suo centro stanno le zone capitalisticamente più avanzate e un sistema di relazioni statali nel quale si susseguono l’egemonia olandese, britannica e statunitense. Ma le sue radici sono ancora più profonde, come nella rielaborazione teorica di Giovanni Arrighi in Il lungo ventesimo secolo, scritto nel 1994 (Il saggiatore, 1996). Dunque non si tratterà affatto della fine della globalizzazione, ma dell’aggravarsi della crisi dell’egemonia statunitense e della prosecuzione accentuata della fase di caos delle relazioni internazionali nel sistema delle imprese, delle banche e degli stati, da tempo aperta.
Per avere un piccolissimo saggio della ricchezza di sguardo dei testi di Arrighi (purtroppo morto nel 2009) citerò solo un piccolo brano da Caos e governo del mondo (scritto insieme a B. Silver, 1999, Bruno Mondadori, 2003). Le quattro controversie teoriche delle quali parlava sono le quattro contraddizioni fondamentali del nostro mondo:
“Quattro controversie tra loro collegate inquadrano la nostra indagine. La prima riguarda i cambiamenti negli equilibri di potere tra gli stati, e in particolare se è probabile o no che emerga un nuovo stato egemonico. La seconda riguarda gli squilibri di potere tra stati e imprese, e in particolare se la ‘globalizzazione’ abbia irrimediabilmente minato alle fondamenta il potere degli stati. La terza riguarda la forza dei gruppi subordinati e in particolare se ci troviamo in piena “caduta libera” nelle condizioni di lavoro e di vita. La quarta si riferisce ai cambiamenti nei rapporti di potere tra civiltà occidentali e non occidentali, e in particolare se ci stiamo avvicinando alla fine di cinque secoli di predominio occidentale nel sistema mondiale moderno”.
Così commentavo in un articolo apparso sulla Rivista di Psicologia Analitica (“Psiche bene comune. Economia e psicologia del profondo”, n. 46, 2018):
“Secondo Arrighi e Silver la crescita finanziaria globale è segno “che ci troviamo nel bel mezzo di una crisi egemonica”, per niente risolta dalla sconfitta dell’URSS, dalla lunga espansione interna e dal boom della Borsa di New York (che poi crollò nel 2007). Già alla fine degli anni 90 si diceva “l’America è tornata”, oggi lo slogan è “make America great again”, ma proprio il comportamento dell’amministrazione Trump nei confronti del commercio internazionale e dei suoi alleati europei mostra che l’egemonia USA (la capacità di indicare un modello di crescita in grado di soddisfare molteplici richieste di molte altre unità del sistema) sta rovinosamente disintegrandosi e che la “tirannia delle piccole decisioni”, a vantaggio di qualcuno contro l’interesse sistemico generale, sta prevalendo. Intanto, benché niente affatto completato, si delinea in modo sempre più marcato l’emergere dell’Asia orientale: dopo il Giappone, Hong-Kong, Singapore e Taiwan, anche la Repubblica Popolare Cinese. Siamo nel caos, senza una direzione nuova e minacciati dalla cecità della vecchia potenza egemone. Che il nuovo si sviluppi catastroficamente, o attraverso una transizione controllata, non lo sappiamo.
Quanto al secondo conflitto, quello tra stati e imprese, “la proliferazione – in numero e varietà – di imprese e comunità d’affari internazionali è una caratteristica nuova e probabilmente irreversibile della presente crisi egemonica. Essa è stata un fattore importante nella disintegrazione dell’ordine egemonico statunitense e si può prevedere che continui a incidere profondamente sul mutamento sistemico in corso, attraverso una generale, benché per nulla universale, perdita di potere degli stati”.
Questo conflitto e questi sviluppi – ultraconfermati nei venti anni seguiti al 1999 – comportano un disorientamento su scala mondiale di intensità ineguagliata, perché sempre più fuori della portata della sensibilità e dei quadri concettuali delle singole unità del sistema: la moltiplicazione, in numero e grandezza, delle forze economiche organizzate in imprese transnazionali rende ulteriormente imprevedibile il destino lavorativo, e quindi reddituale, della stragrande maggioranza della popolazione mondiale e, con ciò, delle prossime generazioni.
La terza controversia riguarda il conflitto tra gruppi sociali subordinati e dominanti, comprese le burocrazie politiche che dirigono gli stati. Arrighi e Silver concordano su questo punto con Immanuel Wallerstein circa l’incapacità del capitalismo attuale di conciliare le domande combinate delle classi lavoratrici del terzo mondo (avere relativamente poco a persona, ma per molte persone) e del mondo occidentale (per relativamente poche persone, ma molto a persona). La loro tesi è che “l’espansione finanziaria e la ristrutturazione dell’economia politica globale che ne è alla base sono indubbiamente riuscite a disorganizzare le forze sociali che erano portatrici di queste richieste nelle sollevazioni della fine degli anni sessanta e degli anni settanta. Ma il processo sta creando nuove forze sociali che l’ordine egemonico in declino avrà ancora maggiori difficoltà a conciliare”.
La quarta contraddizione, quella tra Occidente e Oriente per semplificare, dipende ovviamente da quello che cambierà negli altri scenari. Ma la tendenza a vedere la consumazione della egemonia occidentale di cinque secoli mi pare si rafforzi: il provincialismo senza prospettive degli USA che, come tutti i paesi in crisi, sa fare la voce grossa con il Venezuela, o sostenere la presidentessa boliviana con qualche vecchio arnese della CIA, mentre, dopo aver condotto catastroficamente le sue campagne in Medio Oriente, mina anche le alleanze di sempre con l’Europa, puzza di decomposizione in corso. Per non parlare degli altri occidentali: il glorioso United Kingdom si sfrangia nella farsa dell’isolazionismo e rischia di vedere andarsene pure la Scozia, la Germania ha perso due guerre mondiali nel vano tentativo di diventare egemone in Europa, adesso che se la potrebbe comprare a prezzi di svendita, è paralizzata da conti da avara ossessività. Per l’Europa, bel sogno tramontante, è purtroppo il sintomo della finale incapacità di costituirsi, quindi di contare qualcosa. Il declino accelererà dopo la crisi del corona virus.
La mancanza di un’alternativa, o almeno di una compensazione dal basso, non riduce il caos, anzi lo aumenta perché parcellizza lo scontento e la protesta, deprimendo ogni speranza non fantasmatica di cambiamento.
La comunicazione planetaria accelererà invece il suo passo: il Corona ha fatto vedere, ma non ce ne era certo bisogno, che possiamo chiuderci in casa, sbarrare per un po’ le frontiere per gli umani, ma proprio questo aumenta vertiginosamente il grado di connessione di tutti con tutti e la necessità di avere notizie il più rapidamente possibile. E adesso siamo qui a sperare che, da qualche parte del mondo, si trovi un vaccino che cominci a correre più veloce del virus, dappertutto e senza frontiere. Comunque, le reti delle interconnessioni (finanziarie, produttive, distributive, cognitive) non sono affatto recise, sarebbe peraltro davvero un’Apocalisse catastrofica.

3. Negli ultimi decenni si è parlato ampiamento della crisi dei temi umanistici, dell’umanesimo tradizionale, a vantaggio della tecnologia e della scienza come motori dello sviluppo e del cambiamento. A tuo parere sarà ancora così o l’elemento umanistico, coi suoi valori, torna di attualità? E di quale umanesimo si tratterà?

Non da oggi, anzi da sempre, mi produce tristezza intellettuale l’opporre la scienza e la tecnica all’umanesimo. L’umano senza la tecnica, come si sa, non sarebbe neppure nato come animale culturale che riproduce e innova le sue stesse condizioni di vita naturali. E ogni tentativo di correggere, o addirittura rivoluzionare, assetti tecnico-scientifici inadeguati, o dannosi, passa ovviamente per tecnica e scienza più intelligenti.
Anche qui, dopo quaranta anni di reazione al marxismo, non si riesce neppure a mettere in questione l’assunto che esista il – peraltro assai imprecisamente descritto – dominio della tecnica. Perfetta incarnazione del ragionamento oscurato dal feticismo del capitale: non sono i rapporti socialmente e storicamente determinati, tra gli umani e le classi che usano la tecnica, a plasmare le condizioni di vita, ma sarebbe la tecnica guidata dalla scienza. Sì? Una straordinaria, per la sua efficacia, ideologia, per convincere gli umani a guardare da un’altra parte, a sentirsi in mano a un destino del pensiero o alla presunta autonomia dei prodotti del loro cervello e delle loro mani…
Quale umanesimo allora? L’unico umanesimo che mi interessa è quello che sa scorgere l’umano, storicamente e socialmente determinato, alla radice della tecnica e della scienza e voglia indirizzare le nostre capacità a liberarci delle servitù volontarie, nelle quali ci imprigioniamo da soli.
Possiamo uscire dal sonno della ragione riconoscendo il fatto – e quindi il valore – della nostra universale interintradipendenza. Dipendenza dal cosmo e dal pianeta comune, dipendenza dagli altri (oggi da tutti gli altri), dipendenza dalla nostra costituzione complessa, fatta di sensazioni, emozioni, percezioni, fantasie, immaginazioni, riflessioni (un insieme senza autocrazia possibile, se non finta, da parte del nostro caro io – il continente che la psicoanalisi ha cominciato a esplorare con l’impreciso termine di “inconscio”). Questo è il nuovo e antico umanesimo, che ha solo bisogno di essere aggiornato. Era quello della origine della filosofia greca e romana, la filosofia come modo di vivere – Pierre Hadot è stato l’anello di congiunzione tra le generazioni per ritornare in contatto con questa sorgente vitale – che è esercizio spirituale teso a riconoscere la necessità, se si vuole avvicinare la verità di se stessi e del mondo, di “trascendere” il nostro illusorio egocentrismo per vedere come stanno le cose, per vederci come un “aggregato relazionale” nel mondo della natura e degli altri.
Ecco un antico esercizio spirituale per l’oggi: guardare il mondo dall’alto e se stessi in basso in mezzo agli altri. Non vedremmo frontiere, vedremmo la terra insieme tutta, e capiremmo che è a questo tutto che bisogna pensare, che è questo di cui dobbiamo prenderci cura se vogliamo vivere, è questo tutto ciò che dobbiamo rivoluzionare, se non vogliamo condannarci alla vergogna cosmico-storica di una civiltà capace, potenzialmente, di far vivere decentemente le generazioni presenti e future degli umani e invece votata, incoscientemente, a distruggere e torturare noi e gran parte della natura. Per qualche “tesoro” che, come quello del ricco epulone, sa già di ruggine e di morte.

4. Uno dei temi discussi negli ultimi anni era quello della crisi delle élites tradizionali, quelle politiche ed economiche. A tuo parere escono indebolite o rafforzate? E il sistema capitalistico, nelle sue differenti forme, dagli Stati Uniti alla Cina, come esce da questa crisi sanitaria? Rafforzato o indebolito?

