Scenari della post-modernità: tra rischi e risorse

Inserito in NPG annata 2016.


Giuseppe Savagnone

(NPG 2016-03-8)

Per non rivolgerci a interlocutori inesistenti

Non sempre è chiara, negli operatori pastorali, la consapevolezza che il clima culturale in cui oggi ci troviamo a vivere e ad annunziare il Vangelo è profondamente cambiato nel giro di questi ultimi decenni, al punto da configurare una stagione radicalmente nuova, definita da alcuni “post-moderna” (alcuni preferiscono “iper-moderna”, altri parlano di “tarda modernità”). Con questa espressione, a dire il vero, più che una indicazione positiva, si dice soltanto che la cultura “moderna”, da quasi cinque secoli dominante nella nostra civiltà, è ormai al tramonto, anche se continua in molti modi a far sentire il suo influsso, e che lascia il posto a un futuro così indefinito da non potere ancora essere chiamato per nome.
A noi è chiesto di vivere in questo tempo di radicale transizione e - senza chiudere gli occhi sui nuovi problemi e sui rischi che comporta - di valorizzarne le ricchissime potenzialità. Si tratta di essere fiduciosi nel Dio che «chiama all’esistenza le cose che non esistono» (Rm 4,17) – il futuro! – e guardare con lucidità, ma anche con simpatia, al nuovo orizzonte di senso e di valori che si delinea in sostituzione di quello del passato. Perché è in questo contesto che l’impegno dell’evangelizzazione deve collocarsi, se non vogliamo rischiare di rivolgerci a interlocutori inesistenti e di avere come destinatari del nostro messaggio solo le proiezioni del nostro ritardo culturale.
È appena il caso di dire che un quadro esauriente delle trasformazioni in atto sarebbe impossibile in questa sede. Con una notevole dose di semplificazione, proviamo a indicarne tre, fra le più significative e perciò adatte anche ad evidenziare la nuova chiave di lettura che qui vogliano proporre.

LE METAMORFOSI DELLA RAGIONE

Oltre il razionalismo

Il pensiero moderno aveva conosciuto l’alternativa tra un razionalismo, che pretendeva di abbracciare senza residui la realtà nelle sue innumerevoli sfumature, e uno scetticismo forse troppo radicale per poter essere vissuto nella propria esperienza concreta. Entrambi, in ultima istanza, erano varianti di un modo di concepire la ragione umana che aveva il proprio modello nelle scienze matematiche. Da qui la convinzione che la conoscenza umana dovesse dar luogo a «idee chiare e distinte» (Descartes), dissipando con la sua luce abbagliante le tenebre della superstizione (Illuminismo), in modo da scoprire finalmente i segreti della natura (esaltazione della scienza) e le leggi della storia (Storicismo). A chi si opponeva a questo modello onnicomprensivo non restava che contrapporle un dubbio scettico che metteva in dubbio ogni possibilità conoscitiva (Hume): o tutto o niente.
A questo modello di ragione oggi se ne è sostituito uno estremamente più duttile, che non le attribuisce il potere di farsi una rappresentazione esauriente della realtà, ma solo di elaborare delle costruzioni provvisorie, che consentono di darne delle interpretazioni sempre inadeguate, dunque provvisorie e rivedibili, in un processo di approssimazione mai compiuto. Il soggetto, qui, non è più la Ragione, ma l’uomo concreto nella sua finitezza, situato in un dato contesto esistenziale, che è anche il suo punto d’osservazione e che costituisce perciò, al tempo stesso, il limite e la condizione di possibilità del suo osservare.
Questo soggetto non pretende più di risalire al fondamento ultimo delle cose, né di stabilirne la verità assoluta, ma neppure accetta di definirsi scettico, perché valorizza la stessa finitezza del proprio approccio conoscitivo come un risvolto inevitabile del suo carattere intrinsecamente umano. Dietro formule come «pensiero debole», «nuova retorica», «circolo ermeneutico», si delinea, in mille sfumature diverse, la prospettiva di un sapere che non ha rinunziato ad essere razionale solo perché non può riprodurre gli asettici procedimenti della matematica, ma che sa chinarsi a raccogliere e a custodire i frammenti di senso e di verità che trova disseminati nei fenomeni, pur consapevole di non poterli mai ricondurre a una sintesi esaustiva.

