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    I sogni come orientamento

    Freud scoprì che il sogno contiene l’appagamento di un desiderio. In un senso più ampio, nei sogni è visibile ciò verso cui ci orientiamo, o da cui fuggiamo. Per un uomo, l’immagine dell’eroe, forte e ammirato, che vorremmo essere; o quella della donna affascinante che vorremmo conquistare; ma anche, in negativo, quella dell’orrido nemico che più ci fa paura. Come sappiamo istintivamente, è pressoché inutile dire di no a questa spinta profonda. Essa precede le cose imparate, appartiene a uno strato della psiche più antico, più vicino all’istinto. La zoologia ci dice che anche gli animali sognano. L’ecografia fetale ci ha insegnato che anche quando non siamo ancora nati facciamo sogni: dunque già abbiamo dei desideri o delle paure fondamentali. La razionalità viene dopo ed è più fragile. Dai sogni si può ad esempio capire precocemente l'orientamento sessuale degli individui. Molte persone si semplificherebbe (relativamente parlando) la vita se facessero attenzione a questo: accorgersi della propria omosessualità a 40 o 50 anni è inevitabilmente complicato.

    Immagini interiori

    Sotto i nostri occhi, il rapporto degli individui con i sogni è però cambiato più che in tutto il resto della storia. La psicanalisi se ne interessa dalle origini: si chiedeva ai pazienti di annotarli su un quaderno. Oggi lo si fa sullo smartphone. Così, il paziente racconta all’analista: “Non sono sicuro se ho sognato queste immagini o le viste sullo schermo”. Il contatto con le figure interiori si diluisce fra quelle preconfezionate. In generale, durante l’ultimo mezzo secolo il rapporto con le immagini-guida (o Ideali) è cambiato più che nei millenni precedenti.
    Cosa è accaduto al modello di adulto che ogni ragazzo voleva diventare? Fino a poche generazioni fa, il passaggio era semplice, quasi automatico. I contatti sociali erano infinitamente più ridotti di oggi (si conoscevano 200-300 persone nell'intera vita, ancora all’inizio 1900). Per il bambino maschio l’immagine-modello era quella del padre, al massimo quella del fratello maggiore.
    Le esperienze radicalmente nuove della folla (Le Bon, 1895), della massa (Ortega, 1929) e l’urbanizzazione hanno sconvolto questa stabilità, sbilanciando quella che fin dal paleolitico e dalle piccole bande di cacciatori-raccoglitori era la crescita psicologica “normale”. Oggi la norma è vivere in una innaturale densità, sia nello spazio (troppe persone) sia nel tempo (troppe attività quasi contemporanee, multitasking). Il risultato è la nuova psicopatologia del “ritiro sociale”: i cosiddetti “ritirati” sono milioni di giovani sostanzialmente normali – o spesso più intelligenti della norma – che non si adattano a quelle condizioni innaturali (cioè alla violenza commessa contro l’istinto del territorio). Però, per il nostro tema, la novità ancor più radicale non è tanto l’affollamento (che per reazione provoca l’isolamento), ma la moltiplicazione vertiginosa delle immagini-modello. Prima la fotografia, poi il cinema, la TV, infine internet e i social.
    Il chiudersi in casa di molti giovani (detto "sindrome di ritiro") è quindi una difesa vana, se restano collegati a internet che li invade con immagini. La proposta di modelli per un Io ideale (o un compagno-compagna ideale) è così vasta da rendere sempre più difficile avvicinarsi al modello stesso: quasi sempre la loro bellezza è artificiale e irreale, ottenuta con strumenti che alterano la vera immagine. I modelli sono talmente superiori alla persona reale che li guarda, da lasciare in lui/lei una profonda frustrazione. Non potendo essere noi quell’immagine, possiamo solo riprodurla all’infinito, “appendendola” ai nostri “social". Sempre più spesso, non si fa un uso ma un ab-uso delle immagini gradevoli. Il senso stesso dell'estetica è perduto.
    Si realizza così una delle più antiche profezie, non contenuta in un testo religioso ma in un dramma: “Molti preferiscono l’apparire all’essere, e così fanno torto alla giustizia (Dike)” (Agamennone, 788-89). Eschilo lo scrisse 2.500 anni fa. In un certo senso, ha reso inutile l’intera letteratura: in quella frase, aveva già anticipato tutta l'assurdità della condizione umana.
    Oggi un ragazzo può crescere opponendosi al padre e al fratello maggiore, o ignorandoli. Ma il suo vero problema è trovare modelli alternativi reali. È sopraffatto da modelli immaginali. Malgrado la crescita del benessere, delle scienze, delle psicoterapie e delle libertà, è sempre più difficile trovare chi dichiari di sapere cosa desidera essere. Una frantumazione di certezze che è in relazione diretta col nostro tema: infatti le prime, le più profonde immagini del proprio desiderio, quelle dei sogni (che provengono autenticamente dalla nostra personalità: quindi, per quanto in modo oscuro, alludono a qualche nostro bisogno), vengono svalutate a favore di immagini esterne (artefatte, non profonde e bidimensionali, costruite a tavolino per esigenze commerciali). Queste non sono state prodotte da noi: quindi, anche se perfette, saranno fin dall’origine più lontane da quella aspirazione che abita in noi e che sentiamo: ma che non conosciamo abbastanza. Questo porta a rivolgerci all’analista, o semplicemente a inondare gli amici con richieste di consigli.
    Perdendo il contatto col mondo interiore, la fantasia si inaridisce. Ne soffrono l’insegnamento, la memorizzazione, l’indipendenza nel lavoro, il quoziente d’intelligenza (che negli ultimi decenni diminuisce: è la regressione generale chiamata Reverse Flynn Effect), e la sessualità. Come l'asino di Buridano perdeva l'appetito quando gli proponevano due mucchi di fieno equivalenti invece di uno, così fra gli adolescenti – dopo un secolo di crescita – la sessualità nel secolo XXI sta diminuendo: probabilmente per un eccesso di "offerta" che genera insicurezza.