Ho già detto, siamo nel caos di una transizione egemonica. Questa crisi non farà che aggravarla, senza ancora risolverla. Ma vedremo l’ulteriore indebolirsi della potenza egemonica precedente, gli USA, e la crescita della Cina e dell’Asia Sud-orientale (Corea del Sud, Singapore, Taiwan, Giappone). Tuttavia non mi convince la semplificazione: Cina uguale a capitalismo di stato. Troppo generico, troppo ideologicamente economicistico. Ecco qui: come se la storia sociale, la cultura, la regolazione economico-politica (piaccia o no), non facessero della Cina contemporanea qualcosa di inedito. Forse un ircocervo tra il capitalismo, il capitalismo di stato, il socialismo di stato e il socialismo di mercato: in ogni caso qualcosa da studiare attentamente come fenomeno storicamente nuovo. Non posso che rimandare ancora una volta al mio amico Arrighi, a quel libro fondamentale sul tema che si chiama Adam Smith a Pechino. Genealogie del ventunesimo secolo (2007, tradotto in italiano nel 2008). Molte tesi precotte sulla Cina, dopo la lettura, sarebbero più difficili da digerire.
Comunque il punto non è il “sistema capitalistico”. Come diceva Marx nel Manifesto: “il capitalismo dipende (riposa su, si basa…) esclusivamente (attenti all’avverbio!) sulla concorrenza degli operai tra loro”. E siccome non vedo operativa nessuna cooperazione internazionale dei subalterni, deduco che il capitalismo è, e rimane, fortissimo. Benché sia una “tigre di carta”: la sua consistenza è quella di una fata morgana, che si dissolverebbe in ricordo se noi fossimo consapevoli della nostra interdipendenza e responsabili nell’organizzare la nostra cooperazione. Ma siamo mille miglia lontani dal solo intenderne la portata e, alla prova della prassi, il pensiero più significativo e complesso, che rimane per me quello di Marx, è rimasto “una perfetta diagnosi, una mediocre prognosi, una terapia inconsistente” (questo è un sottotitolo di un capitolo del mio Sconfitta e utopia, Mimesis, 2018) Dunque come diceva Gino Bartali un po’ corretto: “gli è (quasi) tutto da rifare”.
Ecco, quindi che fare? Sembra che non si possa fare niente. Quasi niente, sì, se ci consegniamo alla prigione della politica politicante, nella quale i rapporti di forza sono drammaticamente sbilanciati a favore del capitale internazionale, mentre proletari e movimenti alternativi sono sbriciolati, lontanissimi anche solo da un lumicino di consapevolezza del loro comune destino. Bisogna avere il coraggio del tempo lungo, dei tempi nei quali, sì, saremo tutti morti come diceva ironicamente Keynes: il tempo dei profeti e degli utopisti. Le civiltà cambiano nei secoli e mentre il capitale diventerà sempre più il vero limite a sé stesso, come pensava Marx, i dissidenti devono cominciare – anzi hanno già cominciato da almeno un secolo e mezzo – a immaginare e praticare frammenti, intuizioni, esperimenti di una antropologia del futuro.
Le esperienze sono milioni, piccolissime o di qualche consistenza. Non importa la loro grandezza, alcune sono infinitesimi subatomici, come la filosofia come stile di vita e l’analisi biografica a orientamento filosofico che cerchiamo di praticare a Philo. O come anche le pagine che state leggendo: Doppiozero non è cultura gratuita, sforzo di volontari, diversa ma paragonabile, fatte diverse le condizioni di partenza, a quei meravigliosi maestri socialisti di inizio del Novecento che spendevano le loro energie perché i proletari analfabeti imparassero a leggere? Oggi l’analfabetismo è quello dei concetti e del sentire, ma è un ostacolo di enorme influenza.
E come immagino l’ispirazione di un utopismo per il nostro presente futuro?
Molte idee si possono riprendere dai tesori delle antiche tradizioni sapienziali, rinnovandole.
Per esempio, per la politica globale, la prima parola guida potrebbe essere presa dal Padre nostro, la preghiera di Gesù che sottintende il Giubileo biblico: rimettere il debito internazionale (l’ha chiesto, in forma un po’ attenuata, anche Papa Francesco nel discorso di Pasqua).
Il secondo punto viene dalla teoria dei bisogni di Epicuro: mettere al primo posto e perseguire la soddisfazione dei “beni naturali e necessari”. Sarebbe importante capire oggi quali sono, ma anche il virus ce l’ha ripetuto: la salute, il riparo, il cibo, l’istruzione. La vecchia sinistra incominciava sempre così programmi e comizi: lavoro, case, ospedali, scuole. Questi sono i bisogni naturali e necessari oggi. Perché no? Si dirà che il lavoro oggi non c’è più, ce ne è sempre meno. Vero. Ottima situazione per inventare il lavoro che ci stiamo già inventando, volontario e liberamente associato. Va solo riconosciuto come contributo alla comunità e quindi pagato e tutelato quando non sia in grado di sopravvivere con le sole sue forze sul mercato.
Il terzo punto ha a che fare con i rapporti tra associazioni, comunità, società, stati: perseguire un patto di equilibrio e di pace. Il che significa cose ovvie: il declino graduale dell’industria degli armamenti e la sua riconversione, l’appoggio di ogni sforzo di mediazione nei conflitti, la delegittimazione progressiva della gigantesca rapina di risorse naturali e umane ancora in atto nei confronti della maggioranza dei popoli del pianeta, un balzo gigantesco verso un uso e un’abitazione della terra che la curi come un giardino, invece di abusarne facendone un immondezzaio pericoloso per noi e per l’ambiente che ci fa vivere.
Un quarto principio orientativo sarebbe quello di riformare il possibile, radicalmente, e intanto di rivoluzionare la nostra cultura. Per primo il modo di vivere – il nostro, il mio – il pensare e sentire dei “rivoluzionari”, degli utopisti delle associazioni di cultura solidale e libertaria. Hadot cita spesso Georges Friedmann: “Fare il proprio volo ogni giorno! Almeno un momento che può essere breve, purché sia intenso. Ogni giorno un ‘esercizio spirituale’, da solo o in compagnia di una persona che vuole parimenti migliorare. Esercizi spirituali. Uscire dalla durata. Sforzarsi di spogliarsi delle proprie passioni, delle vanità, del desiderio di rumore intorno al proprio nome (che di tanto in tanto prude come un male cronico). Fuggire la maldicenza. Deporre la pietà e l’odio. Amare tutti gli uomini liberi. Eternarsi superandosi. Questo sforzo su di sé è necessario, questa ambizione giusta. Numerosi sono quelli che si immergono interamente nella politica militante, nella preparazione della rivoluzione sociale. Rari, rarissimi quelli che, per preparare la rivoluzione, se ne vogliono rendere degni”.
Adesso i rivoluzionari di una generazione fa, la mia, sono diventati come i panda, o stanno nelle riserve indiane dello spirito metapolitico – io mi sono rifugiato lì da 45 anni – ma queste parole valgono per il più grande errore di allora e per le speranze di domani: forgiarsi nelle pratiche delle piccole utopie di oggi, avendo come via l’esercizio spirituale che ci avvicini ad essere un cenno di quella stella polare di utopia che vorremmo diventare capaci di seguire.
Oggi ho visto un piccolo gesto di fratellanza, usuale in questi giorni di pandemia: un pacco con su scritto “chi non ha prenda, chi ha lasci”. Microscopica eco di un vecchio motto: a ciascuno secondo i suoi bisogni, da ciascuno secondo le sue capacità – un detto che serpeggiò dai santsimoniani ai marxisti. In realtà il racconto prototipico del principio comunista sta nel capitolo 16 del libro dell’Esodo, nelle regole per raccogliere la manna nel deserto.
Il lungo cammino per uscire dal deserto è molto distante dal presente e, si dirà, del tutto astratto. Vero, ma non si arriva mai da nessuna parte senza osare i primi passi, la prima e poi la seconda tappa … e poi non sappiamo dove si arriverà. Ma certo si può provare a immaginare e sperimentare un altro mondo. Il capitalismo è storico e quindi morirà, prima o poi. Provare la via per qualcosa di meglio non può che rendere degna la vita presente.

5. La diseguaglianza sociale che è emersa anche in questo frangente critico è destinata a perpetuarsi una volta terminata la crisi sanitaria o invece vedremo emergere dei cambiamenti sul piano economico e sulla distribuzione della ricchezza?

La politica si basa sul rapporto di forze che competono per esercitare il potere o per condizionarlo. La diseguaglianza è diminuita, dagli anni cinquanta agli anni ottanta, solo a fronte della competizione dei due blocchi nel sistema delle relazioni interstatali e della presenza organizzata, politica e/o sindacale, di movimenti operai basati sullo stato-nazione. Il capitale ha stravinto perché l’internazionalizzazione ha dissolto progressivamente le basi strutturali delle forze operaie nazionali. Non ci sono le condizioni per un cambio di scena. Certo ci potrebbero essere aggiustamenti anticrisi, perché l’accentuarsi delle diseguaglianze è, alla lunga, un grave impedimento per l’accumulazione capitalistica che, presumibilmente, ripartirà da un nuovo grande slancio, dopo la sbornia della finanziarizzazione, dai settori dell’industria del digitale e della robotizzazione, dal chimico farmaceutico e dal “capitalismo verde”.
Potrebbero però nascere nuove consapevolezze e embrioni di internazionalizzazione – come era già in nuce nel “popolo di Seattle” del 2000 – di un avvicinamento dei movimenti dei subalterni, degli ecologisti, delle donne e delle cosiddette minoranze di genere, uniti da obbiettivi e non da presupposti ideologici, così da meticciare la politica di sinistra, più o meno tradizionale, con gli sperimentatori delle utopie comunitarie e con i gruppi di ispirazione religiosa capaci di reale ecumenismo.
Sul piano politico sociale globale forse, ma dovrei conoscere molto meglio la situazione, si potrebbe aspettare un risveglio anti-Bolsonaro in Brasile, dove il Partito dei lavoratori potrebbe ritrovare la guida di Lula e aver imparato qualcosa dalle conquiste passate, ma soprattutto dagli errori compiuti nell’esercizio del governo. E anche la Bolivia potrebbe diventare un luogo di scontro dal risultato non scontato, con il ritorno del Mas e di Morales al governo. Ma naturalmente molto dipenderà da quanto accadrà negli USA e, ancor più, in Cina (dove potrebbero essere possibili degli aggiustamenti in senso più egualitario, dopo la creazione di una forbice notevolissima negli ultimi decenni a favore delle élites), e in India (dove il conflitto sociale e le disastrose condizioni delle masse vengono dirottate verso la persecuzione delle minoranze mussulmane da parte del fondamentalismo induista). Per l’Italia una certa diminuzione delle diseguaglianze può essere una linea di resistenza che unisca le forze meno miopi di tutti i settori sociali, di tutti quelli che vogliano evitare una discesa senza freni in un’epoca di decadenza economica. E questa sarebbe anche l’unica speranza degli europei avveduti, non accecati dal puro tornaconto immediato o dalla demagogia a qualsiasi prezzo.


Claudio Piersanti, scrittore

1. Quali saranno a tuo parere i principali cambiamenti che la pandemia del coronavirus ha prodotto? Provando a differenziare tra aspetti sociali, economici e culturali.

Non credo che la pandemia produrrà cambiamenti sostanziali. Chi dice che ci renderà migliori ha voglia di scherzare. Alla fine della seconda guerra mondiale in Italia non si è più parlato di guerra per anni. Mio padre aveva combattuto in diversi paesi fino a pochi anni prima della mia nascita e mi ha parlato della guerra, in minuscoli frammenti, soltanto decenni dopo. Del resto senza rimozione gli uomini non potrebbero vivere. Credo che gli Stati e le Regioni a forte (e a volte neppure meritata o desiderata) vocazione parassitaria accentueranno questa loro caratteristica e annulleranno le già scarse attività imprenditoriali, mentre quelli a forte vocazione produttiva (intendo con questa parola qualcosa che va al di là del semplice PIL) godranno di una certa accelerazione reattiva. La crisi aumenterà le distanze tra questi mondi, rendendole definitivamente insuperabili. È probabile che il quadro politico vedrà un aumento del nazional-populismo con forti tendenze autoritarie, in entrambi i poli.

2. Due questioni sono emerse con evidenza da questa crisi sanitaria: la globalizzazione economica e la comunicazione planetaria; a tuo parere, anche se difficile fare previsioni, come cambieranno le cose?

Trovo abusato il paragone tra guerre e pandemie, lo accetto solo come metafora della Grande Crisi. Qualcuno ricorderà il vecchio slogan che aleggiava attorno alle ultime guerre mondiali: trasformare le guerre imperialiste in guerre rivoluzionarie. Ora ci sono varianti più pacate di questa illusione ma il risultato sarà identico. Le ideologie rivoluzionarie si sono spente, il pensiero liberale è del tutto assente. Silenziosamente è entrato in crisi l’intero sistema democratico occidentale, che ha dimostrato di non avere più uno spirito vincente, anzi di non averne nessuno. L’attuale capitalismo finanziario non ha pensieri, non ha menti, in fondo non ha neppure idee, e così è destinato a perpetuarsi.

