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    PEDAGOGIA DELL’ACCOMPAGNAMENTO EDUCATIVO /5

    Raffaele Mantegazza

    (NPG 2020-04-66)

    Homo sum, humani nihil a me alienum puto
    Publio Terenzio Afro

    La montagna è tutto: è fatica ma è anche gioia, è frescura ma è anche gelo, è rischio e perciò è avventura, è poter-fare ma è anche non-riuscire-a-fare o rinunciare-a-fare. La montagna è tutto perché è la vita, e così dovrebbe essere l’educazione. Accompagnare un ragazzo sulla strada dell’esistenza dovrebbe significare condurlo attraverso percorsi di liberazione ma anche di fatica, insegnargli a godere ma anche a soffrire. Tutto, non la metà di tutto. L’accompagnatore non può trattare la vita come una specie di menu del ristorante, nel quale si sceglie solo ciò che piace o come una specie di percorso a ostacoli predisposto da un sadico.
    È piuttosto triste assistere alla contrapposizione in campo educativo tra le posizioni di chi non elogia mai i ragazzi e si limita a criticarli e attaccarli (“altrimenti si adagiano”) e chi invece non vuole mai sottolineare i loro errori per blandirli illudendosi così di averli dalla propria parte. Il genitore che continua a rimproverare e a punire i figli magari portando altri ragazzi come esempi positivi e quello che invece nega l’evidenza davanti alle loro mancanze sono due facce della stessa medaglia: una educazione dimezzata che non si rivolge alla persona intera ma a una personalità spaccata in due a seconda delle convenienze. Ma l’uomo è uno, tutto intero, e deve essere accompagnato educativamente nella sua integralità.
    Da qualche tempo è di moda parlare di emozioni in ambito educativo. Ma educare alle emozioni ha senso se ad essere educate sono tutte le emozioni; paura, gioia, rabbia, speranza, ogni umano moto dell’animo deve essere compreso in un progetto educativo. Nulla di umano ci è alieno: la frase di Terenzio non è solo un monito filosofico ma può e deve essere anche un programma pedagogico. In montagna si va con corpo e anima, con paura e rispetto, con gioia e trepidazione.
    In un percorso educativo sottolineare esclusivamente la fatica significa mettere in moto un percorso cieco e far entrare i soggetti in un labirinto senza uscita. La fatica insensata distrugge una persona dall’interno, la rode come una malattia. Non è detto che si debba sempre sapere nei dettagli il motivo della fatica richiesta, non è detto che la meta che faticosamente occorre raggiungere sia del tutto chiara e visibile; a volte è la fiducia nell’educatore che permette al ragazzo di affrontare percorsi faticosi. Ma la fatica di per sé non è educativa, essa è un’esperienza che deve essere collocata su uno sfondo di senso, deve avere una finalità, deve stagliarsi sullo sfondo di una relazione. Altrimenti è fatica inutile, e non è il caso di dimenticare che Primo Levi la presenta come uno dei principali strumenti di spersonalizzazione utilizzati dall’anti-pedagogia dei campi di sterminio.
    La stessa cosa vale per il dolore: ogni sua mitizzazione, ogni sua estetizzazione è pericolosa. Il dolore, che è certamente un segno ineliminabile della finitudine e della creaturalità umana, ha un senso educativo se inserito in uno sfondo di significato. Eschilo diceva “È dolce, per chi soffre, sapere fino in fondo, e con chiarezza, il dolore che resta da patire”[1]; il dolore recintato fa meno male, ci permette di trascenderlo, almeno in parte. L’essere umano come ogni altro essere vivente tende a minimizzare il dolore e ad aumentare il piacere: insegnargli ad accettare il primo (purché si faccia di tutto per combatterlo) e a rimandare il secondo (purché il piacere non sia eliminato dall’esperienza della vita) è uno degli obiettivi dell’educazione, ma se si insiste solamente sulla presunta forza educativa del dolore quello che si ottiene è il Disagio della civiltà denunciato da Freud, ovvero uomini vuoti, incapaci di godere, pessimisti e nichilisti, per i quali il dolore è l’unico significato della vita. Persone di questo tipo non avranno remore a procurare dolore agli altri, perché lo considereranno come una realtà assoluta, staccata da ogni esperienza di piacere e di gioia.