    Modelli collettivi

    Perché le immagini interiori sono così importanti non solo per ciascuno ma per l’insieme della società?
    Noi crediamo di comporre racconti. La regola è invece che – in ogni cultura, da quando esiste l’uomo – siano i racconti a comporre noi: che diano forma alla nostra personalità, alla nostra vita. Il racconto della vita, infatti, è più importante della vita. La vita è personale, il racconto è di tutti. La vita è mortale, la narrazione è eterna.
    Per Omero (Odissea, VIII, 579-580), gli dei vollero la distruzione di Troia perché fosse raccontata: dunque l’esistenza della Iliade, storia di quella distruzione, era più importante dell’esistenza di Troia, la città reale. La narrazione può prendere spunto da fatti reali e storici, ma se sopravvive nel tempo è un prodotto di fantasie condivise che hanno ricevuto ininterrottamente consenso. I poemi omerici hanno circa 27-28 secoli. Non sono nati in forma scritta: inizialmente, venivano tramandati a voce, con un impegno colossale come la loro dimensione. Certo, deve esserci stata una mente geniale che per convenzione chiamiamo Omero. Ma senza quella condivisione ‒ senza un immaginario collettivo pronto a fare sua quella narrazione ‒ non ci sarebbe giunto niente: proprio come spariscono nel nulla anche le fantasie più emozionanti di noi individui, benché al momento saremmo pronti a giurare che non le dimenticheremo mai. Solo se simili prodotti della mente trovano corrispondenza nell’inconscio collettivo (e quindi nella cultura) diventano immortali e non importa più se sono nati dal sogno di un individuo o da un avvenimento storico: la loro somma si trasforma in un mito, che è secondo Freud il “sogno universale sognato da tutta l’umanità”.
    Quel racconto che facciamo a noi stessi nel sonno (il sogno individuale, una auto-rappresentazione della mente), misterioso ma che tutti sperimentiamo, che rapporto ha con le narrazioni collettive? Anche se non possiamo dimostrarlo scientificamente ma solo “antropologicamente” (lo studio psicologico dei sogni non appartiene alle scienze esatte ma alle scienze dell’uomo, che non prevedono "dimostrazioni" bensì ipotesi più o meno convincenti) possiamo immaginare che la origine sia la stessa. Proprio come sappiamo che, già prima di nascere, ognuno sogna, così, dallo studio dei popoli senza scrittura (tribali, Naturvölker o “fossili viventi”) sappiamo che non solo la civiltà occidentale, ma tutte le culture, anche negli stadi più primitivi, praticano rituali zeppi di racconti. In queste condizioni è non solo impossibile, ma anche irrilevante distinguere se i racconti sono stati creati da qualcuno che era sveglio o durante il sonno. In ogni caso si tratta infatti di fantasie non prodotte da una volontà o razionalità, ma da quello che la psicanalisi chiama “inconscio” (o: create “inconsciamente”, se si preferisce). La narrazione è un bisogno dell’immaginazione collettiva, somma dei bisogni inconsci individuali.

