Editoriale
Rossano Sala
(NPG 2020-04-4)
Sono connesso dunque esisto!
È sempre più una realtà che il mondo giovanile viva immerso nella nuova atmosfera offerta dalla connessione alla rete virtuale: la vita reale tende a coincidere con l’interazione senza interruzione con la rete, creando non semplicemente un doppione della vita “in carne e ossa”, ma un suo perfezionamento o una sua mutazione. Attraverso i personal media in qualunque momento si può essere contemporanei con tutti gli eventi che avvengono nel mondo (pensiamo, ad esempio, alle potenzialità di “Twitter” che ci rende partecipi in tempo reale degli eventi che accadono). Il concetto stesso di vita viene socializzato in un modo nuovo, in una forma deterritorializzata in cui lo spazio e il tempo assumono forme differenti rispetto all’esistenza passata.
In questo nuovo mondo ciò che viene a mancare radicalmente, dal punto di vista educativo, è la possibilità dell’assistenza nel senso classico del termine: per definizione i personal media sono individuali e prevedono un uso “asociale” e non accompagnato, perché l’educatore non può essere presente e non può quindi “assistere”. Se invece il personal media è utilizzato per relazionarsi ad altri – come di solito avviene –, attraverso un social network, allora in questo nuovo areopago è possibile che un singolo educatore o un’istituzione di pastorale giovanile sia presente, ma certamente in una maniera molto differente rispetto al passato: egli è presente, ma in forma leggera e amicale, paritaria e non gerarchica. È il giovane che decide con chi essere collegato e con chi relazionarsi: la privacy garantita dal personal media esclude di principio la presenza di un educatore e lascia il soggetto in situazione di sostanziale solitudine autoreferenziale nella gestione della propria relazione con le offerte della rete.
Il vero fulcro della decisione e dell’azione è il soggetto individuale ritenuto in genere responsabile e capace di decidere al meglio delle sue amicizie, delle sue frequentazioni e soprattutto delle sue azioni in rete. Sappiamo però, dai dati emergenti e soprattutto dall’esperienza educativa, che non è sempre così: gli adolescenti e i giovani appaiono troppe volte vittime sottomesse di questi strumenti più che gestori responsabili della loro “libertà virtuale”. Solo per fare un esempio, la diffusione a macchia d’olio della pornografia, del sexting e del gioco d’azzardo via internet sono piaghe del mondo giovanile – e non solo – che non si possono sottovalutare, ma emergono come segni di un autismo esistenziale e una relazione oggettivante che deve far riflettere seriamente la società nel suo insieme, nel momento in cui si vorrebbe proporre come società educante.
Continuare a pensare nell’era digitale
La rete allora, potremmo dire, non solo tendenzialmente ci rende più stupidi – in quanto indebolisce e riduce la capacità di lettura profonda della realtà e ci toglie quello spirito critico che ha bisogno di concentrazione e distanza riflessiva per essere vigile e reattivo – ma ci offre opportunità inedite e non filtrate di scadere in alcuni comportamenti che rischiano non solo di essere moralmente inqualificabili, ma di diventare patologici sotto ogni punto di vista, disgregando un tessuto sociale, culturale e morale condiviso che sempre fa da piattaforma ad una civiltà umana degna di questo nome.
Per i giovani questo non può che aumentare la fatica nello sforzo di diventare adulti, accordando la propria esistenza con le esigenze di verità, di bontà, di bellezza, di giustizia e di santità che risiedono nel loro cuore e che rischiano di essere sempre più schiacciate:
Alla fine, quello che è davvero importante non è tanto il processo del divenire quanto ciò che diventiamo. Negli anni Cinquanta Martin Heidegger osservò: “La rivoluzione della tecnica che ci sta travolgendo nell’era atomica potrebbe riuscire ad avvincere, a stregare, a incantare, ad accecare l’uomo così che un giorno il pensiero calcolante sarebbe l’unico ad avere ancora valore”. La nostra capacità di impegnarci nel “pensiero meditante”, che Heidegger vedeva come la vera essenza dell’umanità, potrebbe soccombere a un troppo rapido progresso. L’avanzata tumultuosa della tecnologia rischierebbe di sommergere quei raffinati pensieri, emozioni, e percezioni che nascono soltanto dalla contemplazione e dalla riflessione[1].