La mutata concezione della scienza

Mentre la pretesa che la ragione possa ingabbiare nei suoi procedimenti logici la realtà si è rivelata via via un’illusione, si sono evidenziati anche i limiti della conoscenza scientifica, che nell’età moderna era stata spesso contrapposta alla fede come emblema della razionalità e del suo potere di emancipare l’uomo dalle superstizioni. La scoperta che le verità scientifiche sono comunque paragonabili a costruzioni su palafitte (Popper), e che l’oggettività dell’osservatore imparziale è solo un mito, perché in effetti il suo stesso sguardo modifica il dato mentre lo esamina (Heisenberg), ha fortemente ridimensionato quelle pretese. Per contro, si è sempre più riscoperto il senso del mistero che pervade la realtà e l’esigenza, da parte dell’uomo, di mantenersi nei suoi confronti in un atteggiamento di apertura, rinunziando alla pretesa di “catturarlo” nel suo linguaggio. È questo il senso del perentorio invito contenuto nella settima, laconica tesi - l’ultima - del Tractatus logico-philosophicus di Wittgenstein: «Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere»[1].
Oggi ci sono, è vero, per altro verso, dei rigurgiti legati al naturalismo, che pretende di ridurre tutta la realtà al mondo fisico e che si avvale della teoria darwiniana dell’evoluzione e dei progressi delle neuroscienze per fornire una visione dell’essere umano fortemente riduzionista. Ma, senza voler sottovalutare queste componenti neo-scientiste e materialiste, che pure sono presenti in un panorama inevitabilmente variegato com’è quello della cultura contemporanea, si può dire che complessivamente oggi il modo di concepire la ragione è decisamente più aperto che nella modernità alla sfera dell’invisibile e dell’ineffabile presenti nel mondo della vita. Da questo punto di vista c’è un oggettivo avvicinamento della cultura post-moderna all’idea, propria del pensiero cristiano, che la vera razionalità è quella che sa riconoscere la propria finitezza.

Tra umiltà e “politeismo”

Questa nuova percezione della povertà della ragione può contribuire, peraltro, al superamento di una certa teologia razionalista del passato, che credeva di poter catalogare le verità di fede stringendole nelle sue formule e offriva del cristianesimo l’immagine distorta di uno schedario di “risposte” belle e fatte, perfettamente esaurienti, ad ogni sorta di problema. Dal clima culturale post-moderno l’evangelizzazione può essere aiutata a ricordare che il suo compito non è di chiudere, ma di aprire gli spazi del mistero e che, davanti alle angosciose domande degli uomini, il cristiano è chiamato, piuttosto che a liquidarle in nome di pretese sicurezze, come credettero di poter fare gli amici di Giobbe, a condividerle umilmente, situandole nell’orizzonte dell’ascolto e della speranza.
Per contro, però, bisogna riconoscere che in questa “umiltà” della razionalità post-moderna si può nascondere l’insidia di una più sottile indisponibilità: nella misura in cui l’ammissione dei propri limiti diventa rinunzia sistematica alla prospettiva di assolutezza, essa finisce a volte per dar luogo a una nuova chiusura. Una ragione che si trincera nella propria debolezza può dire “no” a Dio quanto quella che, in passato, ostentava la propria potenza.
Perciò anche i problemi dell’evangelizzazione, sotto questo profilo, sono diversi da quelli che essa aveva misurandosi con lo scientismo dominante e con l’ateismo che ne era il corollario. Oggi il pericolo che i nostri contemporanei corrono non è di non credere in Dio, ma nel credere che tutto sia dio, restando sostanzialmente agnostici, nella loro disponibilità alla ricchezza e complessità della vita, riguardo alla verità ultima della religione. Come aveva previsto Max Weber, oggi, assistiamo al tramonto del monoteismo che aveva caratterizzato la nostra civiltà e al ritorno di un politeismo in cui «gli antichi dèi, spogliati del loro fascino personale e perciò ridotti a potenze impersonali, si levano dalle loro tombe, aspirano a dominare sulla nostra vita e riprendono quindi la loro eterna contesa» [2].
Successo, denaro, sesso, potere, e altre cose ancora, si dividono il ruolo che un tempo era stato del Dio cristiano e, senza eliminarlo del tutto, coesistono con Lui nell’esistenza delle persone, che perciò, anche quando si ritengono “credenti”, lo sono anche in questi altri valori e si trovano di volta in volta a decidere a quale di essi dare la precedenza nelle loro scelte concrete. La ragione rinunzia a stabilire gerarchie in funzione di un Assoluto e si accontenta di dare un senso provvisorio al relativo.