3. Negli ultimi decenni si è parlato ampiamento della crisi dei temi umanistici, dell’umanesimo tradizionale, a vantaggio della tecnologia e della scienza come motori dello sviluppo e del cambiamento. A tuo parere sarà ancora così o l’elemento umanistico, coi suoi valori, torna di attualità? E di quale umanesimo si tratterà?

Per cercare di rispondere a questa domanda impossibile devo ricorrere a un esempio. Negli anni sessanta del secolo scorso, tra le varie avanguardie, si è sviluppata in modo speciale la riflessione su quale musica potesse essere la musica del nostro tempo. Si raccoglievano suoni e voci dalla strada, li si elaboravano nei primi giocattoleschi computer, si alteravano le strutture tradizionali del pentagramma. L’intento era quello di avvicinare il grande pubblico (concerti di computer music nelle fabbriche) il risultato fu la creazione di un microcosmo, peraltro spesso interessante ma del tutto inaccessibile al pubblico, che ha continuato a preferire le solite melodie e le solite note. Della computer music è rimasto l’impianto tecnologico, supersviluppato, ma il suono che si produce è sempre quello dell’organetto di Barberia. La contemporaneità è un sapere settoriale e parcellizzato. I filosofi e i poeti (categorie entrambe ammirabili) non contano niente: quasi nessuno è in grado di leggerli. Come dicevo delle nazioni e delle grandi aree geografiche credo (temo) che le distanze (tutte le distanze) aumenteranno e non riesco davvero a immaginare un nuovo Rinascimento. Il cosiddetto Nuovo Rinascimento annunciato da tante teste vuote con vaghe reminiscenze scolastiche è soltanto un’espressione linguistica insignificante, da comiziante politico per intenderci. I nostri buffi rappresentanti politici meritano fino in fondo la disistima e il peggior qualunquismo: non so se siamo alla seconda o alla terza Repubblica ma assistere ai dibattiti delle due camere è desolante (forse per questo la sovietica televisione di Stato non li trasmette): le loro migliori energie le dedicano alla divisione delle poltrone nelle partecipazioni statali e alla loro inutile sopravvivenza. Il nostro sistema rappresentativo è pura apparenza, dietro c’è il nulla. Latitano persino poteri forti e occulti, non c’è neppure un pensiero debole tra questi che da sempre si chiamano peones. Neanche i comici che li imitano riescono a strapparci un sorriso. Il politico contemporaneo è una sorta di imbonitore televisivo che vende ciarpame agli incauti acquirenti. Se sei un mediocre profondamente ignorante, un chiacchierone, o un semplice furbacchione di provincia, il tuo posto è il parlamento. Gli unici segnali di vita intellettuale vengono dal mondo cattolico e religioso, o meglio da alcuni suoi settori, ormai (e dovrei dire paradossalmente) le ultime sopravvivenze dell’illuminismo.

4. Uno dei temi discussi negli ultimi anni era quello della crisi delle élites tradizionali, quelle politiche ed economiche. A tuo parere escono indebolite o rafforzate? E il sistema capitalistico, nelle sue differenti forme, dagli Stati Uniti alla Cina, come esce da questa crisi sanitaria? Rafforzato o indebolito?

Ma quali sarebbero queste élites? In realtà non c’è una classe dirigente alla guida del mondo occidentale. La novità è proprio questa. Per la prima volta nella storia il mondo occidentale, e forse il mondo intero, è completamente acefalo. Mio figlio lavora in giro per il mondo per una multinazionale i cui dipendenti (dichiarati) sono un numero che sovrasta quello degli abitanti di una nostra città media. Ci sono vari direttori, di area, di zona, ma non c’è un vero leader, c’è un CdA, che si riunisce a volte in Giappone a volte in India a volte in America. Se dicessi il nome della società non direbbe niente a nessuno. Ha origine in un paese lontano, ma le azioni sono disseminate ovunque. Il capitalismo tende sempre di più ad assomigliare a un fondo di investimenti, anonimo per definizione. È la nostra cattiva coscienza. Il denaro va dove si produce altro denaro. Ha le stesse motivazioni di un virus, che in fondo è soltanto una cellula. L’immenso settore agro-alimentare, del tutto fuori controllo, è molto più nocivo di un virus, e sta letteralmente divorando il pianeta nell’indifferenza generale.

5. La diseguaglianza sociale che è emersa anche in questo frangente critico è destinata a perpetuarsi una volta terminata la crisi sanitaria o invece vedremo emergere dei cambiamenti sul piano economico e sulla distribuzione della ricchezza?

Circola una terribile fotografia di un parcheggio di New York, dove sono stati disegnati dei rettangoli tombali a terra, che rappresentano i posti letto degli homeless. La stessa fotografia che potremmo fare noi delle nostre sedicenti case di riposo per anziani, che sono state abbandonate al loro destino. O alle decine di medici e infermieri infettati per l’assenza (colpevole, omicida) delle più elementari misure di difesa. Prima si chiudono decine di ospedali poi si chiamano eroi gli operatori che restano e si applaudono dai balconi. Ora è il momento del furore opinionista, degli sciocchi scatenati. Anche tra gli scienziati ci sono parecchi sciocchi, che non vedono un millimetro più in là delle loro supposte competenze. Sento i famosi esperti fare certi discorsi sulle mascherine che il mio vecchio professore di logica li prenderebbe a calci nel sedere. (Le mascherine chirurgiche, quelle che non difendono dall’infezione ma che non la diffondono, sono per noi, per il pubblico: quelle filtranti vanno al personale sanitario. Ma non ci sono né le une né le altre. Quindi: è obbligatorio indossare le mascherine.) L’Italia sta dando una pessima prova in tutte le sue strutture, com’era facilmente prevedibile. Dovrebbe essere davanti agli occhi di tutti questo baraccone burocratico e parassitario, completamente acefalo, che ha succhiato energie al Paese per decenni e che certo non mollerà le sue posizioni. Ha messo in ginocchio le scuole, già straccione e inutili, ha abbandonato le obsolete università a figure di secondo piano, chiusi gli ospedali e ridotto drasticamente il loro finanziamento. Per non parlare delle condizioni in cui versa tutta la ricerca, scientifica e umanistica. Italsider e Alitalia possono essere i simboli dello sperpero di energie e di denaro pubblico di questa gigantesca struttura parassitaria. I giornalisti chiamano tutto questo “burocrazia”, come se fosse una parte legnosa dello Stato, un aspetto particolare, mentre in realtà è la sua anima: la burocrazia è lo Stato. Che impone una delle più alte tassazioni del mondo occidentale, ben oltre il 51 per cento rilevato. Con il 5 per cento della popolazione che detiene la metà del patrimonio totale. Ecco, questa forbice si aprirà di più con la grande depressione che è iniziata. Allo stesso modo questa crisi mette a nudo ogni cosa: dalla UE che festeggia la sua morte politica e civile, al nostro sistema informativo, che si è dimostrato irrilevante e grottesco, alle ridicole Regioni, che erano state il sogno di un’intera generazione. Se Ministero della Sanità e Protezione civile fossero guidati dall’astrologo Branko avrebbero certamente maggiori capacità previsionali degli attuali dirigenti, che avranno tutti adeguate promozioni. Non voglio risparmiare neppure la categoria (se così si può definire qualcosa che non esiste) a cui più o meno appartengo, quella degli autori, i cosiddetti Scrittori. Mai letto tante stupidità, tanti ridicoli diari della quarantena, tante insignificanti opinioni. Anche il buon Richard Ford che ci descrive le sue passeggiate al mare con la moglie e i loro pranzetti… Mai letto niente di più insignificante. Degli italiani meglio tacere: voglio impormi un po’ di residuo spirito corporativo. Sì, è tutto ben visibile, davanti ai nostri occhi. Ma non dobbiamo preoccuparci: resterà tutto uguale, non cambierà niente. Gli esclusi saranno sempre di più e sempre più poveri, i ricchi saranno sempre più ricchi e sempre di meno. Fino alla prossima pandemia. I cialtroni hanno conquistato il mondo. Da migliaia di anni filosofi e pensatori si affannano per trovare un modo che consenta ai più intelligenti di guidare la cosa pubblica, e molto raramente ci sono riusciti. È sempre più vero, purtroppo, il detto di Lao Tse: chi sa non dice, chi dice non sa. In chiusura voglio rettificare la mia definizione di nazional-populismo. Se dovessi definire lo spirito dominante con più precisione lo chiamerei piuttosto: nazional-narcisismo. E non è un complimento.


Claudio Bartocci, matematico

Premetto che l’idea dell’economista americano (in realtà statunitense, credo, non messicano o canadese) non mi pare particolarmente intelligente. L’occasione da non perdere è quella della quotidianità. Solo con l’abitudine a riflettere anche quando ci laviamo i denti ogni mattina potremmo avere qualche vaga speranza di non farci cogliere impreparati ad affrontare la realtà – la ferrea concatenazione delle cause e degli effetti. Come diceva uno scrittore praghese, “la cosa più segretamente temuta accade sempre”. Ciò vale, mi pare, tanto per le emergenze sanitarie quanto per la crisi climatica in atto.

1. Quali saranno a tuo parere i principali cambiamenti che la pandemia del coronavirus ha prodotto? Provando a differenziare tra aspetti sociali, economici e culturali.

Nessuno sa quali saranno gli effetti complessivi e globali di questa pandemia. Per dire cose ovvie, a livello economico si verificherà di certo un rallentamento della produzione su scala mondiale, che innescherà una grave crisi occupazionale e una forte instabilità di quell’entità metafisica, dallo statuto ontologico incerto, che si è soliti indicare con il nome di “mercati”. A livello culturale temo che non cambierà nulla (vedi la risposta alla domanda n° 3).

2. Due questioni sono emerse con evidenza da questa crisi sanitaria: la globalizzazione economica e la comunicazione planetaria; a tuo parere, anche se difficile fare previsioni, come cambieranno le cose?

Mi pare che la “comunicazione planetaria” – cioè, il web e la rete di telefonia mobile, peraltro fortemente connessa con il web (tutte le altre modalità di comunicazione sono infatti obsolete o marginali) – sia inseparabile dalla “globalizzazione economica”, anzi ne costituisca la premessa fondamentale. È difficile fare previsioni, soprattutto sul futuro (diceva Niels Bohr), ma forse non su questo punto specifico. Finché esisteranno Google, Amazon e Facebook, che nei loro rispettivi domini commerciali operano in regime di sostanziale monopolio, non cambierà granché. Come ha scritto Matthew Arnold, “è più facile ed economico allestire un programma di voli spaziali con equipaggio che costruire un motore di ricerca moderno”. Chi fra noi ha i soldi, le conoscenze e i mezzi tecnologici per preparare una gita su Marte il mese prossimo?

3. Negli ultimi decenni si è parlato ampiamento della crisi dei temi umanistici, dell’umanesimo tradizionale, a vantaggio della tecnologia e della scienza come motori dello sviluppo e del cambiamento. A tuo parere sarà ancora così o l’elemento umanistico, coi suoi valori, torna di attualità? E di quale umanesimo si tratterà?

La domanda mi pare formulata in modo tendenzioso. Che cos’è l’“umanesimo tradizionale”? E perché mai accomunare scienza e tecnologia, quando la prima è (o dovrebbe essere) un’attività conoscitiva e la seconda invece un’attività di produzione di oggetti materiali? Sono convinto che non abbia alcun senso, né in una prospettiva storica né dal punto di vista epistemologico, operare una netta separazione tra sapere “umanistico” e sapere “scientifico”: la cultura – cioè, la capacità acquisita da Homo sapiens di affrontare e interpretare non solo la realtà di ciò che accade, ma di quel che è accaduto e, soprattutto, di quel che potrebbe accadere – è unica. La crisi sanitaria in atto ha messo impietosamente in evidenza il fatto che non pochi tra coloro che hanno (o avrebbero) l’onere di prendere decisioni nell’interesse della comunità mancano della capacità di leggere la realtà in una prospettiva critica, problematica e inventiva, vale a dire “culturale”. Non parlo della sconcertante inabilità, per esempio, a fare 2 più 2 sulla base di un modello epidemiologico relativamente semplice (da parte di quegli stessi, magari, che non si peritano di fare previsioni sul PIL del 2030), ma della scarsa attitudine a pianificare strategie che non siano già imprigionate in tetri luoghi comuni economici o politici, a immaginare scenari diversi, a scheggiare la dura pietra che la realtà ci mette in mano per farne un utensile o un’opera d’arte.