Un indebolimento e una maggiore fragilizzazione dell’umano sono delle conseguenze inevitabili del fatto che siamo sommersi da un’enorme quantità di materiale comunicativo, che non abbiamo il tempo di valutare, ma che siamo costretti ad assumere in forma bulimicamente irriflessa. Il sovraffollamento della carta stampata, delle centinaia di canali televisivi e di connessioni continue segnano certamente una vera e propria aggressione mediatica organizzata da cui difendersi e prendere distanza critica. Capacità che, senza ombra di dubbio, nessun adolescente e nessun giovane possiede per natura propria e nemmeno per grazia infusa. Ciò che fino a questo momento risulta essere assodato è che «siamo di fronte a una crisi di proporzioni epocali: si sta verificando una sorta di sfaldamento dello statuto antropologico tradizionale dell’individuo»[2].
La questione dell’identità
L’identità dei giovani – se di “identità” si può ancora parlare lecitamente – si forma sempre più in ambito mediatico, e in una forma sempre più legata all’acquisto e al consumo di prodotti continuamente propinati dal mercato globale: il «processo di definizione identitaria si trasforma, per le nuove generazioni, in un percorso fluido e reversibile, nell’ambito del quale spetta al soggetto decidere, di volta in volta, quali aspetti del proprio sé mettere in scena»[3]. La nuova relazionalità emergente è di tipo orizzontale e antiautoritaria, perché poggia sulla centralità degli amici e del gruppo dei pari però in funzione della crescita esponenziale del sé, perché nella postmodernità mediatica ognuno è rinviato a sé alla stessa maniera in cui si è davanti ad uno specchio: così
siamo certamente davanti ad un sé dinamico e progettuale, ma che, proprio in virtù di questa inedita centralità, rischia di cadere preda di un eccessivo soggettivismo, di una sorta di egolatria, smarrendo così il senso profondo del dialogo con Alter[4].
In tutto questo percorso, che può trasformarsi in un vicolo cieco, assume una centralità mai vista il mondo del consumo in ordine alla definizione della propria identità, che sempre meno dipende dalle relazioni reali e sempre più dal mondo virtuale: «L’atteggiamento di chi va in rete è talvolta più simile a quello del consumatore che non a quello del membro di una vera comunità»[5]. Tale consumo è continuamente sostenuto da un mercato costruito in base ai risultati delle ricerche che avvengono attraverso i gusti e le preferenze attestati dai social network, che così trasformano tragicamente i giovani in vittime dei loro stessi desideri[6]:
Gli oggetti diventano marcatori dell’identità, uno strumento, in altre parole, che gli individui possono utilizzare per segnalare la propria posizione nel mondo, per interagire con gli altri e stabilire relazioni significative; è evidente come tali dinamiche riguardino, in particolare le generazioni dei più giovani, la cui identità in formazione spazia con naturalezza fra consumi eterogenei, sperimentando grazie ad essi legami inediti e appartenenze condivise. […] Di fatto, a fronte della liquefazione delle principali fonti normative e di senso, nella società contemporanea sono soprattutto i consumi ambientati nel tempo libero a fornire ai più giovani i materiali simbolici ed espressivi da utilizzare nel percorso di costruzione del sé[7].
L’affacciarsi di nuove forme di idolatria
Questo ci porta a pensare che insieme alle possibilità enormi che questi strumenti posseggono, vi è la realistica possibilità di essere di fronte a una nuova forma di idolatria. Effettivamente «oggi si può comunicare virtualmente, a livello planetario, anche senza sapere niente. E anche senza avere niente da dire»[8]. Ciò che oggi accade è processo inarrestabile dello “strumento” che tende a trasformarsi in “padrone” e in “gestore” non solo della comunicazione, ma dell’esistenza stessa:
L’interesse del mezzo è quello di non lasciarci mai soli: se dovesse semplicemente ridursi a strumento della nostra comunicazione, come apparato che la facilita e la estende, la potenzia, il mezzo sarebbe in nostro potere. E la comunicazione dipenderebbe sostanzialmente da noi. [Invece] L’interesse del mezzo […] ha enormemente sviluppato la sua sovranità sui contenuti: da mediatore a sensale con diritto di intermediazione; da sensale a proprietario, e da proprietario a produttore e venditore in proprio della comunicazione[9].
