Il nuovo volto del capitalismo
secondo il filosofo Mauro Ceruti
Massimiliano Cannata
Un salto di civiltà Il turbocapitalismo ha fatto il suo tempo. Una crescita sostenibile per il futuro dell’umanità si basa su alcuni fattori chiave: diversità come forza, rifiuti trasformati in cibo, pensiero sistemico, fonti rinnovabili. Ecco perché.
Economia circolare, globalizzazione, complessità, sono tutti fattori interdipendenti nella visione di Mauro Ceruti, docente di epistemologia genetica e filosofia della scienza dello Iulm di Milano. Pensatore straordinariamente versatile, da sempre attento al destino dell’uomo, osservato tra il “cosmo” e il “caos”, immerso com’è negli orizzonti incrociati di una contemporaneità sempre più difficile da interpretare. «Molto spesso – spiega lo studioso che ha lavorato a lungo al fianco di Edgar Morin – ai teorici sfuggono le dinamiche concrete che muovono la società. Lo stesso, a canoni invertiti, succede a chi troppo schiacciato sugli obiettivi di breve periodo, politici, manager, economisti, finisce col perdere lo sguardo di insieme, che è fondamentale per imboccare la strada del progresso». È in atto un passaggio di civiltà, per cui bisogna sviluppare competenze adeguate per cogliere i vantaggi di una metacircolarità virtuosa, capace di tenere insieme gli scenari mutanti di un mondo senza confini e la progettualità che emerge con prepotenza dalle tante realtà locali, che hanno storicamente espresso il meglio dell’italianità.
Professore, economia circolare è il “termine critico” che sta entrando nell’uso comune. Possiamo spiegare cosa significa?
Dobbiamo innanzi tutto capire che oggi è messa in gioco la nozione stessa di causalità. La visione tradizionale della causalità ipotizza catene causali lineari, nelle quali da un effetto si risale a una causa, e la conoscenza della causa viene considerata la spiegazione dell’effetto. In una visione sistemica, invece, non solo le catene causali interagiscono le une con le altre, ma gli effetti retroagiscono anche sulle cause, cosicché possiamo solo parlare di evoluzione degli stati del sistema, in cui tutto è interdipendente e tutto è contemporaneamente causato e causante. Questo, però, dal punto di vista cognitivo, non ci conduce affatto all’impotenza. Il fatto è che non possiamo più prevedere singole evoluzioni del sistema, ma possiamo tuttavia diagnosticare se un sistema è in buona o viceversa in cattiva salute.
Da un paradigma lineare a un paradigma circolare, quali sono le implicazioni sui diversi ambiti del sapere che questo “salto” comporta?
Se le relazioni all’interno del sistema sono poche e rigide, e se per di più prevalgono le relazioni conflittuali su quelle cooperative, se i singoli elementi del sistema posseggono a loro volta pochi gradi di libertà, allora il sistema è in cattiva salute, e nel corso del tempo tutta una serie di eventi esterni e imprevisti possono innescare un’involuzione o addirittura la distruzione del sistema stesso. Viceversa, se il sistema è composto da molte parti varie ed eterogenee, se queste parti intrattengono fra di loro relazioni molteplici e cooperative, se queste parti sono in grado di co-evolvere insieme, allora il sistema è in buona salute. Gli eventi esterni avranno prevalentemente un senso costruttivo, nel senso che potranno essere rielaborati dal sistema stesso per rafforzare la sua efficienza e la sua flessibilità.
Per quale ragione le aziende oggi stanno guardando con molto attenzione alla circular economy?
Perché le aziende si stanno rendendo conto che un’economia basata sull’eccessiva competizione nel lungo periodo può nuocere a tutti. L’età del “turbocapitalismo” negli ultimi decenni senz’altro ha prodotto grandi e rapidi successi, ma sul lungo periodo ha prodotto anche drammatici crolli e vere e proprie ondate di estinzioni aziendali. Il guadagno l’hanno avuto soprattutto pochi individui, i quali, navigando sulla cresta dell’onda, passando spesso da un’azienda all’altra, hanno rimpolpato il proprio portafoglio con le stock options di volta in volta conquistate e con investimenti fortunati dei capitali così resisi disponibili. Quindi alla fine c’è stato un trasferimento netto di capitali dalle collettività, cioè le aziende stesse, a pochi individui che non sempre hanno rimesso in circolo le loro ricchezze con investimenti adeguati: non a caso il mondo d’oggi è veramente paradossale, con la concentrazione di metà delle ricchezze mondiali in mano a pochissimi individui. Le aziende più intelligenti comprenderanno persino che in una visione più cooperativa e meno stressata le risorse umane possono diventare molto più ricche e molto più strategiche, l’azienda nel suo complesso più innovativa e più dinamica, le risorse a loro volta possono venire maggiormente valorizzate, e così via. Ecco, è questo un circolo virtuoso che dobbiamo innescare.