    La fragilità del sovra-strato razionale

    Anche se ognuno di noi certamente ha uno spazio per scelte volontarie, chiamato libero arbitrio dalla Chiesa, la gran parte del nostro agitarci non è un agire cosciente. Siamo, invece, agiti: sia individualmente che come società, da spinte archetipiche, cioè originarie, non apprese, appartenenti allo strato più istintivo e animale che a quello umano. Quindi ben difficili da modificare con ragionamenti sensati. Basta ricordare che nel 1800 Marx credeva che i nazionalismi fossero uno stadio in via di superamento. E che alla fine di quel secolo – di indubbi progressi, laicizzazione, acculturazione – molti europei (Freud per primo) credevano che le religioni fossero uno stadio in via di superamento, quindi tutti sarebbero divenuti più obbiettivi, più giusti, meno violenti. Invece, nel 1900 il vuoto lasciato dalle religioni tradizionali è stato riempito da fedi politiche, ancor più superstiziose, più fanatiche, più violente di quello che molte chiese erano purtroppo state. Nel 1800 erano morte in guerra poco più di 5 milioni di persone. Nel 1900 gli uomini uccisi da altri uomini sono stati circa 200 milioni (40 volte tanto).
    Non ci stiamo allontanando dal nostro tema. Il XX Secolo è diventato la belva della storia proprio perché non pochi politici hanno lasciato cadere la politica o l’economia, così noiose, per dare la priorità a qualche “sogno” (o mito, quindi sogno collettivo) da cui si sono lasciati agire o guidare: per Hitler la superiorità di una cosa che non esiste, la “razza germanica”; per Stalin quella del proletario russo (difficile da definire e a cui comunque non era stato chiesto se voleva essere proletario). Nessun individuo e nessuna società; nessuna epoca e nessuna cultura si sono mai accontentate di esprimere solo la razionalità. Senza visioni interiori e non-razionali non esiterebbero arte, poesia musica. Ma è vero anche il contrario: sotto i due regimi citati, le stragi si sono moltiplicate, mentre la produzione artistica si è estremamente ridotta.

    Sogni americani

    Questo riguarda tutte le società: non solo le dittature europee, ma anche le democrazie anglosassoni.
    Martin Luther King è tornato di attualità nel 2020 perché i problemi razziali hanno sconvolto di nuovo gli Stati Uniti. Senza entrare nel tema, ricordiamo che il discorso con cui King cambiò la storia americana si intitolava I Have a Dream. Non era affatto un espediente retorico occasionale. In assenza di partiti o sindacati strutturalmente progressisti come quelli europei, appartiene alla storia americana il fatto che un innovatore come King fosse un pastore protestante e che le sue novità politiche venissero rappresentate come la mano di Dio in Terra. Del resto, lo stesso ideale di benessere degli Stati Uniti era chiamato American Dream. King inseguiva per gli afro-americani non un ideale di rivoluzione, ma di inclusione in quella società: e nei suoi discorsi si riferiva di continuo ai sogni, suoi o di altri, offuscando intenzionalmente la distinzione tra sogno, visione e profezia. Non a caso, includeva spesso riferimenti all’Antico Testamento, soprattutto ai Libri detti dei Profeti. Si presentava come uno di loro e, in sostanza, riuscì ad esserlo: vide una buona parte del suo sogno realizzata, anche se lo assassinarono a 39 anni. Il Libro ebraico (Bibbia) è pieno di sogni o visioni che alludono a un futuro necessario. La loro forza sta proprio in una narrazione che lascia in sospeso quanto sia destino già segnato e quanto un compito che l’uomo deve realizzare.