Oggi per esistere si deve essere connessi e interattivi attraverso la chat, il blog, il social media. Guai a chi si sottrae a questa logica o pensa di vivere altrimenti. In tal modo sembra essersi realizzato il modello della comunicazione libera e totale, in cui uno può dire sempre quello che pensa senza alcun vincolo di sorta. Ma, al di là di un primo e superficiale sguardo, le cose non stanno proprio così:
In apparenza è il trionfo del dialogo e della relazione. La comunicazione diventa informale (in tutti i sensi) e diretta. La libertà di esprimersi è massima, però tutto deve essere condiviso. È il modello della “comune”, rapidamente fallito nella realtà, che trova il modo di realizzarsi e di durare come “condivisione” di amicizia nella dimensione virtuale. Dalla comunità al gruppo, dal gruppo all’aggregazione. Più in basso c’è soltanto l’assemblaggio[10].
Il mondo virtuale appare liberante, ma l’idolo consiste esattamente nel creare uno spazio di libertà fittizia e limitata, appunto nella libertà all’interno del cloud: «Uno si sente euforicamente libero, però lì dentro (finché sta dentro): cerca di starci più che può, proprio come nell’estasi mistica»[11]. Così tutto è nudo e visibile sulla rete e il progetto del “panottico” sembra realizzato: sanno dove siamo, cosa facciamo, come pensiamo, come conquistarci. In cambio della realizzazione di una presenza simultanea nella storia vengono realizzati progetti commerciali che accrescono il dominio capitalistico e il servilismo dei giovani a mode che continuamente assumono la forza irresistibile che viene dal desiderio di colmare quel vuoto che invece è caratteristica strutturale dell’umano e che solo attraverso l’esperienza dell’autentico amore – che in verità non è certamente virtuale – può colmare. Così l’idolo «rispecchia in proprio la divina mania di onnipotenza cui è stata piegata l’idealità autoreferenziale del soggetto moderno: avere il controllo mentale (e virtualmente pratico) di tutto, per essere veramente libero da tutto»[12].
L’indicazione magisteriale di fondo
La strategia per uscire dalla possibile deriva idolatrica degli strumenti di comunicazione di ultima generazione è riconoscere innanzitutto la loro funzionalità strumentale, a cui devono essere riportati e riposizionati senza indugio. Insomma, si tratta della vecchia e sempre nuova questione su chi sia il “signore del sabato” di evangelica memoria[13], ma riprodotta in una versione aggiornata:
La raccomandazione ripetuta del magistero pastorale cristiano, che insiste sulla natura strumentale del dispositivo mediatico della comunicazione, da porre al servizio della verità delle cose e del rispetto delle persone, ha potuto sembrare ingenua. Non lo era. E oggi, più che mai, questa si rivela essere la prima mossa decisiva della lotta all’idolo. Imporgli di riposizionarsi, socialmente e concettualmente, nel suo rango di servizievole automatismo, restituendo contemporaneamente ai soggetti reali della sua gestione, che sono sempre umani in carne e ossa, l’intera responsabilità etica del suo esercizio[14].
La riscoperta del linguaggio umano nella sua ricchezza ed espressività, che si sta sempre più perdendo, è la prima strategia vincente: una relazionalità ricca, affettuosa, comunitaria, capace di ridare ragione dell’umano nella sua genesi e nel suo cammino di ominizzazione. Il linguaggio non è una cosa tra le altre, ma segna l’emergere dell’homo sapiens nella sua caratteristica più peculiare di dare voce e forma alla propria interiorità, ovvero agli affetti e ai legami che gli danno vita e lo tengono in vita. Ora tutto ciò sta subendo una trasformazione devastante, perché «la regola d’oro dell’ossessione comunicativa (“purché se ne parli”) ha preso il senso della propaganda che favorisce l’esibizionismo e il commercio»[15]. Ritrovare invece il gusto del silenzio, del raccoglimento, della contemplazione capace di discernere che cosa è “bene dire” e ciò che invece è “male dire” significa ritrovare quel senso dell’umano che non possiamo permetterci di perdere, perché «nella realtà umana, esiste anche la dignità della discrezione, del rispetto dell’altro, della tutela del fraintendimento, delle condizioni necessarie per la condivisione di ciò che è importante, intimo, profondo, complesso»[16].
Non di sole connessioni virtuali vive l’uomo!
Il senso critico dell’educatore di vivere in guardia e nel mettere in guardia circa la non neutralità di questi strumenti deve quindi essere più esperto che mai, perché «il dispositivo non funziona come un’evoluzione elettronica del piccione viaggiatore, che si limita a portare più rapidamente a destinazione quello che hai scritto nel messaggio»[17]. Se gli adulti sono maturi nella gestione degli strumenti di comunicazione sociale, possono sussistere le condizioni per una buona alleanza in vista di un utilizzo ecclesiale delle potenzialità della rete, corresponsabilizzando i giovani stessi, che possono così mettere la loro competenza multimediale e unirla alla sapienza degli adulti, che in genere non padroneggiano questi strumenti di ultima generazione. Si tratta quindi di un nuovo fronte di corresponsabilità apostolica tra giovani e adulti da far maturare sempre più.