L’economia circolare mette in discussione anche il ruolo del denaro e della finanza, proponendo una diversa misurazione della ricchezza. Siamo preparati a questo ribaltamento?
Attenzione: non dico che si debba passare da economie fondate unilateralmente sul denaro e sulla finanza, quali sono quelle attuali, a un’economia fondata altrettanto unilateralmente sulle basi materiali ed energetiche e concepita in maniera statica, come se queste basi materiali ed energetiche fossero fisse. Il passaggio paradigmatico è tutt’altro: la ricchezza di una collettività, di una nazione e anche della specie umana nel suo complesso non è collocata nel possesso, ma nelle relazioni. Se il sistema economico attiva fra i suoi vari attori relazioni positive e cooperative, esso mostra maggiori capacità di innovazione, è in grado di operare meglio nei confronti della base materiale ed energetica, attuando maggiore risparmio, maggiore efficienza, maggiore disponibilità nell’inserire nei cicli economici quelle risorse che venivano trascurate. La transizione alle energie rinnovabili è, nello stesso tempo, uno stimolo e una conseguenza della diffusione delle economie circolari in diversi ambiti.
L’economia circolare sottende una metafora biologica, l’importanza della sostenibilità, il rispetto dell’ecosistema, l’idea del riuso. Il sistema dei valori di riferimento potrà risentirne?
Il riferimento alla biologia è più di un riferimento semplicemente metaforico. Sul piano delle società e delle economie umane, stiamo assistendo a una ricostruzione di una serie di strategie che sul piano biologico, e sul piano dei tempi lunghi della storia naturale, si sono rivelate vincenti, e addirittura si sono rivelate uno dei segreti stessi dell’incredibile ridondanza e resilienza della vita. Sul piano biologico c’è un concetto che esprime bene il riuso: è il concetto di ex-aptation: significa la possibilità di cooptare una struttura, nata originariamente per una funzione particolare o anche senza funzione alcuna (quindi come prodotto secondario di altri processi evolutivi) per nuove funzione che, di volta in volta, si rendono necessarie per affrontare un ambiente sempre mutevole. Sul piano molecolare, poi, abbiamo il concetto di bricolage molecolare: in ogni singolo genoma sono sempre presenti sequenze di Dna al momento ridondanti e senza funzione alcuna, che però diventano indispensabili quando, in seguito a cambiamenti ambientali, il genoma debba codificare nuove sequenze proteiche per le necessità vitali del momento.
Sul piano organizzativo e produttivo le aziende sono preparate a interpretare i tempi nuovi?
Negli ultimi decenni, a ogni nuova svolta dovuta all’innovazione tecnologica, soprattutto in campo informatico, si è avuto un grande rimescolamento nei rapporti di forza: aziende di grande successo nelle fasi antecedenti si sono trovate ridimensionate o addirittura sono scomparse, mentre i nuovi arrivati si espandono e tendono a sostituire chi si trova in difficoltà. Il motivo è chiaro. Esiste sempre una co-evoluzione tra il contesto aziendale, con le sue varie modalità organizzative, culturali e valoriali, da una parte, e dall’altra il contesto tecnologico e, naturalmente, il contesto dei consumatori del momento. Cambiando questi ultimi contesti esterni, la difficoltà aziendale è automatica, almeno se non si prendono le contromisure adatte a questa vera e propria “sindrome del successo”. Attenzione però: nella storia non c’è mai un destino già scritto. Significa che le aziende tradizionalmente importanti in un campo non sono inevitabilmente destinate a soccombere alle difficoltà conseguenti al cambiamento di paradigma. Ognuna di esse può divenire per tempo consapevole del problema e quindi può sapersi reinventare, tendendo presenti anche le modalità organizzative e valoriali tipiche di aziende più flessibili e innovative.
Il cibo è stato al centro dell’Expo. È una moda o c’è qualcosa di più profondo al di là delle spinte del momento?