    Una metafora della psicoanalisi

    Per la professione di psicanalista è particolarmente simbolica la lotta di Giacobbe con l’angelo (Genesi, 32, 23-33). Nella notte, Giacobbe doveva guadare un torrente. Fece passare la famiglia e le sue proprietà. Ma, quando toccava a lui, fu assalito da un uomo. A lungo si avvinghiarono lottando, finché lo sconosciuto disse: “Lasciami, perché spunta l’aurora”. Giacobbe però rispose: “Non ti lascerò, finché non mi benedici”. Allora, quella che era solo un’ombra si manifestò come un angelo mandato da Dio. Lo benedisse e gli annunciò che da quel giorno si sarebbe chiamato Israele, cioè chi “lotta con Dio”. La condizione perché si realizzi questo intervento superiore – che inizialmente sembra distruttivo mentre si rivela un aiuto divino – è la notte. Può trattarsi di un sogno o di una visione: in ogni caso è un incontro con un potere inconscio ma redentore. Per usufruirne bisogna superare la fase iniziale in cui si presenta sotto forma di buio spaventoso, cioè di inconscio. In modo simile, di fronte all’ansia e alla nevrosi per gli uomini si aprono due vie: si può fuggire, nelle droghe, nell'alcool, nei tranquillanti o semplicemente nella frivolezza. Oppure si può abbracciarle, lottando con loro. Nel primo caso, è facile che si ripresentino aggravate nel tempo. Nel secondo, la forza investita nella lotta col proprio inconscio può trasformare dall’interno ciò che siamo, e i “nemici” rivelarsi come alleati.
    Perché certe immagini non corrispondenti a cose reali facciano da ponte – tra individuo e collettività, o tra due epoche – non è tanto importante che siano state letteralmente “viste” nella veglia oppure siano sogni; e neppure che siano costruzioni manipolate con una intenzione politica, addirittura dopo gli eventi. Quello che conta è che corrispondano a una aspettativa dell’inconscio collettivo: questo avviene spesso in tempi di gravi trasformazioni, di cui l’uomo comune può non esser particolarmente consapevole, ma in cui c’è un vuoto di narrative da riempire.
    Un esempio molto evidente è il sogno di Costantino: che, a seconda delle fonti, è anche presentato come una visione. Se qualcosa sia apparso nel cielo all’imperatore o ai suoi, e poi riapparso in sogno; se sia avvenuta una sola delle due cose o addirittura se il mito sia stato in sostanza costruito a cose fatte dalla fantasia di qualche filo-costantiniano, ha in fondo poca importanza. Quello che importa è che i suoi soldati, poi Roma tutta, svuotati dalle guerre civili, fossero particolarmente disposti a ricevere immagini redentrici. La corrispondenza era tale che permise una conversione senza ritorno, attraverso l’abbraccio tra il maggior impero, ormai in decadenza, e la maggior religione monoteista, in piena espansione. I sogni o altre immagini inconsce sono sempre stati il cibo primario della profezia. Nell’entusiasmo che la seguì, passò inosservato un dettaglio. Di sogni profetici pullulano la Bibbia ebraica e la letteratura pagana, mentre il cristianesimo, che voleva distinguersi proprio da quelle, dà loro molto meno spazio e più sospetto: ma in questo caso la forza collettiva dell’immagine fu tale che la Chiesa le affidò l’inizio della sua fortuna politica.
    Perché trovi corrispondenza con quella immensa zona interiore di noi che chiamiamo inconscio, l’importante è che queste immagini finiscano col comporre una narrazione assoluta.
    Jorge Luis Borges – che possiamo considerare un narratore assoluto, perché difficilmente i suoi scritti possono esser classificati all’interno di un’epoca, o di un genere letterario – nel Prologo al suo Libro dei sogni (1976, Adelphi 2015) scrive che “… i sogni costituiscono il più antico, e non meno complesso, dei generi letterari”. Immagino che non vi sia sfuggito un dettaglio. Chi è in rapporto con le grandi visioni, spesso termina la vita cieco: il suo sguardo è ormai tutto interiore, quindi quello esterno non gli è più necessario. Pensiamo a Omero, Tiresia, San Francesco e allo stesso Borges.
    Certamente ci sono sogni che riguardano solo il sognatore, quindi hanno una importanza più limitata; buona parte di quelli individuali riguarda in sostanza la vita di quell’individuo. Non hanno una particolare rilevanza per la collettività: possono piuttosto dire cosa manca alla sua vita personale. Un problema di cui, nella cosiddetta società di massa, non ci si interessa molto: mentre costituisce il nocciolo di molte psicoterapie. Il libero arbitrio, che abbiamo ricordato, viene utilizzato per scegliere tra diverse marche di scarpe o di smartphone, oggetti prodotti non in migliaia ma in milioni di esemplari, quindi estranei a quella che chiameremmo scelta individuale. È possibile che i sogni individuali interessino sempre meno perché la vita degli individui è condotta con criteri sempre più collettivi.
    In definitiva, sarebbe fuorviante considerare il sogno un evento che riguarda solo la persona che sogna. Sognare è una cosa sola con la letteratura, che a sua volta è forma di creazione assolutamente universale.