4. Uno dei temi discussi negli ultimi anni era quello della crisi delle élites tradizionali, quelle politiche ed economiche. A tuo parere escono indebolite o rafforzate? E il sistema capitalistico, nelle sue differenti forme, dagli Stati Uniti alla Cina, come esce da questa crisi sanitaria? Rafforzato o indebolito?

Quali élites? A me pare di vedere soltanto individui incerti e spauriti. E quale “sistema capitalistico”?

5. La diseguaglianza sociale che è emersa anche in questo frangente critico è destinata a perpetuarsi una volta terminata la crisi sanitaria o invece vedremo emergere dei cambiamenti sul piano economico e sulla distribuzione della ricchezza?

La disuguaglianza sociale non è stata creata certo dall’emergenza sanitaria, ma è preesistente: gli effetti drammatici che abbiamo oggi sotto gli occhi sono quelli che tutti noi avremmo potuto, e forse dovuto, facilmente immaginare. I cambiamenti sociali, unitamente a una distribuzione delle ricchezze e delle risorse meno barbarica di quella odierna, potranno avvenire, temo, soltanto su una scala temporale molto lunga. E soltanto a condizione di riflettere, tutti quanti noi, ogni mattina quando ci laviamo i denti e di guardare fuori dalla finestra la realtà del mondo che è come è, con le onde gravitazionali che viaggiano alla velocità della luce e le epidemie virali che dilagano con andamento esponenziale.

(https://www.doppiozero.com/materiali/cinque-domande-sullo-scenario-futuro-1)

4. Nus, Nicole Janigro, Gustavo Pietropolli Charmet (29 aprile 2020)


Nus (a cura di Fulvio Carmagnola, filosofo, e Matteo Bonazzi, filosofo e psicoanalista)

Questo testo riporta le discussioni dei partecipanti al Tavolo “Nus”, presso la Casa degli Artisti di Milano a partire dalle domande poste da Doppiozero.

“Nus” (come la noce, in milanese, ma foneticamente identico al sostantivo greco nous – “mente”, “intelligenza”) è un progetto continuativo sviluppato in collaborazione con “Orbis Tertius, Gruppo di ricerca sull’immaginario contemporaneo” dell’Università di Milano Bicocca, e “Clac, Clinica dell’adolescenza contemporanea”, di cui fanno parte filosofi, psicanalisti, pedagogisti e studiosi di scienze umane. Matteo Bonazzi, che coordina i lavori del gruppo, ha curato la redazione definitiva del testo che proponiamo.

1. Quali saranno a tuo parere i principali cambiamenti che la pandemia del coronavirus ha prodotto? Provando a differenziare tra aspetti sociali, economici e culturali.

D – Prima di tutto credo che le risposte “a caldo” non siano quasi mai buone risposte, indicano piuttosto un atteggiamento di reazione immediata corrispondente a questo clima frenetico e frettoloso, a questo tono generale che si potrebbe chiamare di ossessione rassicurativa. Forse la risposta più saggia sarebbe, “non lo sappiamo”, ci vuole tempo. Ma il nostro è il tempo della reazione convulsiva, in cui una risposta immediata rischia di essere prevalente espressione di un sintomo. Piuttosto che azzardare previsioni, forse è meglio riflettere su quello che si vede e si sente, che si percepisce stando attenti.
B – Vorrei notare innanzitutto che le misure che sono state adottate su scala planetaria investono i nostri corpi. Le strade mai come ora si rivelano per quello che sono: collegamenti tra corpi, non tra luoghi. Ipostasi di relazioni, che adesso sono vuote, perché le relazioni non devono esserci. Sono tracce segnate dal flusso dei corpi. E quasi tutti i luoghi sono fatti per molti corpi, luoghi di aggregazione o almeno di passaggio. I luoghi destinati a una persona sola sono destinati a coloro che rappresentano un pericolo per gli altri: sono i dispositivi di disciplina di cui parlava Foucault. Ma ora, improvvisamente tutti sembriamo ributtati dal dispositivo di controllo, quello “dolce” della sorveglianza a distanza, a ciò che sembra tornare indietro nel tempo, al dispositivo disciplinare vero e proprio.

D – … un salto indietro nel tempo!
B – Sì: è proprio il corpo di ognuno di noi quando si muove, quando esce dallo spazio di sicurezza, che si espone alla sorveglianza.

D – “Sicurezza” e “confinamento” coincidono.
B – E così, fuori casa il “corpo proprio” diventa una fonte di disagio che aumenta in prossimità di altri corpi. Per aumentare la distanza, quando si teme possa non essere sufficiente, come quando ci si incrocia su uno stesso marciapiede, si evita di guardarsi. Persino lo sguardo che di per sé è un avere a distanza, avvicina troppo. Come questa crisi del corpo si evolverà e che cicatrici ci lascerà? Riusciremo a riappropriarci di un contatto privo dell'ombra insidiosa del contagio? O diventerà normale andare in giro con le mascherine? Nelle creme per il viso, invece di “antirughe”, ci saranno altre proprietà indicate, tipo “aumenta le naturali difese della pelle”, o “tiene lontani i virus”?
F – Vorrei provare a riflettere sulle conseguenze economiche. La prima cosa da dire è che la retorica imprenditoriale ha celebrato l’Italia come il paese del Micro, dove la microeconomia ha permeato la crescita e lo sviluppo delle personalità individuali, dell’ingegno, dell’imprenditoria, della competizione, dei litigi, della segmentazione e del nanismo industriale. Quali riflessi sociali può avere questa celebrata immagine? Forse, in un modo un po’ cinico, si potrebbe azzardare che il Covid oggi ci unisce come ci uniscono le partite di calcio della Nazionale. Mi ricordo che Churchill diceva che “gli italiani vanno in guerra come fosse una partita di calcio e ad una partita di calcio come fosse in guerra”. Ma quanto durerà? 90 Covid–minuti? Voglio dire: questo senso di unità potrebbe essere instabile…

D – A meno che?
F – A meno che capiti qualcosa che non è mai accaduto nella nostra storia. Se fossi un economista o un imprenditore ragionerei sulla possibilità di adottare le teorie keynesiane con la giusta potenza di fuoco. Per esempio: lo Stato, senza vincoli esterni, si mette a difendere le imprese e i posti di lavoro con 400 Miliardi di euro. Questo fatto potrebbe radicalmente modificare l’approccio “micro” delle migliaia di PMI italiane e portarle nell’era della Macroeconomia e di un pensiero comunitario. Lo Stato dice: vuoi il denaro? Investi, fai squadra, unisciti con altri e andate a conquistare il mondo. Se non farai così i soldi non te li do. Queste le uniche regole.
L’imprenditore allora deve cercare un partner italiano, non come la storia dei bandi europei che mi devo trovare un francese e un tedesco. Un italiano. Poi deve imparare l’inglese o assumere qualcuno che lo parla bene perché qui tra i miei amici e cugini non c’è nessuno che lo sappia parlare. Poi devo digitalizzarmi perché ormai dopo il Covid tutte le pratiche si fanno online.
L’impatto potrebbe essere repentino e molto potente. Un nuovo rinascimento, forse.

D – Ma è quello che sta accadendo o non è piuttosto un semplice auspicio, uno scenario ideale?
C – La considerazione che mi sento di fare è relativa al fatto che siamo di fronte a una situazione inedita, che non si è mai verificata nel mondo. Non è tanto la presenza del virus e della sua letalità a esserlo, perché l’umanità ha sopportato molte altre epidemie con relativa decimazione della popolazione, la novità è la pandemia presente in tutto il mondo. La globalizzazione ha così assunto un aspetto inedito.
Un tempo c’erano le epidemie che colpivano questo o quel territorio, ma mai tutto il globo nella sua interezza è rimasto sotto scacco. Nel senso che tutto il mondo è entrato in quarantena. Siamo in presenza di un virus globale che ha imposto una risposta globale. Non è mai successo che circa tre miliardi di persone siano invitate/costrette a rimanere in casa in un arco di tempo ristrettissimo.
Non è mai accaduto che l’economia planetaria sia pesantemente bloccata con danni incalcolabili, come ora avviene.
In questo momento abbiamo una rappresentazione del mondo che ha dell’impensato. Si sta formando una rappresentazione inaudita e dai contorni confusi. Siamo in una sorta di nebbia che a ben vedere ha del terrorizzante, per lo meno dal punto di vista fantasmatico. Nulla è più programmabile, si dice che si viva in una bolla, in sospensione. Tutto è sospeso. Cosa è questa sospensione?
I – Credo che ci troviamo nel bel mezzo di una Tempesta perfetta, inaspettata nella sua forma epifanica: come tutti i cambiamenti annunciata da segnali che non riusciamo mai a comporre in una prefigurazione adeguata a prevenire o limitare le conseguenze peggiori.
A Lisbona si trova uno dei miei luoghi preferiti: la Fondazione Champalimaud denominata Center of Unknown, si occupa di ricerche biomediche. Si affaccia sul Tejo alla confluenza con l’Oceano, acque plurali e orizzonte lungo, con un’architettura, realizzata da Charles Correa, che unisce Oriente e Occidente e ammicca alle colonne d’Ercole. Un’architettura scabra in cui il giardino e la natura sono avvolti, domati da geometrie di silenzio e vuoto. Lì ritrovo tutte le suggestioni di questo stato d’animo, di questa transizione che non so se chiamare ancora cambiamento.
F – Riflettiamo sulla inoperosità che ci viene imposta. L’inoperosità del momento per la maggioranza delle persone significa riscoprire la dimensione casalinga e scontrarsi con i propri fantasmi, finalmente non soffocati dalla modalità da “automa” lavoratore.
Le personalità estreme o esploderanno o risolveranno. Le personalità equilibrate cercheranno di dare un senso al tempo per poi frustrarsi dal non esserci riuscite perché il tempo nella dimensione non operosa ha un ritmo diverso, difficile da seguire e tendente a trascinarti nell’oblio. Ma credo che alla fine del Covid torneranno a fare quello che facevano prima e dato che la maggioranza non avrà vissuto in prima persona l’emergenza, con i lutti, lo stress, il sudore, l’odio e l’amore dei secondi tra la vita e la morte, ma l’avrà percepita su un divano, probabilmente se la dimenticheranno in breve tempo.
Ma forse c’è un risvolto positivo possibile in questa situazione: l’inoperosità porta all’oblio ma può portare anche al pensiero. Non mi stupirei che per il singolo questi mesi possano portare un accrescimento intellettuale. Una maggiore consapevolezza e conoscenza di sé e degli altri. Una riflessione più approfondita sulle ampissime dimostrazioni di conoscenza e stupidità che vengono offerte in tv e che oggi la maggioranza inoperosa guarda.