L’ambivalenza della ragione strumentale

Non si può concludere questo quadro senza aggiungere che, contemporaneamente al processo di trasformazione prima descritto, si è andato sempre più rafforzando e affermando un modello alternativo di razionalità - già elaborato nella modernità, ma ora sospinto in avanti dal vorticoso progresso della tecnica - , che è quello della ragione strumentale. Con questa espressione si intende quella razionalità che, rinunziando a stabilire delle verità e dei valori, si esercita nell’individuazione e nel calcolo dei mezzi che possono consentire di realizzare determinati obiettivi.
Qui non si tratta tanto di conoscere i fini, quanto di garantire l’efficienza dei mezzi. È la ragione che si esprime nella tecnica, il cui obiettivo non è contemplativo, ma punta al dominio della natura in vista di scopi pratici. Ed essa ormai ha colonizzato anche la scienza (tanto da dar origine al neologismo sintetico “tecnoscienza”), piegandola alle proprie logiche sia nel suo modo di procedere – sempre più legato a quel “fare” che è l’esperimento - , sia nei suoi obiettivi, sempre più giustificati dalla possibilità di applicazioni industriali e commerciali.
Anche sotto questo profilo la trasformazione post-moderna della razionalità contribuisce a cambiare i destinatari dell’evangelizzazione. Si pensi alla comunicazione, dove gli strumenti tecnici sono diventati sempre più fondamentali e stanno trasformando il modo di pensare e di vivere delle persone, al punto da poter parlare, ormai, di “nativi digitali”, abilissimi nell’uso degli strumenti comunicativi, molto meno nell’elaborare contenuti degni di essere comunicati. Dove non è solo il mezzo che cambia, ma coloro che lo usano. Perché, come ha scritto Galimberti, «la domanda non è più: “Che cosa possiamo fare noi con la tecnica?”, ma: “Che cosa la tecnica può fare di noi?”»[3].
Sarebbe peraltro assurdo limitarsi a recriminare su queste trasformazioni, ignorandone gli aspetti positivi, di cui anche i nostalgici del passato ormai non saprebbero fare a meno. Basti pensare, per quanto riguarda l’evangelizzazione, al fatto che, grazie alle nuove tecniche della comunicazione, si è realizzata la grande profezia cristiana relativa all’unificazione dell’umanità in un solo grande popolo. Sta a noi far sì che l’anima di questo immenso corpo sia lo Spirito e il suo capo Cristo.

OLTRE IL SOGGETTO MODERNO

La dissoluzione dell’io

Anche il modo di concepire il soggetto nella post-modernità è profondamente diverso da quello dell’epoca moderna, che lo aveva enfatizzato, fino al punto di farne il centro del mondo. I pittori ne hanno raffigurato il volto facendone risaltare la personalità. I poeti e i romanzieri ne hanno narrato gli amori e le vicende. I musicisti ne hanno cantato gli stati d’animo. I filosofi lo hanno descritto come un io auto-cosciente (Descartes), misura, con la propria razionalità, del bene e del male (Kant), oppure come homo faber, artefice, con la prassi, della sua storia (Marx).
Significativo il modo in cui la modernità ha concepito il rapporto tra uomo e animali. Né la civiltà classica né il Medioevo avevano mai messo in dubbio che anche questi ultimi avessero un’anima, anche se non spirituale. È stato il pensiero moderno che, identificando ormai l’anima con la coscienza di sé - di cui solo l’essere umano è provvisto - ne ha negato l’esistenza nelle piante e negli animali, riducendoli a semplici “cose” da usare. Il soggetto umano è rimasto così l’unico protagonista e signore di un universo da cui si era ormai separato per poterlo meglio dominare e manipolare a suo piacimento.
Poi è venuto Nietzsche, che già sul finire dell’Ottocento dichiarava che l’io è soltanto «una favola, una finzione, un gioco di parole» [4], una maschera (questo era il senso del termine latino “persona”) dietro cui si nasconde un flusso caotico di cieche pulsioni e di percezioni frammentarie. Un messaggio che ha trovato immediato riscontro negli studi, di poco posteriori, di Sigmund Freud che smascheravano l’oscura presenza, sotto il velo della coscienza, di un inconscio dominato da meccanismi incontrollabili, a cui non si addice il nome di “ich” (“io”), bensì quello di “es” (“esso”), terza persona neutra.
Si capisce perché, in questa prospettiva, ben lungi dall’essere visto come l’espressione di un’Autocoscienza assoluta, l’uomo non sia altro che un essere finito, “gettato-nel-mondo” e che sperimenta ogni giorno con angoscia la vanità delle sue scelte (Heidegger).
In questa direzione si muovono, del resto, i progressi della riflessione scientifica su di lui (psicologia, sociologia, antropologia culturale, etc. ). Come ha scritto un notissimo antropologo, Claude Lévi Strauss, «il fine ultimo delle scienze umane non consiste nel costituire l'uomo, ma nel dissolverlo»[5], scomponendolo nei vari aspetti particolari che delineano i rispettivi oggetti di studio.
Un colpo decisivo all’antica idea di “soggetto” è venuto dal pensiero femminista, secondo il quale, come spiega una sua autorevole rappresentante, Adriana Cavarero, «il soggetto cartesiano uno, reale, razionale e universale, polverizzandosi in molti frammenti, instabili e senza centro, non solo mostra illusoria la sostanza dell’Uomo, ma anche la pretesa realtà del sé. Da un punto di vista radicale, il sé diventa un vuoto attraversato da molteplici identità, un punto provvisorio del loro movimento vorticoso»[6].