    Le visioni di Jung

    Jung concentrò i suoi studi sui sogni anche come conseguenza di un evento personale. Il 1913 fu l’anno decisivo della sua vita perché, dopo esser stato l’erede designato di Freud, era arrivato a una insanabile rottura, personale e teorica, col maestro: stava teorizzando che i contenuti dell’inconscio non fossero solo personali. Per capirne di più, non si limitava ai sogni notturni. Perfezionò una tecnica di sospensione della razionalità diurna, lasciando che visioni non programmate si presentassero alla mente anche da sveglia. Oggi possiamo capirlo meglio, data la diffusione in Occidente di meditazioni orientali. A quei tempi era avventurarsi in un campo sconosciuto: e ci permette di capire meglio perché fu Jung a introdurre in Europa molte discipline asiatiche. A ottobre fu sopraffatto dall’immagine di una spaventosa alluvione che devastava l’Europa. Quando stava per scavalcare le Alpi, queste si alzarono impedendo alla Svizzera di esser sommersa. Ma dappertutto vedeva macerie: poi il liquido giallastro diventò sangue. La visione durò un’ora e lo lasciò spossato. Qualche tempo dopo, si ripeté ancora più spaventosa, mentre una voce avvertiva: “Guarda bene, è tutto vero”. Nel 1914 ebbe altri sogni di catastrofi terrestri e si chiese se non annunciassero una sua malattia mentale. Solo in agosto, allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, cominciò a interrogarsi sul rapporto tra visioni individuali e inconscio collettivo.

    I sogni tribali

    Negli anni fra le due Guerre Mondiali si trovavano ancora popoli tribali non contaminati da oggetti o costumi occidentali. Jung viaggiò molto fra di loro per capire che rapporto avevano con sogni e visioni. Trovò che le tribù aborigene distinguevano tra sogni ordinari, che possono anche esser trascurati (potrebbero corrispondere ai “sogni fallaci” di cui parlava Omero: Od. XIX, 560-568) e “grandi sogni”. Questi sono invece significativi per la collettività: una cosa che si avverte istintivamente, perché alludono al destino dell’intero gruppo. Nella psicologia tribale – dove non solo manca il nostro ego-centrismo, ma è quasi assente un Ego personale – si dà per scontato che sia il capo o lo stregone a fare i sogni che riguardano tutti: anzi – racconta a Jung una tribù del Kenya – da quando siamo colonia britannica chi sogna è ormai il Commissario Distrettuale inglese.
    I Grandi Sogni, in sostanza, si differenziano dal sogno ordinario per due motivi: innanzitutto riguardano la collettività, e sono evidentemente prodotti dalla pressione esercitata su di essa da circostanze condivise, con una forza che supera quella degli altri avvenimenti: quindi sgorgano dall’inconscio collettivo, anche quando a ricordarli è un individuo. In secondo luogo, le sue figure si riferiscono più al futuro che al presente: anche se possiamo spiegarceli come auto-rappresentazioni di una condizione psichica già presente ma non ancora consapevole. Qualcosa di simile disse Ernst Bloch, in Il principio speranza.
    Un loro drammatico esempio si trova in un capitolo di Se questo è un uomo intitolato "Le nostre notti". Primo Levi riferisce che anche Alberto, il suo principale amico nel Lager, e molti altri detenuti, fanno sogni simili ai suoi. Inevitabilmente, molti sognano l’angoscia quotidiana del lavoro massacrante e del cibo insufficiente. Ma un altro tema si ripete. Nessuno può veramente immaginare, quindi sognare, la propria morte fisica, perché non ne ha l’esperienza. Invece, è possibile sognare qualcosa che potremmo chiamare il proprio annientamento psichico. Come Levi, molti detenuti sognano di tornare a casa: e qui, nel luogo più desiderato, di non essere ascoltati, di non esser creduti. Esistono ancora fisicamente, ma non più come persone. Il sogno collettivo è dunque – soprattutto per Primo Levi, la cui voce scritta parlerà per tutti – un tragico incarico per il futuro e una drammatica profezia dei negazionismi che verranno. Il suo compito sarà raccontare: ma verrà creduto? Verrà ascoltato? La persona a lui più cara, sua sorella, nel sogno si alza allontanandosi senza parlare, come fosse annoiata.
    Da qualunque parte ci volgiamo, possiamo constatare che l’uomo – antico, moderno o postmoderno – è stato plasmato dai sogni, attraverso un percorso lunghissimo.
    We are such stuff
    As dreams are made on; and our little life
    Is rounded with a sleep
    (Prospero, La tempesta, IV, I, 156-158)