D – Insomma tu credi a un possibile risvolto riflessivo di ciò che chiami “inoperosità”. Questo fa venire in mente la nozione di “comunità inoperosa” che è emersa in questi anni nel pensiero filosofico. A me sembra di constatare però che per ora la reazione sia in gran parte difensiva, da parte di tutti noi, e che abbia svariate forme complementari di un complessivo tentativo di rimozione (forse il termine tecnico non è corretto, ma rende l’idea) nella variabilità delle forme del “facciamo come se la cosa non ci impedisse di …”. Per esempio le Università: “continuiamo a fare lezione, esami, tesi…”. Dietro l’infinità di forme per dribblare l’occursus non si tratta forse di una sorta di evitamento dello choc, e quindi di impedire che l’occursus possa davvero dare origine a un evento di cambiamento? Direi che ha ragione Badiou, che in un suo recente intervento sembra sostenere che, stranamente, questo non è un evento! Certo: è solo un occursus, per quanto gigantesco, e l’occursus, se se ne occulta la domanda che vi può apparire, se non si è sensibili al suo vuoto, non è che la prima parte dell’evento.
Nel campo che possiamo definire come genericamente “culturale” si può forse prevedere che una delle caratteristiche del “dopo” potrebbe essere l’intensificazione di una deriva che tutto il sistema educativo e formativo sta già prendendo, in direzione della virtualizzazione o come suonava il titolo di un vecchio libro di Sherry Turkle, della “vita sullo schermo”. Dunque, un’intensificazione di una deriva già presente, appunto.
A – Dobbiamo parlare del tempo. Ho l’impressione che la situazione che stiamo attraversando abbia prodotto un primo cambiamento importante a livello temporale: in primo luogo, tocchiamo con mano che non esiste un unico tempo storico, che quello che stiamo vivendo è contemporaneamente un tempo universale e singolare. Universale, perché il virus ha toccato, tocca e toccherà l’intera umanità; singolare, perché i tempi di questo incontro traumatico sono differenti, producono dunque, nello stesso momento storico, discorsi e reazioni spesso divergenti (si pensi a come ne parlavamo noi mentre sembrava essere un problema soltanto della Cina o come ne parlavano i francesi mentre noi iniziavamo a chiudere tutto); ma soprattutto assistiamo alla contemporaneità di situazioni che, nello stesso perimetro spaziale, costringono ad esperienze diversissime: molti di noi stanno chiusi in casa, lavorano a distanza, vivono per la prima volta questa strana prossimità interna al proprio nucleo familiare o la solitudine del ritiro e, allo stesso tempo, dell’iper-connessione virtuale; altri, nello stesso tempo e nello stesso spazio, combattono quotidianamente, tra la vita e la morte, negli ospedali, nelle ambulanze, nei reparti di terapia intensiva; altri ancora, lavorano col corpo, in quei settori per i quali il rapporto con la materialità della produzione non può cessare, nelle fabbriche, nei supermercati, nei trasporti pubblici cittadini... Da questo punto di vista, è impossibile “dire noi”, qui come ovunque; e, contemporaneamente, forse mai come oggi ci sentiamo parte di un unico “noi” planetario: tutti sulla stessa barca della minaccia virale. Ma poi, ancora, viviamo un tempo che ci costringe continuamente a ripensare quello che avevamo affermato pochi giorni prima: dal Covid-19 che per alcuni inizialmente era poco più di una comune influenza, alla cosiddetta mobilitazione totale, alla dimostrazione sul piano della realtà delle teorie biopolitiche degli ultimi decenni, fino alla loro smentita di fronte alla dimensione inaudita dell’evento, alle speranze di cui il virus sembrerebbe farsi portatore, fino alla rassegnazione lucida e disincantata per cui sarà soltanto un disastro… Ci tocca pensare, e dunque scrivere, in presa diretta con un tempo che strutturalmente si sottrae a ogni tentativo di ridurlo a un pensiero, a una visione generale, a un orizzonte. SE c’è un “evento” allora questa è la temporalità dell’evento – mai come ora, si tratta di essere all’altezza di un pensiero che ne rispetti l’inafferrabilità.
I – Stiamo sperimentando modalità di lavoro e di organizzazione del lavoro, prima non così diffuse, che entrano negli spazi di intimità della nostra vita (le nostre case) coesistendo a fatica in certi casi con la fluidità dei ruoli professionali e delle responsabilità familiari. Gli spazi delle case non sempre sono pensati per ospitare più postazioni come un co-working, ci astraiamo e proiettiamo senza tempo in uno spazio digitale, il nostro, impreparato ad essere arredato e spazializzato come un ambiente tridimensionale. Più che di realtà aumentata parlerei di relazioni/comunicazioni aumentate. Sperimentiamo l’ubiquità di presenza tra una call e un webinar, mentre scriviamo in una chat e ascoltiamo una telefonata.
È un tempo senza spazio, che ci richiede uno sforzo sensoriale enorme sfiancando udito e vista anche in supplenza di tutta la sfera percettiva di cui ci serviamo in presenza. L’istante come unità di misura… l’istantaneità che brucia ogni distanza geografica. Così la comunicazione esplode di parole, segni significanti che scivolano ammiccanti per sovrastare e il flusso veloce; la memoria, almeno la mia, sembra una locomotiva a vapore o un cacciatore di farfalle.

D – Provo un forte fastidio per questo affollamento di parole, di presenze sul palcoscenico … non è, appunto, un tentativo di schivare l’evento ricoprendo l’occursus di parole?
A – Appunto: siamo invasi, nella nostra solitudine coatta, dai discorsi sul virus. Certo, una soluzione potrebbe essere quella di tacere. Ho però l’impressione che non ci sia tempo neanche per il silenzio. Dopo i primi giorni, forse le prime settimane, in cui ciascuno di noi, in fondo, si sentiva esposto a quello che nel virus dà da pensare di nuovo, anche di tragico, senz’altro, ma non senza l’intensità che è propria dell’evento, col tempo siamo precipitati in una chiacchiera mediatica: incontri, dibattiti, intellettuali che vengono convocati a interpretare quel che ci sta accadendo, offerte di letture, consigli sulla vita nel confino domestico, considerazioni di macro e micro economia, infinite discussioni medico-sanitarie… l’urgenza, che come diceva Lacan è il solo indice temporale della novità, viene progressivamente ricoperta da fiumi di parole, immagini, commenti. Anche con le migliori intenzioni, non sempre, mi pare. Come diceva a suo modo Merleau-Ponty, la questione è: come parlare sapendo che sarebbe meglio tacere?
Allora, per tornare alla domanda, mi pare che il primo importante cambiamento riguarderebbe la posizione di enunciazione. Da dove parliamo? Parliamo per trovare conferma delle nostre teorie in quel che il supposto evento COVID-19 sta producendo? Oppure, prendiamo la parola a partire dalla nostra esperienza, inevitabilmente parziale, frammentaria, colpevole e dunque in debito, strutturalmente, nei confronti di ciascuna delle altre, anch’esse parziali e colpevoli a loro volta? E da questa parzialità, però, ci rivolgiamo non agli altri, come se ancora esistesse quell’opinione illuminata con cui l’intellettuale giustifica immaginariamente la propria posizione di enunciazione, non a “noi” e neppure al nostro tempo, perché questo, più di qualsiasi altro, non è un tempo “nostro”.
Dovremmo rivolgerci, per dirlo con una figura, ai nostri figli: a quel che non sappiamo di noi, di loro, all’infanzia a venire che l’inconscio di ciascuno custodisce al proprio interno. È in loro, tramite loro e dunque grazie all’infanzia che resta in ciascuno di noi, che incontriamo la risorsa e al contempo il vincolo, la libertà e la necessità con cui vale la pena prendere la parola. Non c’è inconscio che nella trasmissione. Abdicare a questo significa smettere di pensare.
Ho l’impressione che delle tre crisi di cui avvertiamo l’urgenza, quella sanitaria, quella economico-sociale e quella culturale, quest’ultima, almeno per parte nostra, sia quella che si tratta di leggere con maggiore attenzione, perché non è detto che quel che ci sembra di perdere sia l’essenziale, quando, alle volte, quel che facilmente lasciamo cadere è invece ciò che più conta. Provo a dirlo altrimenti: se dal punto di vista sanitario, economico e sociale, apparentemente, i discorsi (non i loro contenuti) sembrano più lineari, dal punto di vista culturale (il legame, il discorso…) la questione è piuttosto aggrovigliata. Diciamo di trovarci in uno stato di eccezione, di paura, isolati e in preda a una sospensione generalizzata di quei diritti che con grande fatica storicamente abbiamo in parte conquistato. Ma fermiamoci a pensare, a osservare bene, cosa perdiamo? Ci scopriamo soli, eppure iper-connessi, le parole non ci mancano, le riflessioni nemmeno. Che cosa ci manca realmente? Vale la pena tornare a chiedercelo, non darlo per scontato. E con questo, mi rendo conto, faccio prevalere la domanda sull’esigenza di una risposta… o meglio, rispondo rilanciando la domanda. Mi pare la cosa più onesta.

2. Due questioni sono emerse con evidenza da questa crisi sanitaria: la globalizzazione economica e la comunicazione planetaria; a tuo parere, anche se è difficile fare previsioni, come cambieranno le cose?

G – Credo che la globalizzazione economica e la comunicazione planetaria aumenteranno esponenzialmente. Credo che si giungerà a una graduale maturazione, esprimendo non più il soggetto di nazione, ma come persone con diritti e valori comuni.
Al contempo vi sarà una valorizzazione di ogni singolo paese, esprimendo le proprie qualità strategiche, territoriali, produttive, culturali, per il bene della propria comunità e quella globale.

D – Ancora una vota noto che voi condividete una prospettiva “positiva”…
C – Tornerei sulla questione cruciale del tempo di cui si parlava poco fa. Il più grande stravolgimento è il tempo, ha rotto con la linearità, perché le azioni sullo scenario del mondo vanno, certamente verso una certa direzione, ma con tempi diversi, producendo sfasature enormi che rischiano di innescare un processo di mutuo annullamento. Il virus è globale, le risposte però mi sembrano ancora locali.
La globalizzazione è nata come imposizione del mercato che per essere tale necessita di un “mercato comune” globalizzato, appunto, ma se questo è avvenuto come logica conseguenza dell’esserci del mercato, non altrettanto avviene ciò che i teorici “illuministi” si auspicavano: la nascita di un governo universale, affinché si potessero garantire le condizioni stesse del mercato.
Il “mondo” è al lavoro su tutte queste cose, ma non si sa ancora l’esito di tutte le azioni che oggi sono in essere. Mai come oggi viviamo la dicotomia tra azione e esito dell’azione stessa.
Siamo nella necessità di una risposta universale, laddove questa è impossibile per mille motivi.
Il futuro è una rappresentazione anticipativa di ciò che non esiste, è importante perché dà forma immaginaria al nostro desiderio, alle nostre aspettative. Ma, come si è osservato, mai come oggi il desiderio coincide con l’aspetto di rassicurazione, rassicurazione rispetto al fatto che potremo perdere parte di ciò che abbiamo oggi, senza avere qualcosa d’altro che compensi ciò che sarà perduto.
A – Ho l’impressione che il futuro dipenderà molto da quello che saremo stati in grado di dire e fare oggi, durante l’isolamento, di settimana in settimana. Ed è al presente, mi pare ancora, che avvertiamo, o almeno così capita a me, un certo fastidio per questo proliferare di discorsi che parlano di senza parlare a. Ripeto: forse, prima ancora di chiederci cosa ne sarà di noi, o che cos’è ciò di cui stiamo vivendo gli effetti, sarebbe opportuno chiederci a chi ci rivolgiamo. A chi parliamo? Perché credo che qui stia lo snodo fondamentale tra una posizione cinica e disincantata, che quanto meno ha il pregio di non sublimare ipocritamente il dramma reale che ci ha toccato, e la retorica mediatica pronta a offrire speranze messianiche a ogni piè sospinto. Se parliamo, in fondo, è perché sappiamo di non essere soli. Perché, nonostante l’impossibilità a “dire noi” di cui dicevamo, nel lucido disincanto che la situazione che viviamo ci impone, scommettiamo sul fatto che vale la pena dire. Non a qualcuno che già ci è noto, non a “noi italiani”, “lombardi”, “milanesi”, “giovani”, “adulti”, o addirittura “a noi, l’umanità” ma, propriamente, a quel che saremo e che, per l'appunto, ancora non possiamo sapere. Prendiamo la parola oggi non per noi stessi, non c’è alcun “noi” qui ed ora, ma per quel che saremo diventati un domani. Perché è soltanto così, scommettendo su questa interlocuzione impossibile, che forse ci sarà un domani. Soltanto così vale la pena rompere il silenzio di fronte al reale del trauma.