Ciò che ai giovani fa assolutamente bene è una buona testimonianza degli adulti sul buon uso degli strumenti mediatici: cioè vedere un gruppo di adulti capaci di utilizzare con intelligenza critica e responsabilità etica gli strumenti di comunicazione. Purtroppo non è raro trovare in taluni “adulti” una vita dipendente e schiavizzata da questi strumenti. Il mondo degli adulti risulta per alcuni aspetti più impreparato e anche più soggiogato da questi strumenti, quando ne entra in possesso.
Va anche detto che questi strumenti sono di utilizzo individuale, quindi è difficile testimoniare sul campo come si utilizzano, tanto quanto è difficile essere presenti e assistenti come educatori in questo settore. Dal punto di vista pastorale è quindi importante non solo un cammino di messa in guardia dei giovani, ma soprattutto una vera e propria catechesi agli adulti che la Chiesa oggi non può eludere: come Gesù ha proclamato lungo le strade della Galilea che “non di solo pane vive l’uomo”, così oggi l’annuncio chiaro e distinto che “non di sole connessioni virtuali vive l’uomo” è da considerarsi una buona novella che libera i cuori e li reindirizza nella giusta direzione. Tante persone hanno davvero bisogno di sentirselo dire, per ridestarsi da questo terribile incantesimo che ci allontana dalla vita reale, relegandoci in un cyberspazio che riabilita molto quelle eresie gnostiche che i padri della Chiesa hanno aspramente combattuto facendo leva sull’idea e sulla realtà dell’incarnazione di Dio, che sola mette il sigillo sulla consistenza e sulla verità della carne, della materia e della creazione. Insomma, il celebre assioma per cui caro cardo salutis[18] non può essere per nulla eluso e ridotto, nemmeno in questo cambiamento d’epoca!
Solo il cristianesimo, religione dell’incarnazione, ha la forza di combattere il nuovo idolo dello spiritualismo disincarnato che rischia di asservire gli uomini del nostro tempo, allontanandoli dalla concretezza del loro prossimo e dal Dio fatto uomo. In tal modo evidentemente gli uomini si allontanano da se stessi, perché la loro identità propria non è pensabile al di là di questi legami fondanti e fondamentali con il Dio creatore e con il prossimo.
Annunciare Cristo nell’era digitale
Incontrando i membri del Pontificio Consiglio dei Laici il 7 dicembre 2013, radunati in seduta plenaria per confrontarsi sul tema Annunciare Cristo nell’era digitale, papa Francesco ha affermato che il mondo digitale è
un campo privilegiato per l’azione dei giovani, per i quali la “rete” è, per così dire, connaturale. Internet è una realtà diffusa, complessa e in continua evoluzione, e il suo sviluppo ripropone la questione sempre attuale del rapporto tra la fede e la cultura. Già durante i primi secoli dell’era cristiana, la Chiesa volle misurarsi con la straordinaria eredità della cultura greca. Di fronte a filosofie di grande profondità e a un metodo educativo di eccezionale valore, intrisi però di elementi pagani, i Padri non si chiusero al confronto, né d’altra parte cedettero al compromesso con alcune idee in contrasto con la fede. Seppero invece riconoscere e assimilare i concetti più elevati, trasformandoli dall’interno alla luce della Parola di Dio. Attuarono quello che chiede san Paolo: “Vagliate ogni cosa e tenete ciò che è buono” (1Ts 5,21). Anche tra le opportunità e i pericoli della rete, occorre “vagliare ogni cosa”, consapevoli che certamente troveremo monete false, illusioni pericolose e trappole da evitare. Ma, guidati dallo Spirito Santo, scopriremo anche preziose opportunità per condurre gli uomini al volto luminoso del Signore.