    Funzione naturale del sogno

    Il rapporto coi sogni e con tutte le immagini interiori è, in sintesi, un fatto naturale e universale: perdendolo, qualcosa si modifica nel nostro equilibrio psichico. Il paradosso del sogno sta nell’essere assolutamente generale, ma nel manifestarsi in forme assolutamente individuali: persino lo stesso sogno, ripetuto dalla stessa persona, non sarà mai del tutto identico. Data questa inafferrabilità è molto difficile descrivere cosa mancherà se perderemo i sogni; e suggerire eventuali rimedi. La psiche è stata anche definita come il luogo dell’individualità. Questo fatto è dimostrato anche dal suo contrario. Le tirannidi si sono sempre opposte alla psicoanalisi. Significativa è una frase di Robert Ley, responsabile per le organizzazioni di lavoratori e ricreative del nazionalsocialismo (1890-1945, suicida in attesa di processo a Norimberga): “L’unico che oggi in Germania ha ancora una vita privata è chi sta dormendo”. Tutto l’immenso, mostruoso sforzo delle dittature si potrebbe riassumere in questo: cancellare l’individualità di ogni mente dall’attimo in cui la coscienza si sveglia. Sull’inconscio e sui sogni questa violenza ha ugualmente un potere: ma questo non sarà mai totale.
    Se dicessimo che il nostro equilibrio psichico è turbato e richiede tranquillanti, si metterebbero in moto forze gigantesche: il fatturato degli psicofarmaci è superiore al prodotto lordo di molti paesi poveri. Se, al contrario, diciamo che abbiamo bisogno dei sogni e delle immagini interiori, non succede niente. Tutti li possediamo già, sono gratuiti, non fanno aumentare nessun fatturato, ma solo benessere se non li perdiamo. Dobbiamo alla giornalista tedesca Charlotte Beradt un vasto studio su come la dittatura nazista si sia riflessa nei sogni fatti in Germania a quell'epoca. Le costrizioni, così violente nella società, si sono infiltrate anche nell’inconscio, che pullula di gerarchi, di sorveglianti, di proibizioni assurde. Fra le parole vietate c’è per esempio il pronome io. Oppure: è di colpo vietata qualunque verità, chi afferma che 2+2=4 viene condannato a morte. O anche: sono proibite le forme geometriche, tranne riquadri molto rigidi e senza contenuto. Inevitabilmente, le persone di cui l’autrice ha potuto registrare i sogni sono un campione rappresentativo soprattutto dell’ambiente intellettuale di Berlino che frequentava, più che della società in genere. Nonostante questo limite, il testo di C. Beradt è unico nell’offrire una vasta visione della vita intima sotto l’orrore. Uno dei più noti psicoanalisti dell’epoca, Bruno Bettelheim, notò nella postfazione come, rileggendoli anni dopo, molti di quei sogni possono addirittura esser considerati profetici.