3. Negli ultimi decenni si è parlato ampiamento della crisi dei temi umanistici, dell’umanesimo tradizionale, a vantaggio della tecnologia e della scienza come motori dello sviluppo e del cambiamento. A tuo parere sarà ancora così o l’elemento umanistico, coi suoi valori, torna di attualità? E di quale umanesimo si tratterà?

G – Da parte mia penso che i temi umanistici torneranno a vivere una centralità con la scienza e la tecnologia.
Un nuovo umanesimo è già in atto in buona parte di queste comunità.
Nell'attesa che la voce si diffonda in maniera univoca tra politica, società civile e religiose, verso una rigenerazione, un nuovo rinascimento.
I – Un umanesimo che ricerca modelli di coesistenza, coltivando un pensiero che si confronta con la realtà dell’istante e la crisi della finitezza, forse è possibile...

D – Così però si dà per scontato il valore di un termine problematico, come “umanesimo” o “nuovo umanesimo”. Noto che queste sono anche le insegne delle forme più smaliziate di marketing culturale. A me pare, invece, che la tonalità che si sta affermando sia quella di una sorta di coloritura umanistica – meglio, umanitaristica – quasi una copertura consolatoria: “ce la faremo!”, “tutti uniti contro il virus!”, “musica che unisce!” o, in sintesi, “restiamo umani!” e cose del genere. Mi domando se invece la vera questione non sia: come trovare un’adeguata via di uscita da questo schema informale, da questa doxa di buoni sentimenti. Ci dovremmo chiedere: ma che significa umanesimo? Che equivale a chiedersi quale sia la forma del “noi” o del Gemein-sinn implicata: dietro questo termine si mostra una forma di copertura ideologica di cui si fa uso nell’occasione.
Forse, piuttosto che a una sorta di contrapposizione tra umanesimo e tecnocrazia, si deve constatare un’alleanza tra la cultura degli “esperti” convocati a rassicurare o a dare verdetti, e il senso comune umanitaristico. Come mostravano Foucault o Lévi-Strauss, un atteggiamento critico nei confronti dell’umanesimo implicherebbe che si tenga presente la genealogia delle cosiddette scienze umane, di cui l’umanitarismo attuale rappresenta probabilmente la ricaduta mediatica.
Dunque, a me pare che la situazione abbia la veste di un umanesimo tecnocratico. È a questo che occorrerebbe sfuggire. Forse per evitare di scomparire del tutto, le “scienze umane” – ma la psicoanalisi, la filosofia, l’antropologia, tanto per fare tre nomi, sono davvero “umane”? – dovrebbero dis-umanizzarsi. In questa situazione l’appello che alcuni fanno alla filosofia come “il vaccino del nostro tempo” (Corsera, 30 marzo) sembra un po’ patetico – come un’idea ancora verticale, della filosofia come vertice, con il resto delle scienze umane al seguito, nella presunta resistenza o contrapposizione alla tecnocrazia.
Forse potremmo ripartire da una constatazione: non c’è “umanità”, e forse l’unica forma comunitaria immaginabile non può prescindere dalla singolarità o dalla “solitudine comune”. Ma siamo pronti? È prevedibile che una posizione del genere sia tacciata di cinismo, e messa in disparte…
E – Io invece continuo a credere che una forma positiva di rapporto, o una forma superiore di umanesimo, sia possibile. Faccio un primo esempio. “Ma tu, quando sarai vecchio, chiamerai un medico per metterti un catetere, o un filosofo?”. Ero presente quando un luminare di medicina interna rivolse ad un suo collega, insigne latinista, questa domanda dopo una convulsa seduta di un Senato Accademico che doveva ripartire percentuali e quote di fondi tra le discipline scientifiche e quelle umanistiche.
La questione era e rimane stucchevole per me: una lotta economica fondata sulla utilità disciplinare, tra supposti utili e inutili, tra “essenziali” e “non essenziali”. Davvero crediamo e vogliamo tagliare ancora una volta, ora, il mondo in due?
Forse prima o poi avrò certamente bisogno di un catetere, e forse, altrettanto certamente, quando quel catetere sarà inutile per continuare a farmi vivere, avrò bisogno di qualche cosa che mi aiuti a lasciare la mia vita nel modo più umano possibile. Come quando Socrate in punto di morte, cosciente della sua fine imparò a suonare un’aria musicale col flauto. A che gli serviva? Aveva bisogno di un antidoto contro il veleno, non di un incanto musicale. Eppure, la sua risposta fu che quella sua piccola azione gli serviva, semplicemente, per imparare quell’aria, un effimero privilegio, il suono intimo di un respiro prima di morire.
Vedo allora un grave pericolo, molto più insidioso del virus, un contagio che per altro aveva già attecchito in superficie, non tanto nella grande categoria dei tecnici quanto in quelli che tecnici non sono, e che alla tecnica hanno speso delegato troppi spazi della loro sfera pubblica e privata.
La tecnica ci salverà, si crede. Però non subito. C’è bisogno di tempo e intanto siamo solitari, isolati, perché ora per la tecnica siamo un elemento di pericolo. E le risposte, come ben sanno anche i tecnici, devono beneficiare di due attori consenzienti e collaboranti, il medico e il paziente ad esempio, o più estesamente la cultura tecnica e quella umanistica. È quest’ultimo un dialogo che non si è mai del tutto interrotto e dispiace assistere a schermaglie superficiali in cui si tende ad assegnare un primato inequivocabile alle conoscenze squisitamente tecniche come se anche nelle scienze umanistiche non fossero necessarie abilità anche tecniche. Ma si replica che queste ultime non salvino la vita, non siano essenziali, non sfamino. Forse non in senso letterale d’accordo, ma chi di noi non ricorda anche solo l’esperienza di Primo Levi che ha trovato la forza di resistere ai patimenti del lager anche grazie allo sforzo di ricordare e declamare i versi di Dante?
L’obiettivo futuro non deve abdicare, sull’onda emotiva del momento, al primato di un paradigma tecnico ma proseguire, in termini più diffusi culturalmente, per perfezionare ed allargare un modello di dialogo continuo tra scienze tecniche ed umane, troppo spesso impropriamente giudicate come separate. L’organizzazione del lavoro, così come appare oggi, ha subito pesantemente l’influsso tecnico scientifico determinando in tutti i settori della sfera pubblica ed economica un modello a compartimenti stagni che si è rivelato il precipitato di una stagnazione delle coscienze delle conoscenze. L’eccessiva specializzazione, con un indirizzo rivolto alla ipertrofia delle competenze, ha determinato un’azione fatta da tanti piccoli monconi, anche perfetti e preziosi, a cui però mancava un disegno unitario, formulato con troppi obiettivi di piccolo cabotaggio.
Queste due strade devono ora creare incroci, rotonde, connessioni, pena una prospettiva non tanto a due velocità, gli essenziali e gli inessenziali a cui accennavo prima, quanto il depauperamento cognitivo individuale e lo spopolamento di una ancora presente ma fragile, coscienza culturale collettiva.
Occorre sforzarsi di mettere insieme il saper fare con il saper desiderare, pensare a cose complesse e immaginare di semplificarle, progettare in maniera rigorosa secondo regole precise ma anche saper inventare ed essere creativi, lasciare più spazio anche all’indeterminatezza di una ricerca.
Due possono esser gli esempi che mi sento di chiamare in causa per far comprendere come questi 2 approcci a mio avviso debbano far parte della coscienza collettiva che dovrà maturare.
Il primo, quello più orientato ad acquisire competenze e che imputa all’uomo di aver trascurato colpevolmente un apprendimento collettivo di conoscenze tecniche, è bene espresso dal progetto di Marcin Jakubowski con il Global Village Construction Set. Jakubowski, in prospettiva di una catastrofe che lascerà pochi superstiti sulla terra, (tra i quali potrebbero non esserci scienziati o tecnici in senso lato, ma solo pizzicagnoli, giostrai, o “filosofi”) ha costruito una piattaforma tecnologica aperta che permetterà di realizzare in maniera semplice 50 differenti macchinari che nel loro insieme costituiranno, in maniera integrata, tutte le infrastrutture necessarie per una comunità autosufficiente per far ripartire la vita tecnologica sulla terra senza disperdere le conoscenze di base raggiunte.
Il secondo chiama ancora una volta in causa Primo Levi. Nel racconto-resoconto “Trenta ore sul Castoro sei” l’autore è imbarcato come osservatore su un sommergibile tecnologicamente sofisticatissimo il cui lavoro consiste nel depositare sul fondo marino, nel braccio di mare che unisce la Tunisia alla Sicilia, un tubo d’acciaio lungo diverse miglia, rivestito di cemento e deputato al passaggio del gas.
L’operazione di deposito e distribuzione di questi tubi prevede, spesso in condizioni meteo marine avverse, una serie di interazioni programmate e coordinate al millesimo di secondo tra sopraffini specialisti e apparecchiature avanzate di altissima precisione. Purtuttavia anche questa macchina perfetta fatta di scienziati e strumenti high tech registra, ad un certo punto, un inceppo. Un registratore di raggi X che dovrebbe verificare la bontà delle saldature dei tubi via via che questi saranno depositati in mare, scivola dalla sua sede e finisce dentro uno di questi tubi a 300 metri di profondità. È una attrezzatura indispensabile per il successo dell’operazione e tutti gli specialisti a bordo studiano soluzioni per i recupero senza però trovare un rimedio praticabile.
Oltre a ingegneri, biologi e tutto il gotha scientifico nazionale presente per questa impresa, ci sono anche dei semplici pescatori. Uno di questi suggerisce che per recuperare l’apparecchiatura bisogna pescarla, cioè calare un grosso amo lungo il tubo e agganciarlo. L’idea si rivela vincente e la spedizione è salva. Alla luce di quanto ha potuto vivere come testimone Levi riassume: “la storia della tecnologia dimostra, davanti ai problemi nuovi, quanto la cultura scientifica e la precisione siano necessarie ma insufficienti. Occorrono ancora due altre virtù, che sono l’esperienza e la fantasia inventiva”.
Ecco, il mondo nuovo, se ci sarà, pensiamo dovrà essere un po' scienziato e un po' pescatore.

D – Dunque pare che si presenti una opposizione, o almeno una differenza tra di noi: tra quelli che credono nella resurrezione di una nuova forma di umanesimo che fa stare insieme i due tronconi (la vecchia storia delle due culture) e quelli che pensano a qualcos’altro, oltre l’umanesimo e oltre la stessa opposizione tra tecnocrazia e “scienze umane” …
C – L’uomo oggi è sotto scacco, per evitare una morte di massa, paga un costo economico enorme e la cosa è inedita in sé, ma lo può fare perché la tecnica e la medicina lo permettono: si possono evitare le centinaia di migliaia di morti, perché è in nostro potere farlo. Al momento esiste un problema di scelta, ma tutto questo ha appunto un costo enorme. Il vaccino è immaginato come la nuova forma della salvezza, ma, in attesa di esso, la scelta è di fatto una non scelta che ci mette di fronte al fatto che siamo di fronte a una frase simile a: …o la borsa o la vita…
Infine, rimane un problema di mercato: la scarsa prevedibilità del futuro dipende dal fatto che molte attività non si sa se potranno riprendere. Il mercato se si ferma cambia i players in gioco: è come se si fosse in mano alla finanza con il suo aspetto di roulette russa. Insomma, la relazione vita/morte si confronta con la relazione io/tu, a tutti i livelli. La risposta potrebbe essere in un nuovo accordo tra gli uomini attraverso le loro strutture e qui non c’è nulla di scontato. Nella loro storia a volte ha vinto la pulsione di vita, ma non sempre.
Ricordiamoci che questa occorrenza è globale e non permette una via di fuga, quando si dice “siamo tutti nella stessa barca” indica che il globo è diventato un mondo chiuso, e gli uomini quando sono in un luogo chiuso danno il peggio di sé. Bisogna, dunque far fruttare il vuoto, questo non sapere, il rischio in gioco nella prospettiva di un “comunismo” dell’invenzione, parafrasando Badiou. Il problema è far diventare la perdita generalizzata come il minor denominatore comune. È possibile?
Insomma, siamo nel tempo della domanda, le risposte le avremo vivendo il mondo del reale che improvvisamente è emerso nella sua potenza.