Una nuova percezione del sé

Non è solo un discorso astratto. Ciò corrisponde a un sempre più diffuso modo di percepire la soggettività. Scrive ancora Lévi Strauss: «Vedo me stesso come il luogo in cui qualcosa accade, ma non v’è nessun “io” né alcun “me”. Ognuno di noi è una specie di crocicchio ove le cose accadono. Il crocicchio è assolutamente passivo: qualcosa vi accade. Altre cose, egualmente importanti, accadono altrove. Non c’è scelta: è una questione di puro caso»[7].
Per la verità, già nella filosofia moderna l’esaltazione incondizionata dell’io aveva provocato la reazione di pensatori come Marx e Kierkegaard, che avevano richiamato l’attenzione sulle varie forme di scissione – il termine che essi usano è “alienazione” -, che lo frammentano. Ma questi autori consideravano l’alienazione un fenomeno patologico da superare, dando per scontato che l’essere umano sia se stesso solo ritornando all’unità del proprio essere. Per gli autori post-moderni, invece, la frantumazione del soggetto è costitutiva, fisiologica. Non c’è alcuna unità originaria da recuperare.
Su questa linea, in letteratura, Pirandello parla di un gioco di maschere che rende ciascuno di noi “uno nessuno, centomila” e nelle arti figurative Picasso dipinge dei volti in cui occhi, naso, bocca, ci sono tutti, ma è come se ognuno fosse riprodotto all’interno di una prospettiva diversa e contraddittoria rispetto agli altri elementi.
L’antropologia, la filosofia, l’arte, peraltro, non fanno che rappresentare una crisi che si manifesta nella vita di ogni giorno. Il tempo degli uomini e delle donne “tutti d’un pezzo”, sul modello di don Camillo e Peppone, sembra definitivamente tramontato. Si nota spesso che i giovani appaiono divisi, contraddittori, incapaci di dare una forma unificante alla molteplicità incontrollata degli stimoli, dei messaggi e delle esperienze che li pressano da ogni parte. Ma anche gli adulti sono alle prese con stili di vita che li costringono a rinunziare a dare un ordine rigorosamente unitario alla propria esistenza. Le relazioni affettive diventano provvisorie e precarie, come del resto il lavoro: «Esiste un nesso tra la disgregazione del lavoro e la frammentazione della vita delle persone» [8].
In questo contesto qualcuno ha parlato dell’io come di una società per azioni, per di più a maggioranza variabile, e quindi poco portato a scelte veramente impegnative e irreversibili, come quella del matrimonio o del sacerdozio.