    Il Nottario

    Se ora torniamo alle preoccupazioni che ho espresso all’inizio, possiamo chiederci quali sono i fattori patologici che oggi, nel XXI Secolo, stanno irrigidendo il nostro rapporto con le immagini interiori o addirittura lo fanno perdere. Uno studio pluriennale (Eva Pattis Zoja, Liliana Liturri, Il mio nottario. L'ora dei sogni in classe, Moretti & Vitali) condotto nelle scuole elementari in varie parti d’Italia mette purtroppo rapidamente il dito sulla piaga. Nell'ora settimanale dedicata ai sogni i bambini possono raccontarli o disegnarli. Quasi tutti lo fanno con gioia. A chi non li ricorda viene detto che possono disegnare la loro stanza. Qui giunge una sorpresa. Chi non ha sogni ha più spesso disturbi. E dai disegni emerge che al centro della loro stanza sta un computer o una TV. Nei disegni raffigurata come un riquadro senza vero contenuto. I bambini sono dunque in grado di rappresentare le proprie immagini interiori tanto più adeguatamente quanto più conservano la fantasia libera da figure preconfezionate, quindi quanto meno tempo passano con il tablet e soprattutto con la TV. Quando questo condizionamento è massimo, il bambino rappresenta cornici e inquadramenti, al cui interno sta il vuoto. Riflettiamo bene: la nostra società è costruita sul superamento della dittatura ed è quanto di più lontano dal nazismo si possa immaginare. Eppure, molte costrizioni con cui la tecnologia condiziona precocemente un bambino, potrebbero avere conseguenze non così diverse, che sconterà per la vita sotto forma di rigidità e di impoverimento strutturale della fantasia.

    La quercia di Goethe

    Vorrei concludere con un esempio moderno di come una profezia spontaneamente nasce e, almeno in apparenza, si compie.
    In ogni senso, il vero centro della Germania è Weimar. O, meglio ancora, Ettersberg, una collina poco distante. Qui, nella bella stagione, alla fine del 1700 i più grandi illuministi si incontravano in un bosco di faggi, preparando il romanticismo e la filosofia moderna: Goethe e Schiller, Herder, Schelling, Fichte. In mezzo a quei tronchi ritti, stava una pianta immensamente più grande, dalle forme molto più complesse. Si diceva già che avesse centinaia di anni. I passanti capivano istintivamente perché nei miti germanici le querce fossero divinità. Sembra che sotto i suoi rami fossero stati composti La notte di Valpurga e i punti salienti del Faust: i versi principali della massima opera del poeta più grande della Germania, Goethe. Per questo, in molti libri del 1800 – secolo del romanticismo e dell’unificazione nazionale tedesca – la vita della quercia di Ettersberg finì col rappresentare la vita della Germania.
    Il secolo terminò. Ma negli anni ’20 del 1900 Weimar e i suoi boschi conobbero nuovi splendori, pensiamo a Gropius e alla Bauhaus. Solo quando arrivò il nazismo le cose rapidamente cambiarono. Già prima della Guerra (primo settembre 1939) e della conferenza di Wannsee, in cui si decise lo sterminio ebraico, tenuta all'inizio del 1942) si costruirono Lager: solo all’interno della Germania, però; e di concentramento, non di sterminio. Posto al centro del Reich, Ettersberg era un luogo ideale. In genere, i campi prendevano il nome del luogo più vicino. Ma questa volta si preferì non chiamarlo Ettersberg, perché avrebbe ricordato un ritrovo di intellettuali: cosa intollerabile per i nazisti. Come nome, fu scelto “bosco di faggi”, che in tedesco si dice Buchenwald.
    Secondo il detenuto 4935, i prigionieri furono obbligati a tagliare tutte le piante, tranne la “quercia di Goethe”. Un racconto perfettamente credibile, perché sappiamo che i vertici nazisti erano molto superstiziosi: non volevano certo risvegliare i demoni della Notte di Valpurga, e tantomeno la profezia che associava la vita della “quercia di Goethe” a quella della Germania. Nel campo, fra i detenuti ne era nata una variante: "quando crollerà, cadrà anche il nazismo". 4935 doveva essere una persona dotata di conoscenze letterarie e di intuito psicologico: nel suo ricordo, ai prigionieri sembrava ormai che Mefistofele avesse vinto la scommessa con Faust. Sotto i rami della quercia, infatti, si trovavano di nuovo molti intellettuali: sacerdoti cattolici e protestanti, politici di ogni partito, scrittori. Ora, però, non discutevano. Pendevano dalla pianta, spesso molto a lungo. Non si usava un cappio. Non essendo un campo di annientamento, non c’erano massacri industriali da compiere: solo qualche esempio da impartire. Un po’ per la mole della pianta, un po’ per offrire migliore visibilità, i rami usati erano abbastanza alti. Nel campo si aggiravano molti cani, addestrati ad aggredire i detenuti. Ma non riuscivano a raggiungere quelli che ciondolavano; restavano a muso in su, abbaiando e raspando con le zampe il tronco. Quando giunse il 1942 questo rituale si era ripetuto così spesso che alla parte inferiore della quercia mancava ormai la corteccia: così da quella primavera non buttò che poche foglie e cominciò a disseccarsi.
    Nell’agosto del 1944 gli americani erano ormai padroni dei cieli e attaccavano anche di giorno. Pochi bombardieri volarono sopra Buchenwald: e in qualche minuto colpirono con precisione la fabbrica bellica adiacente, che sembra producesse parti per i missili V1 e V2 usando i detenuti per la mano d’opera più umile. Anche i magazzini del Lager presero fuoco. Poi, anche l’immenso “mostro”: bastarono poche scintille, e i rami secchi della quercia cominciarono a bruciare. I detenuti formarono una catena per passarsi i secchi d’acqua fino alle baracche incendiate. Ma, con occhiate silenziose e trionfanti, si misero d’accordo per non versarne un cucchiaio sulla pianta.
    Sia le SS sia i prigionieri avevano parlato della profezia solo a bassa voce. Ma, sottoposti a una pressione psicologica estrema, erano tutti divenuti parte della profezia e si identificavano nel mito: quando la quercia crollerà, cadrà anche il nazismo. Il giorno dopo l’incendio, ai detenuti fu chiesto di tagliare il moncherino. Otto mesi dopo, il Terzo Reich firmò la resa incondizionata.
    E Goethe? si domanda 4935: Goethe non esiste più, si risponde da solo. Lo ha stritolato Himmler. Senza saperlo, Häftling 4935 stava ancora esprimendo una anticipazione, quasi una profezia. Non poteva immaginare che il giudizio più noto sui Lager avrebbe incluso proprio la letteratura: Dopo Auschwitz, è barbarie anche scrivere poesia (Nach Auschwitz, ein Gedicht zu schreiben ist barbarisch, T W Adorno, Kulturkritik und Gesellschaft, 1949).