D – Mi pare che alla facile contrapposizione tra umanesimo e tecnocrazia sia utile opporre una considerazione “dialettica”, che riguarda piuttosto la loro articolazione e combinazione. La combinazione di scienze umane e tecnologia sarebbe all’insegna di un umanesimo superiore, questo credono alcuni di noi. Altri, e io sono tra questi, pensano invece che la coppia stessa sia in realtà governata dal primo elemento, la techne, e che continuare a parlare di umanesimo sia, come dire, un sintomo o una copertura. Mi fa senso quando sento parlare di “business umanistico”, di “impresa umanistica” e cose del genere … permettetemi di dubitare di queste credenze. Forse essere dis-umani è il solo modo di rispettare l’umano.

4. Uno dei temi discussi negli ultimi anni era quello della crisi delle élites tradizionali, quelle politiche ed economiche. A tuo parere escono indebolite o rafforzate? E il sistema capitalistico, nelle sue differenti forme, dagli Stati Uniti alla Cina, come esce da questa crisi sanitaria? Rafforzato o indebolito?

A – È stato detto e scritto che l’unica via d’uscita dalla situazione in cui ci troviamo sarebbe quella di superare i limiti e le distorsioni che il capitalismo ci impone. Forse, però, come spesso avviene, il punto è prima di tutto superare l’idea stessa di superamento e di fuoriuscita. Come se si trattasse di uscire fuori: fuori dove? Il capitalismo è tutto quello che sappiamo e che tragicamente in queste settimane si sta palesando di fronte anche agli occhi più increduli o ingenuamente ignari. Ma quello che si direbbe della grande tradizione socialista, varrebbe la pena dirlo anche per il capitalismo: questo è quello che abbiamo conosciuto finora. Forse ne verremo fuori, per ritornarci dentro, come in una bottiglia di Klein – e ritrovarci però in tutt’altro contesto.
Se c’è un aspetto su cui il capitalismo non può cedere è il profitto: possiamo cambiare i modi di produzione, le forze produttive, i meccanismi di distribuzione, le forme giuridiche e politiche, ma il profitto non si può togliere. Questa identificazione tra capitalismo e profitto è data per acquisita. Eppure, forse, la logica del profitto è più antica dell’impiego che ne ha fatto il capitalismo, così come noi lo conosciamo. C’è un profitto che riguarda l’economia del vivente-parlante che noi siamo. Un profitto che né la biologia né la storia possono intercettare, perché non rimane tutto interno al bios, ma lo espone, dall’interno, al continuo rovesciamento nel suo contrario, senza che le narrazioni storiche possano dirne alcunché. Questo profitto preesiste al plusvalore capitalistico e probabilmente saprà anche sopravvivergli.
Ecco, ho l’impressione che la potenza cinese stia tutta qui. Bisognerà cominciare a leggerla, a margine delle categorie interne alla nostra storia. Forse il capitalismo cinese, al di là del bene e del male, ci mostrerà un’altra faccia del profitto. E il virus ci insegnerà anche questo: la vita approfitta di sé fino alla morte.

D – A proposito della contrapposizione tra “Cina” e “Occidente” bisognerebbe fare un’osservazione: la Cina ha inventato (la Russia post-sovietica non c’è riuscita) non un’uscita dal capitalismo, ma una nuova forma inedita di capitalismo, per così dire “purificata” dal residuo umanitaristico interno al capitalismo classico, centrato sulla coppia profitto più buoni sentimenti … credo che questa sia la sua forza. Insomma, ha mostrato, come diceva poco fa A, che pare che il capitalismo sia, per così dire, senza esterno, come la bottiglia di Klein.
Tornando alla questione delle élites: in linea con le osservazioni precedenti, pare che l’élite emergente sia quella dei rappresentanti della cultura degli esperti, i titolari di un sapere cui appellarsi per bisogno di rassicurazione. Salvo poi smentirli o rimetterli in discussione, o richiedere continue precisazioni, o accusarli di non dire tutto, di non dire abbastanza… e faccio notare che sotto la denominazione di “esperti” vanno messi SIA gli “scienziati” SIA i “filosofi” o “gli umanisti” in genere. Qual è allora il collante che tiene insieme “le due culture? Sarei tentato di dire: la Televisione, i Media…
L’esempio evidente di questo potrebbero essere le quotidiane conferenze stampa di Borrelli che appare sempre accompagnato da un esperto – un medico, titolare delle precisazioni scientifiche. Da questo punto di vista le reazioni più interessanti sono quelle dei rappresentanti della stampa – erede immaginario o presunto titolare delegato della “sfera pubblica” – in cui aleggia sempre una sottile tonalità di incredulità o di biasimo: perché non avete anche detto/fatto questo e quest’altro, perché non ci fate avere altri dati … e se invece le cose non stessero come dite voi… e così via.
L’esperto, in tali condizioni, corrisponde al luogo comune dello scienziato che uscito dal suo guscio specialistico offre ai profani – noi – un sapere mediato, mediatico. La “statura” dell’esperto dipende quindi in larga parte dalla sua figura mediatica, dalla sua capacità di presentare il “sapere” in forma commestibile. In questa situazione, l’intero scenario di ciò che si può dire, dalle reazioni emotive alla rassicurazione scientifica, è presente sulla scena dei media.
A – Dunque riappare la domanda: l’epidemia è un evento, o solo un gigantesco occursus? Questo ci rimanda a riflettere su quali siano le condizioni perché un evento sia. Se è un evento è perché ci traumatizza e ci costringe dunque a ripensare tutto daccapo. E allora, tutto ciò che in fondo anche prima del virus non sapevamo di noi, degli altri e del nostro mondo, torna ora con urgenza come un non sapere su cui non si può stendere il velo della sublimazione e dei sembianti sociali. Bisogna provare a dire e a domandarsi, insieme, anche se insieme non possiamo essere. Ed è da questo esercizio della domanda che, allora, anche il discorso sanitario, quello sociale e quello economico acquistano un'altra luce… e forse così già rispondo alla questione sull’umanesimo.
Ecco, mai come oggi è evidente quanto inutile e antiquata sia la separazione tra saperi umanistici e scientifico-naturali. Bisogna tornare a pensare al di là di questi steccati. Pensare la radice profondamente tecnologica dell’essere umano e al contempo la naturalità della tecnica. Ripensare, dunque, d’accapo la commistione che nella prassi si avverte tra la tecnologia e il pensiero. In questo, l’arte ci ha sempre preceduto. E ho un po’ l’impressione che in questo momento avremmo bisogno di un pensiero artistico: non nel senso dell’intrattenimento di cui ultimamente la rete è piena. Si tratta di tornare a pensare “come fare”: come facciamo quando operiamo con la materia, qualunque essa sia, a partire dal vuoto che la sostiene? E’ questa radice fabbrile del nostro pensiero, del nostro legame che si tratta di preservare: come prendersene cura, dentro e fuori il virtuale?
I – Gli artisti sono chiamati a dare contributi di ogni genere, interpellati sulle visioni del futuro, sollecitati a contribuire ad aste pubbliche di solidarietà o progetti di animazione/intrattenimento. A volte sembra un caravanserraglio dettato dalla paura della perdita di un posizionamento, del seguito di pubblico o del contatto con la propria storia. In realtà credo che in questa varietà di esperienze, di idee, di progettualità, anche con meno vincoli istituzionali e formali, si coaguleranno intuizioni e modalità resilienti e capaci di affermarsi come potenziali modelli di cambiamento. Serve osservare, sperimentare e immaginare. “La fantasia è un posto dove ci piove dentro”, scriveva Calvino.
H – Poiché ogni sguardo prognostico portando il futuro al presente lo perde in quanto futuro, lo acceca, secondo me la sola prospettiva possibile resta quella di affidarsi a questa cecità caratteristica di tutti gli auspici o, più semplicemente, come indicato dalla clinica psicoanalitica, dedicarsi a quanto di inaccessibile c'è nell'inconscio, alla sua cecità che sola è in grado di fare emergere il futuro, dal momento che col ritorno del rimosso si ha a che fare con qualcosa che viene dal futuro e non già dal passato, come si è disposti a credere. Dedicarsi a ciò che Freud chiama attuale.
A – Condivido questo tuo riferimento a Freud. Mi colpisce quanto poco inconscio ci sia in circolazione in queste settimane, ovunque. Intendo dire che la narrazione in cui siamo immersi tende ad essere o descrittiva, scientifica, tecnica (il numero dei contagiati, dei deceduti, la tenuta delle strutture sanitarie, le cause del virus) oppure retorica (l’intrattenimento per i cittadini rinchiusi nelle loro case, gli aperitivi via zoom, le speranze di rinascita), manca la serietà dell’inconscio, quella che, come diceva Nietzsche, ci porta a “sognare più vero” e a non trovare facile riparo dalla realtà nei sogni ad occhi aperti. Ecco, come fare, allora, a tenerci svegli in questo momento, all’altezza dell’urgenza che il virus ci impone e in guardia rispetto alla normalizzazione che il discorso mediatico ci offre?


Nicole Janigro, psicoanalista

1. Quali saranno a tuo parere i principali cambiamenti che la pandemia del coronavirus ha prodotto? Provando a differenziare tra aspetti sociali, economici e culturali.

Come nel gioco tradizionale un, due, tre, stella!, il mondo si è immobilizzato quando il coronavirus lo ha guardato. Una fotografia in formato planetario ci ritrae, contemporaneamente, uniti e divisi. Uniti dalla universale condizione umana, divisi per età e sesso, nord sud est ovest del mondo, poveri e ricchi, residenti e migranti, bianchi e neri, e tutti gli others, tra chi abita case e chi baraccopoli. Oppure è homeless. Il coronavirus agisce democraticamente, ma seleziona socialmente. Come accade nei dipinti di Egon Schiele, che scandagliano l’infrastruttura nascosta del corpo, ci ha fornito una lastra da studiare. Ha permesso di guardare qualcosa che, sotto, albergava, ma restava celato: un virus invisibile ha scoperchiato il visibile. Il lockdown ha agito da rilevatore della tipologia psicologica individuale, ha enfatizzato le caratteristiche del sistema glocal. Ha già prodotto movimenti di popolazioni, denaro, affetti e pulsioni. Ha costretto tutti a diventare consapevoli delle modalità di separazione e di attaccamento, a scoprire, come capita nelle emergenze, le nostre miserie e le nostre nobiltà. La minaccia esterna, soprattutto nelle metropoli, ha concentrato lavoro e famiglia, energie ed interessi indoor, il quotidiano è diventato il centro di gravità permanente. Pubblico e privato si sono fusi in una simbiosi sola. Pochi metri quadrati hanno sintetizzato il casa-lavoro femminile e maschile, la solitudine dei vecchi diventata emarginazione, l’orizzonte vuoto dei giovani che le crisi le patiscono di più (perché hanno meno storia alle spalle, e la recessione del 2008 hanno appena immaginato di superarla), l’interdizione dello spazio per i bambini. Si avverte forte il bisogno di pensare politicamente, nel senso della polis. Le modalità di diffusione del virus sottolineano l’interdipendenza tra l’io e il noi. L’emergenza legittima il desiderio di utopia che, nel caso italiano, alla fine degli anni Settanta del Novecento, si era drammaticamente interrotto, producendo diffidenza nei confronti di ogni proposta di cambiamento radicale. Il movimento di protesta si è atomizzato in isole di testimonianza, soprattutto civile (il volontariato italiano coinvolge 6 milioni e mezzo di persone, il 12,6 della popolazione) e sopperisce alla crisi del welfare (la Croce Rossa è volontaria!). La ricostruzione del post-virus qui trova risorse. Anche l’esperienza femminile potrebbe rappresentare modalità di scambio più capaci di comporre il ritmo pubblico con quello privato. La solidarietà prodotta dal nemico unico si può rinfrangere nel momento del ritorno outdoor. Perché, e penso all’Italia, la diseguaglianza economica si sta già intrecciando all’insensatezza della burocrazia e dell’amministrazione statale, e la perdita di fiducia sociale (un tema della sociologia delle società post-comuniste) rende difficile credere a una società civile.Dal punto di vista economico si ipotizza una Grande Depressione, le prospettive, però, sono fortemente segnate dalle forme economiche e sociali, dalle tradizioni culturali nazionali. Le modalità così diverse di gestire l’emergenza lo hanno già mostrato. (Se rivolgo uno sguardo agli stati dell’ex Jugoslavia, mi accorgo della continuità nelle mentalità politiche: in Slovenia, il premier Janez Janša, vorrebbe essere ancora in guerra e ha preso i pieni poteri, a Belgrado l’introduzione del coprifuoco rende evidente ai cittadini che, ancora e sempre, è lo stato autoritario che comanda). Nella storia, anche recente, è accaduto spesso, che passaggi socialmente cruciali siano sfociati in transizioni capaci di produrre novità in molti campi. Per la cultura, diventata un bene necessario e gratuito, sta già capitando. E c’è chi, come Hans Ulrich Obrist, declina la sua idea di un “estetica attivista” con la proposta politica di un piano Marshall a sostegno delle arti, qualcosa di simile al Public Works of Art Project e al Works Progress Administration (WPA) creato da Roosevelt durante la grande depressione americana di poco meno di un secolo fa. Il concetto di creatività, continuamente richiamato a proposito e a sproposito, indica però a ognuno la possibilità di capitalizzare il valore della propria soggettività. Certo, non siamo un’isola, ma possiamo ripartire da noi stessi per comprendere qual è la dimensione di vita di cui possiamo e vogliamo occuparci.

