Studiare ai tempi

del coronavirus

Andrea Messaggi

Pastorale Universitaria Como

PU como


Ci siamo trovati online con otto studenti: uno scienziato motorio (lavoratore e frequentante già da prima del virus una Università telematica), due fisici (secondo e sesto anno in tesi), un ingegnere aeronautico, una storica dell'arte, tre letterati moderni (primo, quarto e quinto anno). Insomma, umanisti e scienziati, per usare una distinzione schematica e un po’ rozza. Mancano i medici e gli infermieri, ma ci sarebbe voluto un articolo tutto per loro. Qui abbiamo l’occasione di guardare in azione lo studente-studente, che non ha obblighi semi-professionali di Corsia. Le parti virgolettate sono riportate direttamente dagli appunti del nostro dialogo.

In questi due mesi si è molto parlato di scuola, ma poco di università, quasi fosse un mondo a parte, poco toccato in fondo dal Covid-19. È così? Cosa è successo in Università?
Non se ne parla, ma le università sono state molto toccate. Sono state tra le prime realtà lavorative a proporre una chiusura organica sul territorio lombardo (scelta rivelatasi lungimirante), il che ha implicato una grande capacità di risposta di fronte a una situazione nuova e piena di incertezze. In Statale poi – per citarne una – il 10% dei dipendenti è stato colpito dal virus. La chiusura delle biblioteche ha costituito un grave disagio per i ricercatori. Molti studenti, scivolati in serie ristrettezze economiche, non riescono a pagare le rette. Gli Atenei hanno stanziato dei fondi emergenziali in soccorso di queste situazioni, ma un interessamento concreto e adeguato da parte del Governo si è fatto aspettare molto. Si vedrà se l’attuazione degli Atti Ministeriali del “Rilancia Italia” servirà utilmente in questo senso. Anche senza entrare nel merito dei dati specifici, per noi studenti è palpabile un certo spirito polemico dentro i consigli degli organi di rappresentanza. È interessante però che questo malcontento venga molto più da alcuni rappresentanti degli studenti (e dagli studenti stessi), che dai professori.
In effetti, ciò che tutti abbiamo notato è la grande disponibilità mostrata dai docenti: nel reinventarsi attraverso le modalità telematiche,come nel venire incontro alle nostre numerose richieste. In diversi hanno concordato variazioni del programma di partenza dei corsi dialogando in videochiamata con i nostri gruppi-classe virtuali; altri hanno adattato strada facendo il formato delle lezioni; alcuni Atenei hanno adottato fin da subito un formato standard cui tutti si sono conformati. È emerso cioè che la prima preoccupazione è quella di un insegnamento che raggiunga lo studente aiutandolo a studiare e gli comunichi il più possibile il gusto insito nella materia. E, a pensarci, per molti era già così: la crisi del virus l’ha solo evidenziato con più chiarezza.
Ciò è tanto più gratificante se si osserva che l’emergenza ha fatto pressione a diversi livelli: le segreterie e i servizi informatici sono stati letteralmente subissati di lavoro durante i primi giorni della chiusura, i siti didattici andavano in crash e sono stati necessari interventiimmediati per ripristinarli; i professori hanno dovuto cominciare i corsi al buio e continuare a gestire il contatto con gli studenti; chi tra noi è rappresentante studentesco è stato ugualmentein prima linea, piùdel solito, come interfaccia (soprattutto su Facebook) tra gli organi istituzionali e gli altri studenti che si trovavano a casa in un limbo di incertezze; i Rettori stessi si sono mossi per far sentire agli studenti che l’università non li ha lasciati a sé stessi, in certi casi con mail quotidiane.

Com’è la vita di uno studente universitario al tempo della pandemia? Meglio studiare online o in praesentia? Meglio la propria camera o una affollata aula di studio universitaria? E perché?
Anche la vita dello studente, ovviamente, ha dovuto adeguarsi, ma in certi casi neanche troppo. Diciamo che lo studente “medio”, quello che segue i corsi e deve dare gli esami, è stato toccato nella misura in cui è più difficile (o impossibile) reperire i libri e fotocopiarli, con tutti i risvolti del caso, tra cui una maggiore spesa e uno studio davanti allo schermo prolungato oltre misura. Ma anche il tesista, che non ha più corsi da seguire o esami da dare, non rimane illeso: i colloqui si riducono ad appuntamenti su Skype, Teams etc., la bibliografia è irreperibile, i laboratori inagibili e per alcuni diventa necessario un cambio radicaledell’impianto di lavoro, passando magari da una tesi sperimentale a una puramente teorica. Ma posto questo, qual è il vero sacrificio richiesto allo studente dalla pandemia? Oppure, la pandemia ci ha risparmiato dei sacrifici?
Dal dialogo tra noi, ci siamo anche qui resi conto che questa situazione ha messo a nudo la base dell’iceberg: l’Università può essere vissuta nel paradigma della produttività, dell’efficienza nello studio, dell’erudizione cumulativa o anche del mero raggiungimento di un titolo. Oppure, con un’esigenza in più: una “crescita umana”, ossia vivere “un luogo in cui si pongono le domande”. Nel primo caso, l’evoluzione della didattica in senso telematico può anche essere un vantaggio: “camera mia è un posto più comodo di tante aule, e in certi casi ha anche un odore migliore”, ha detto uno di noi. E siamo tutti d’accordo sui grandi vantaggi sperimentati in questo periodo. Ma questo, basta? Per noi otto, no. E anche per molti altri vale la pena fare il sacrificio di prendere il treno, il tram o la bici sul pavé milanese per studiare insieme agli amici “che mi tengono sul pezzo”, e qualcuno ha anche l’esigenza del tetto fisico dell’Uni, del suo silenzioso formicolio vitale, del dialogo coi professori e dell’incontro con quel compagno “magari a pelle faticoso, ma che poi ha la tua stessa passione e ti restituisce il perché hai scelto di studiare quel che studi”. Ma una gran fetta degli studenti già prima non era interessata a tutto questo. E se non vuole investirci lo studente, ci investirà lo Stato?
Ciò non per mitizzare la vita in Università, che può essere comunque vissuta superficialmente, senza decisione e in una sorta di adolescenza protratta, ma per sottolineare il passo di coscienza che – forse – questa situazione ci ha aiutato a fare.

Cosa hai scoperto in questi mesi?
In tutto ciò, noi abbiamo scoperto un maggiore senso di responsabilità: quello scarto che già si sente passando dalla scuola secondaria all’Ateneo, di fronte alle urgenze del Covid-19 è diventato unachiamata quotidianaa scegliere se lasciarsi trasportare dagli eventi o vivere lo studio, il rapporto coi professori, la rappresentanza, con una nuova coscienza: quella di chi è protagonista grato di una difficile avventura. Come chi testimonia che “dover rispondere alle domande che ti intasano anche la chat privata (perché quando rispondi a un commento sui social capiscono che sei un rappresentante) mi ha aiutato a stare più attenta anche sul resto della vita”.