Evangelizzare la molteplicità che c’è in ognuno

Nel prendere coscienza della profonda trasformazione che questa crisi del soggetto moderno comporta, l’evangelizzazione dove però anche valorizzare i suoi aspetti positivi. Veramente dobbiamo rimpiangere le identità monolitiche del passato, rigidamente racchiuse dentro schemi che erano fonte di sicurezza, ma che al tempo stesso le imprigionavano? Non a caso una delle matrici intellettuali della dissoluzione del soggetto e della sua monolitica unità è il pensiero femminista: soprattutto le donne – anche se non solo loro – hanno dovuto subire una mortificazione sistematica della loro umanità, costretta entro i cliché legati alla loro sessualità, che le faceva identificare con semplici oggetti di piacere, oppure con mogli-madri (l’“angelo del focolare”), misconoscendo la varietà di interessi, di attitudini, di potenzialità che pure in ognuna di esse si celava.
È vero: oggi l’evangelizzazione deve innanzi tutto proporsi il compito - sempre esistito, ma oggi immensamente più urgente - di aiutare le persone a intraprendere il cammino verso Dio cominciando da quello verso se stessi. Il tradizionale richiamo all’interiorità e all’unità profonda del proprio io acquista una nuova attualità in un contesto in cui la maggior parte degli individui non riescono a entrare in relazione con l’Altro e con gli altri perché non ne hanno con se stessi, e non ne hanno perché mancano di un centro interiore che possa chiamarsi tale. Oggi più che mai bisogna riscoprire, come premessa del «Credo» che si recita a messa, la parola non detta, ma essenziale per dar senso a ciò che segue: “Io” – “io credo”.
Ma questo non deve far sottovalutare le nuove opportunità che le persone hanno ormai di esprimersi nella varietà, e a volte anche nella contraddittorietà, dei loro diversi aspetti. È in questa complessità, irriducibile ai modelli univoci del passato, che bisogna incontrarle e valorizzarle, accompagnandole – così come sono – nel loro cammino incontro a Cristo. E questo è molto più vicino allo stile spregiudicato di Gesù, capace di rivolgersi ai più diversi personaggi umani in cui si imbatte e di accoglierli in tutta la loro problematicità, che a quello spesso codificato nella nostra pastorale dei secoli corsi (e ancora spesso perdurante).
Da qui la necessità di una evangelizzazione che non si concretizzi in formule precostituite e in criteri rigidi di comportamento, ma miri piuttosto ad aiutare le persone a scoprire la loro verità profonda e “unificarsi” non malgrado, ma attraverso la molteplicità che c’è in loro, senza volerne catalogare e pregiudicare le variegate manifestazioni. Una evangelizzazione che valorizzi la loro fragilità, tenendo presente la nuova immagine del soggetto proposta dalla post-modernità, secondo cui «la perfezione di un sé totalmente difeso, “vittorioso”, è una fantasia raggelante» e prendendo sul serio l’invito di una studiosa femminista a «immaginare la nostra vulnerabilità come una finestra sulla vita»[9].
Anche gli approcci devono cambiare. Più ascolto e meno “predicozzi”; più fiducia e meno controllo; più fantasia e meno stereotipi. Anche la pastorale deve imparare a valorizzare la “flessibilità”, che – se bene intesa - non è lassismo o compromesso, ma rispetto di ciò che gli esseri umani sono nella loro unicità e irripetibilità di persone. Perché è così che Dio li conosce e li ama.