2. Due questioni sono emerse con evidenza da questa crisi sanitaria: la globalizzazione economica e la comunicazione planetaria; a tuo parere, anche se difficile fare previsioni, come cambieranno le cose?

È il trionfo della globalizzazione, perché il pianeta e la nostra vita sono uniti dal virus. Siamo in trappola, e non possiamo dire, come Woody Allen, Fermate il mondo, voglio scendere. Ma la iperconnessione, ha permesso di continuare a sentirci in relazione con gli altri. Ci ha salvato mentalmente. In pochissimo tempo è cambiato il rapporto tra virtuale e reale, tra corpo e parola. Non so se questa situazione dia ragione al detto di McLuhan, “il medium è il messaggio”, sta accadendo però qualcosa di inedito: la comunicazione, l’educazione e la formazione attraverso le piattaforme digitali influenzano il modo di apprendere e di stare gli uni con gli altri. Questo attraversamento produrrà una formazione diversamente capitalistica? Non credo vi sarà un ritorno allo stato sociale, ma le potenzialità racchiuse in ogni condominio potrebbero indicare una combinazione produttiva tra globale e locale. “È il quadro cosmopolitico a garantire il successo dell’azione locale”, “le nazioni devono trovare il loro posto nel mondo digitale, devono (re)inventare sé stesse girando attorno alle nuove stelle fisse: il mondo e l’umanità”. Scrive così, nel suo libro postumo e incompiuto, La metamorfosi del mondo (Laterza, 2017), il sociologo Ulrich Beck, e aggiunge: “Il mondo sta vivendo una metamorfosi, sorprendente ma comprensibile: cambiano l’orizzonte di riferimento e le coordinate dell’agire (che catastrofisti e ottimisti ritengono costanti e immutabili)”. Ulrich Beck scarta il termine cambiamento e sceglie di usare quello di metamorfosi per indagare uno spazio d’azione cosmopolitizzato dove la “traumatica vulnerabilità di tutti, aumenta la responsabilità di tutti per la sopravvivenza di tutti”. Definisce shock antropologico la sensazione di un rischio globale, accompagnato da un quotidiano senso di insicurezza. Invita a considerare non “gli effetti collaterali negativi dei beni, ma gli effetti collaterali positivi dei mali”. Perché questa è la realtà del nostro tempo, non si cura con utopie (o distopie), ma con qualcosa che, per il sociologo, è molto vicino all’idea di “coscienza anticipante”, la possibilità che ha l’umano di progettare il nuovo a partire dalle minuzie del quotidiano, come in Il principio speranza di Ernst Bloch.

3. Negli ultimi decenni si è parlato ampiamente della crisi dei temi umanistici, dell’umanesimo tradizionale, a vantaggio della tecnologia e della scienza come motori dello sviluppo e del cambiamento. A tuo parere sarà ancora così o l’elemento umanistico, coi suoi valori, torna di attualità? E di quale umanesimo si tratterà?

Dire integrazione non credo sia solo uno slogan. L’emergenza sanitaria lo ha dimostrato: la cura dipende dai ventilatori polmonari, ma anche dalla devozione del personale sanitario. D’altra parte il bisogno urgente di trovare una risposta scientifica al virus ha, in questo momento, zittito il movimento contrario alle vaccinazioni. Medici, virologi, epidemiologi sono gli esperti più seguiti e ascoltati, la paura e l’ansia collettiva si affidano a chi può spiegare e governare l’invisibile. L’opinione pubblica si è spesso divisa tra i sostenitori della tecnica e i sostenitori di un ritorno alla naturalità della natura che salverebbe noi e il pianeta. Una visione scissa che spesso si ritrova sul piano individuale, dove la credenza in un mondo magico di segni e significati compensa la dipendenza dalla tecnologia. Antropos o antropocene, siamo sempre noi a creare, distruggere, inventare.

4. Uno dei temi discussi negli ultimi anni era quello della crisi delle élites tradizionali, quelle politiche ed economiche. A tuo parere escono indebolite o rafforzate? E il sistema capitalistico, nelle sue differenti forme, dagli Stati Uniti alla Cina, come esce da questa crisi sanitaria? Rafforzato o indebolito?

Dipende dal punto di vista e forse anche dal punto geografico di osservazione. Il continente Europa vive da tempo nello smarrimento e in uno stato di declino. Il nostro vanto, siamo i più longevi (e in questo l’Italia aveva un primato), si è rovesciato in una diffusa angoscia di morte. Il virus ha spazzato via una generazione di grandi vecchi: una ferita simbolica collettiva. Incredibilmente rapido il mutamento dell’immaginario: l’infezione che arriva dalla Cina, le fosse comuni di New York. Gli Stati Uniti confermano la perdita della loro centralità egemonica, ma anche il successo della Cina come potenza globale non pare affatto scontato. Il mondo va ad est, non verso l’est europeo, ma verso l’estremo Oriente. In La società non esiste. La fine della classe media occidentale (Luiss University Press, 2019), Christophe Guilluy descrive un sistema composto da due mondi: uno di sotto e uno di sopra. La classe superiore ha perso ogni senso di responsabilità verso il popolo, dopo l’89 le élites neoliberiste hanno vinto e privatizzato, criminalizzando i poveri. Il capitale finanziario è internazionale (come dice bene la serie i Diavoli), il nazionalismo prima e il populismo poi sono invece il collante ideologico delle classi basse. Il virus offre un’opportunità. Adesso il mondo di sopra dipende da quello di sotto, il doversi occupare di chi vive nel disagio, economico sociale psichico, per poterci salvare, indica la necessità della comunità, costringe a riflettere sul significato di prossimità. Forse si attenuerà una polemica antiintellettualistica: pensare possiamo e dobbiamo tutti.

5. La diseguaglianza sociale che è emersa anche in questo frangente critico è destinata a perpetuarsi una volta terminata la crisi sanitaria o invece vedremo emergere dei cambiamenti sul piano economico e sulla distribuzione della ricchezza?

In queste settimane non abbiamo più potuto ignorare i dannati della terra, emersi come dalle foto in bianco e nero di Sebastião Salgado. Per proteggerci dobbiamo stanarli. Riflettere su che cosa intendiamo quando parliamo di ricchezza e povertà, perché una cosa sono gli indicatori economici e un’altra il vissuto – il diffuso vissuto di povertà degli europei ha poco a che fare con gli indici economici, rivela invece la sensazione di avere un passato egemonico più solido di quanto sia la prospettiva del futuro. Uso ancora Ulrich Beck che interroga la validità attuale del concetto di classe sociale, invita a ripensare il concetto di lavoro e di occupazione, a vedere le opportunità date dalla differenza. Nelle conclusioni di La metamorfosi del mondo parla di comunità di rischio cosmopolite o comunità di destino, di una solidarietà che può nascere anche nelle città-stato delle nostre megalopoli. Nella sua riflessione compare l’attenzione alla lingua: un nuovo mondo ha bisogno di un nuovo linguaggio, di una nuova semantica. È interessante che un altro studioso, un antropologo come Arjun Appadurai, che si è occupato a lungo degli squilibri della globalizzazione, arrivi a una conclusione simile, dopo aver analizzato la crisi finanziaria del biennio 2007-2008 come un problema linguistico (cfr. Scommettere sulle parole. Il cedimento del linguaggio nell’epoca della finanza derivata, Raffaello Cortina, 2016). Ebbene sì, la mia visione è quella di una baby boomer cresciuta con l’idea che non bisogna smettere di lottare per cambiare il mondo. E se pensiamo che in pochissime settimane i cieli si sono schiariti, le acque purificate… Dunque, forse, si può.

Gustavo Pietropolli Charmet, psicoanalista

1. Quali saranno a tuo parere i principali cambiamenti che la pandemia del coronavirus ha prodotto? Provando a differenziare tra aspetti sociali, economici e culturali.
- ha dimostrato la facilità con la quale sarebbe possibile effettuare un colpo di stato e abolire le libertà democratiche da parte di un comitato tecnico scientifico in nome della “protezione civile” e della “Salute pubblica”
- ha dimostrato la disponibilità dei nuclei familiari a mobilitarsi per difendere i propri cuccioli, proteggere gli anziani in considerazioni della inefficienza pericolosa della cultura dei vertici amministrativi e politici che ha trasformato le strutture sanitarie di “eccellenza” in centri pubblici di diffusione del virus grazie ai tagli della spesa e alla resa alla sanità privata.

2. Due questioni sono emerse con evidenza da questa crisi sanitaria: la globalizzazione economica e la comunicazione planetaria; a tuo parere, anche se difficile fare previsioni, come cambieranno le cose?
- È difficile fare delle previsioni.

3. Negli ultimi decenni si è parlato ampiamente della crisi dei temi umanistici, dell’umanesimo tradizionale, a vantaggio della tecnologia e della scienza come motori dello sviluppo e del cambiamento. A tuo parere sarà ancora così o l’elemento umanistico, coi suoi valori, torna di attualità? E di quale umanesimo si tratterà?
- Potrebbe darsi che gli straordinari effetti positivi che ha avuto il blocco delle attività produttive e della circolazione delle persone sull’inquinamento convinca dell’utilità di moderare lo strapotere della “scienza” e della tecnologia a vantaggio di una organizzazione mondiale che metta in primo piano la condizione umana e la sua fragilità.

4. Uno dei temi discussi negli ultimi anni era quello della crisi delle élites tradizionali, quelle politiche ed economiche. A tuo parere escono indebolite o rafforzate? E il sistema capitalistico, nelle sue differenti forme, dagli Stati Uniti alla Cina, come esce da questa crisi sanitaria? Rafforzato o indebolito?
- Le élites escono indebolite perché ora sono nude e interrogate da una catasta di cadaveri.

5. La diseguaglianza sociale che è emersa anche in questo frangente critico è destinata a perpetuarsi una volta terminata la crisi sanitaria o invece vedremo emergere dei cambiamenti sul piano economico e sulla distribuzione della ricchezza?
- Si aggraverà, assecondando la sua intrinseca prepotenza, come è inevitabile poiché ciò che è successo è solo una pandemia e non una rivoluzione.

(https://www.doppiozero.com/materiali/cinque-domande-sullo-scenario-futuro-2)