    Milano, luglio 2020,

    Il racconto è tratto dalla Neue Zürcher Zeitung del 4.11.2006, a sua volta tradotto da racconto anonimo in polacco apparso a Lublino nel 1945.


    Bibliografia

    - James Truslow Adams, The Epics of America, Little Brown, 1931.
    - Theodor W. Adorno, Kulturkritik und Gesellschaft, 1949
    - Charlotte Beradt, Das Dritte Reich des Traums, 1966, ed. it. Il terzo Reich dei sogni, prefazione di Reinhart Koselleck, postfazione di Bruno Bettelheim, traduzione di Ingrid Harbach, Einaudi 1991.
    - Ernst Bloch, Das Prinzip Hoffnung, Aufbau 1954-59, ed.it., Il principio speranza, Mimesis 2019.
    - Jorge Luis Borges, Libro de sueños, Torres Agüero 1976, ed.it. Libro dei sogni, Adelphi 2015.
    - Gustave Le Bon, Psychologie des foules, Alcan 1895, ed. it. Psicologia delle folle, Tea 2004.
    - C.G. Jung, Erinnerungen, Träume, Gedanken, 1961 ed. It. Ricordi, sogni, riflessioni, Il Saggiatore 1965.
    - Primo Levi, Se questo è un uomo, De Silva 1947.
    - José Ortega y Gasset, La rebelión de las masas, 1930, ed. it. La ribellione delle masse, Il Mulino 1962.
    - Eva Pattis Zoja - Loredana Li Turri, Il mio nottario. L'ora dei sogni in classe, Moretti & Vitali 2015.
    - Luigi Zoja, Psiche, Bollati Boringhieri 2015.

    (FONTE: https://www.doppiozero.com/materiali/sogni-visioni-profezie)


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