    Le gambe che fanno male dopo la scalata ci fanno sentire il dolore per lo sforzo fatto, ci riconducono al senso dell’azione; in questo dolore è scritta una storia, è sintetizzata una scelta, è espressa una forza di volontà. Non abbiamo scelto di scalare la montagna per provare dolore ma senza questo dolore la scalata sarebbe stata meno appassionante; tanto valeva allora chiedere di asfaltare la strada e salire con un SUV o stare in casa propria a guardare sul web le immagini delle montagne.
    Allo stesso modo le rughe, segni del tempo, crepe nel vaso della vita, sono belle perché lasciano sul volto le tracce dell’esperienza: i vasai cinesi colavano l’oro nelle crepe dei vasi per realizzare manufatti unici, nei quali ad essere valorizzato era il segno della storia, le cicatrici del tempo. Invecchiare non è un triste destino, è accumulo di storia e di memoria, intrisa di bene e di male, di gioie e di dolori. Il senso dell’accompagnamento educativo non consiste nel non vedere gli ostacoli ma nello scegliere quali affrontare, quali scansare, e soprattutto nel coglierne il ruolo nel percorso che essi punteggiano,
    E la scalata comporta il rischio, quella ricerca delle emozioni forti che porta i ragazzi a gettarsi da un ponte, a farsi dei selfie sui binari con il treno in arrivo, a guidare come un pazzo a fari spenti nella notte per vedere se è poi tanto difficile morire (questi giovani di oggi, vero? Peccato che Emozioni è del 1970. Anche i grandi sono stati ragazzi, solo che non se ne ricordano, come diceva il Piccolo Principe). La questione semmai è un’altra: perché i ragazzi non trovano emozioni forti all’interno dei processi educativi? Che senso ha un progetto educativo che non mette i brividi?
    Ma l’accompagnatore sa mettere i brividi se lascia che sia l’ambiente a suscitarli. La montagna ci aiuta a capire che spesso occorre lasciare che siano le cose ad educare. È la montagna a decidere se la potrò affrontare oppure no, è lei che mi indica la strada per poter arrivare in cima. È la montagna che mi sconsiglia di partire perché le nuvole che la ricoprono sono segno di tempesta. Questo non significa ovviamente che l’accompagnatore non deve mai intervenire, ma sicuramente una delle sue prime competenze consiste nel saper leggere nelle cose il loro potenziale educativo; l’intelligenza dell’educatore sta nell’intus-legere, nel leggere-dentro le cose e nel capire come esse possano presentarsi davanti al ragazzo, quali sfide possano proporgli, quali percorsi possibili possano suggerirgli. È il principio dell’educazione negativa di Rousseau: fare in modo che sia la strada ad educare al viaggio, ma una strada preparata, scelta in anticipo, una strada che l’educatore ha in parte preselezionato, in parte predisposto. Una strada educante perché l’educatore ha scelto di renderla tale e ne ha sottolineato in questo senso ogni tornante, ogni buca, ogni slargo. Se poi la strada è artificiale perché creata dall’educatore, se essa è modificata dal suo intervento, come accade prima di una caccia al tesoro, poco male. L’educazione non è un fatto naturale, ma integralmente culturale.
    E intrecciata a tutto questo, nell’intrico emotivo che non sempre lascia distinguere la gioia dal dolore non c’è la conquista della vetta (che tristissimo modo di esprimersi) ma la gioia pura del non-far-niente una volta arrivati in cima: “Mi siederò tra le pietre e non dirò niente, prometto. Il tempo di riprendere respiro, mangiare due quadretti di cioccolata, sentirla sciogliere contro il palato. Inutile, a quest'ora, preoccuparsi di arrivare in vetta. Tra un attimo si scende. Adesso vorrei soltanto rimanermene tranquillo e guardarmi intorno, tutto intorno a me, da quella cima laggiù, ancora immersa nel sole, e noi due uomini al riparo di una cresta”[2]. La gioia dell’essere-arrivati è momentanea, dura un attimo, e per questo è una delle felicità più profonde che un essere umano possa provare.
    Forse sarebbe utile capire che il senso dell’educazione sta soprattutto nel gusto del percorso da compiere insieme, che non è la conquista di qualcosa, bensì la lenta e faticosa ma gioiosa scoperta di se stessi. Della totalità di se stessi: di quello strano impasto di felicità e paura che è l’umano, del quale nulla possiamo permetterci di ritenere alieno.

    NOTE

    [1] Eschilo, Prometeo incatenato, Marsilio, Venezia 2011, p. 110.
    [2] Michele Serra, “Walter”, in Il nuovo che avanza, Milano, Feltrinelli, 1990


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