Tra le possibilità offerte dalla comunicazione digitale, la più importante riguarda l’annuncio del Vangelo. Certo non è sufficiente acquisire competenze tecnologiche, pur importanti. Si tratta anzitutto di incontrare donne e uomini reali, spesso feriti o smarriti, per offrire loro vere ragioni di speranza. L’annuncio richiede relazioni umane autentiche e dirette per sfociare in un incontro personale con il Signore. Pertanto internet non basta, la tecnologia non è sufficiente. Questo però non vuol dire che la presenza della Chiesa nella rete sia inutile; al contrario, è indispensabile essere presenti, sempre con stile evangelico, in quello che per tanti, specie giovani, è diventato una sorta di ambiente di vita, per risvegliare le domande insopprimibili del cuore sul senso dell’esistenza, e indicare la via che porta a Colui che è la risposta, la Misericordia divina fatta carne, il Signore Gesù.
Sappiamo come l’educazione avviene a monte rispetto all’intenzionalità diretta verso di essa: anche chi opera per fini diversi da quelli educativi in realtà educa, anche se non sempre in modo consapevole e responsabile. I mass-media, i social-media e i personal-media, pur non manifestando una coscienza educativo-pastorale e non avendo questo come fine, in realtà costituiscono una piattaforma educativa di grande incisività e di sicuro interesse per la pastorale giovanile. Sono certamente un nuovo areopago per l’annuncio del Vangelo ai giovani, per il semplice fatto che è un ambiente reale in cui vivono quotidianamente. La comunicazione sociale è da considerarsi allora, oggi più che mai, una “nuova frontiera” per la pastorale dei giovani, con le sue difficoltà e le sue promesse. Certamente difficile ed entusiasmante, necessaria e pericolosa, possibile e faticosa.
Tali convinzioni rendono ampiamente conto dell’importanza del Dossier che presentiamo in questo numero di NPG: la sapiente regia di Luca Peyron ci guiderà a leggere il fenomeno ad una certa profondità. Perché prima di trovare soluzioni pastorali immediate siamo chiamati a coltivare uno sguardo profondo sul cambiamento d’epoca che stiamo vivendo e che ha nel mondo digitalizzato – con tutti i suoi annessi e connessi – la sua massima punta di avanzamento.
NOTE
[1] N. Carr, Internet ci rende stupidi? Come la Rete sta cambiando il nostro cervello, Raffaello Cortina, Milano 2011, 261-262. «È difficile resistere alle seduzioni della tecnologia, e nella nostra epoca dell’informazione istantanea i benefici della velocità e dell’efficienza non sono nemmeno in discussione. Ma io continuo a sperare che non ci lasceremo spingere senza alcuna resistenza nel futuro che gli ingegneri elettronici e gli informatici stanno progettando per noi. […] Sarebbe molto triste se dovessimo accettare senza discussioni l’idea che gli “elementi umani” sono fuori moda e superflui, specialmente se si tratta di alimentare le menti dei nostri figli» (ivi, 264).
[2] P. Barcellona, La parola perduta. Tra polis greca e cyberspazio, Dedalo, Bari 2007, 81.
[3] G. Roberti, Il senso dei giovani per il consumo. Nuove generazioni, identità e relazioni sociali, Bonanno, Acireale - Roma 2011, 13.
[4] Ivi, 62-63. «È certamente vero che questo nuovo modello di socialità è caratterizzato da un forte individualismo. Si sta soli davanti al monitor, difficilmente si condivide con altri la comunicazione in rete» (M. Aime - A. Cossetta, Il dono al tempo di internet, Einaudi. Torino 2010, 37).
[5] Ivi, 115.
[6] È importante sottolineare che nel social network di solito si entra “gratuitamente” e si produce ricchezza attraverso la raccolta di “desideri” che vengono poi venduti ad aziende di marketing e utilizzati per progettare nuovi oggetti da immettere sul mercato dei consumi. Quindi si entra gratis, ma i “desideri” espressi vengono venduti a caro prezzo!
[7] G. Roberti, Il senso dei giovani per il consumo. Nuove generazioni, identità e relazioni sociali, 73; 80.
[8] P. Sequeri, Contro gli idoli postmoderni, Lindau, Torino 2011, 55.
[9] Ivi, 55-56.
[10] Ivi, 57-58.
[11] Ivi, 59. Sempre interessante risulta essere il film The Truman Show, che mostra senza attenuanti il significato di un’esistenza in un mondo monadico e perfetto, ma fittizio ed esibito.
[12] Ivi, 60.
[13] Cfr. Mt 12,1-14.
[14] P. Sequeri, Contro gli idoli postmoderni, 63.
[15] Ivi, 67.
[16] Ivi, 56.
[17] Ivi, 63.
[18] Tertulliano, De resurrectione mortuorum VIII, 6-7.