Non penso sia una moda. È anzi rivelatrice delle caratteristiche basilari della nostra età globale, e anche della specie umana in generale. Segnalo solo quattro spunti di riflessione, il primo: nell’età moderna, dopo l’incontro colombiano del 1492, la prima forma di globalizzazione è stata quella del cibo. Già nel primo secolo dopo il 1492 sono cadute le barriere fra tutti i sistemi agricoli del mondo. Il che vuol dire che i prodotti di questi sistemi agricoli si sono ibridati. Le patate andine sono diventate un prodotto centrale nell’alimentazione sia europea che cinese; il pomodoro ha trasformato altrettanto radicalmente la gastronomia europea; il caffè, che viene dallo Yemen, ha trasformato radicalmente la stessa vita culturale e urbana delle grandi città d’Europa. L’alimentazione di ogni popolazione umana è diventata un fenomeno interculturale per eccellenza. Secondo aspetto: nell’alimentazione non si mescolano soltanto le materie prime, ma anche le tecniche e le ricette stesse che, sul piano locale, diverse tradizioni regionali e nazionali e, sul piano globale, diverse civiltà hanno concepito nel corso dei secoli. Questa messa in relazione di tradizioni differenti è un atto sommamente creativo, in cui emerge la personalità di chi cucina e, in maniera più indiretta, la personalità del fruitore che accede di volta in volta a varie forme di alimentazione. E qui emerge un’altra caratteristica essenziale della nostra età globale: il singolo individuo ha accesso a molteplici apporti generati in diversi spazi e in diversi tempi della storia del pianeta, ma li reinterpreta e li reinventa per il proprio percorso di vita individuale. In questo senso, tutto ciò che ha a che fare con il cibo esprime bene gli aspetti positivi dell’evoluzione culturale dell’età planetaria: coniugare tradizione con innovazione, creatività collettiva e creatività individuale.
Terzo aspetto?
L’interesse per il cibo ha anche radici più profonde. Sin dai tempi più antichi è proprio dell’umano integrare il bisogno dell’alimentazione, di per sé una pulsione naturale primaria, con una grande gamma di elementi simbolici, sociali, culturali, transindividuali. L’alimentazione è una via privilegiata per comprendere l’essere umano quale emergenza naturale: reinvenzione creativa di tanti elementi sconnessi del mondo naturale, che nelle culture umane hanno assunto un nuovo senso. Infine il diritto a una buona alimentazione per tutti gli esseri umani è alla base della lotta contro la povertà e la miseria. Anche se evidentemente non esaurisce la lotta contro la povertà e la miseria. Il drammatico problema della fame non è prodotto da una scarsità “naturale”, ma è determinato da incapacità e da cattive volontà organizzative, sia sul piano della produzione, sia sul piano della distribuzione. La possibilità di vincere la sfida del “buon cibo” per tutti significherebbe un grande passo in avanti per realizzare una visione delle società e delle culture umane basate su giochi cooperativi, in cui tutti vincono insieme, e non sui tradizionali giochi a somma nulla, in cui taluni vincono a scapito di altri che perdono. Credo che questa possa essere una buona definizione degli esiti più profondi di un’economia circolare: il passaggio da un’umanità basata su giochi competitivi a somma zero a un’umanità basata su giochi cooperativi a somma positiva. La nuova idea di progresso passa da qui.
“Diversità come forza, i rifiuti sono cibo, pensiero sistemico, fonti rinnovabili”, se si prova a cercare la semplice definizione di economia circolare vengono elencate queste come connotazioni essenziali. C’è molto del “pensiero complesso”, è un fatto positivo secondo Lei?
Le parole chiave elencate possono indicare molto bene, sul piano simbolico, gli orizzonti di una nuova, possibile reinvenzione dell’umanità, che possa definirsi come umanità propriamente globale, creatrice di una civiltà planetaria che faccia propria e che metta in relazione il meglio pensato e prodotto dalle tante culture umane nello spazio e nel tempo. È evidente che un’umanità che voglia sostentarsi all’attuale livello demografico e che voglia aprire un nuovo paradigma di relazioni co-evolutive con gli ecosistemi locali e con l’ecosistema Terra non può che passare dall’età delle energie fossili all’età delle energie rinnovabili. E solo il paradigma dell’economia circolare può sostenere questa transizione. È una transizione di civiltà e di pensiero difficile, ma necessaria e niente affatto impossibile, visti i recenti accordi di Parigi. A questo scopo si impone una nuova metacircolarità virtuosa fra il globale della transizione energetica e i tanti progetti locali attraverso i quali attualmente l’economia circolare si sta diffondendo. Questo è pensiero complesso messo in atto, non solo astratte teorie.
(L’IMPRESA n. 3/2016, pp. 46-48)