E Dio pose l’uomo nel giardino perché lo coltivasse e lo custodisse

In questa nuova prospettiva antropologica, che non privilegia il potere e l’invulnerabilità, ma la creaturalità degli esseri umani, anche il loro rapporto con la natura e gli altri esseri viventi può e deve essere rivisto profondamente. Uno dei caratteri distintivi della post-modernità rispetto all’epoca moderna è la valorizzazione dell’una e degli altri, a volte in polemica con l’umanesimo proposto dalla Chiesa e dal cristianesimo. Il movimento ecologista e quello animalista hanno addirittura accusato la tradizione biblica di essere responsabile delle innumerevoli violenze perpetrata in Occidente nei confronti dell’ambiente e degli animali non umani.
L’accusa è in realtà infondata, se rivolta alla Sacra Scrittura, ma non lo è del tutto se invece guardiamo a una certa cultura diffusa negli ambienti ecclesiali. Nella nostra evangelizzazione bisogna valorizzare nuovamente ciò che spesso è stato dimenticato e che papa Francesco ci ricorda nell’enciclica Laudato si’: «I racconti della creazione nel libro della Genesi (…) suggeriscono che l’esistenza umana si basa su tre relazioni fondamentali strettamente connesse: la relazione con Dio, quella con il prossimo e quella con la terra» (n.66). L’uomo non esiste al di fuori del contesto di un universo a cui è intimamente legato. E questo deve caratterizzare anche la sua prospettiva religiosa: troppo spesso il culto a un Dio senza mondo ha spinto per reazione a concepire un mondo senza Dio.
Da qui deriva, per il cristiano, l’impegno non solo a rispettare, ma ad amare, a sua volta, tutte le creature, senza riserve e senza eccezioni. La tradizione cristiana contiene, da questo punto di vista, un’immensa ricchezza, che sarebbe ora di riscoprire. Come il bel testo in cui Isacco di Ninive osserva che quanti praticano la vita spirituale non devono scegliere tra l’amore per Dio e quello per il creato, perché anzi dall’approfondirsi e intensificarsi del primo scaturisce come conseguenza inevitabile il secondo: «L’uomo nella Bellezza armoniosa diviene incandescente d’amore verso l’intero creato, ama gli uomini, gli uccelli, le bestie, i démoni. Prega per i rettili con pietà sconfinata. Pur condannato dieci volte al giorno al rogo, vive nell’amore degli altri, e non dice mai: basta!»[10].
Su questa stessa linea, leggendo le vite di molti santi irlandesi «si percepisce in loro un amore cosmico capace di comprendere tutte le creature amate per se stesse»[11]. E non si tratta di una storia isolata. Tanto meno si può considerare un’eccezione, come di solito si fa, il rapporto privilegiato di san Francesco d’Assisi con la natura. Sono numerosi gli esempi di una analoga familiarità che provengono da altri ambienti e da altre epoche storiche. Per portare solo un esempio, è il caso, all’inizio dell’età moderna, di s. Francesco di Paola. «Una caratteristica importante del santo di Paola era il suo rapporto con tutte le creature, animate e inanimate. Le pietre gli obbedivano (…). Allo stesso modo gli obbediva l’acqua (…). La sua capacità di dominare il fuoco lo rese famoso (…). Conosceva molto bene i segreti delle erbe e con queste curava ogni malattia (….). Il suo straordinario rapporto con la natura raggiunse l’apice nell’amore intenso verso gli animali» [12].
Dovrebbe far parte, perciò, di una corretta proposta cristiana la splendida preghiera di s. Basilio: «Dio, accresci in noi il senso della fraternità con tutti gli esseri viventi, con i nostri piccoli fratelli a cui Tu hai concesso di soggiornare con noi su questa terra. Facci comprendere che essi non vivono soltanto per noi, ma anche per se stessi e per Te; facci capire che essi amano, al pari di noi, la dolcezza della vita e si sentono meglio al loro posto di quanto noi non ci sentiamo al nostro»[13].

UNA NUOVA PROSPETTIVA ETICA

C’erano una volta la missione e il dovere…

La crisi morale ed educativa - implicita in quella pastorale - di cui siamo tutti testimoni, deriva, in larga misura, dal non essere ancora riusciti a trarre tutte le conseguenze del passaggio dalla prospettiva etica dell’epoca moderna, centrata sulla missione e sul dovere, a quella post-moderna, che punta piuttosto sulla realizzazione delle persone. Il problema degli educatori è che oggi si trovano davanti al tramonto del vecchio modello, senza essere capaci di valorizzare le risorse offerte dal nuovo.
L’età moderna è stata dominata dalla convinzione, di origine protestante, che ogni uomo abbia una vocazione e che, in base a essa, egli debba contribuire con i suoi talenti e i suoi sforzi al progresso della società. Il lavoro, la famiglia, sono stati visti, in quest’ottica, come una missione da assolvere scrupolosamente, a costo di qualunque sacrificio. È stato notato che perfino la figura del capitalista, che fa la sua comparsa proprio nel mondo moderno, differisce profondamente da quella del “ricco” tradizionale, perché, mentre quest’ultimo utilizza i suoi averi per godere della propria ricchezza, consumandola spensieratamente, l’imprenditore moderno assomiglia al personaggio disneyano di Paperon de’ Paperoni che, a modo suo, è un asceta, perché, invece di spendere i suoi soldi, li accumula per produrne ancora.
Contemporaneamente, anche il modo di intendere la morale è stato fortemente influenzato dall’idea kantiana dell’“imperativo categorico” , con la decisa esclusione di ogni riferimento alla felicità. Questo rigore comporta un radicale dualismo tra la sfera dei sentimenti e quella della coscienza razionale. La morale esige una rinunzia a seguire i propri sentimenti e i propri desideri. Vi è una radicale alternativa tra “vita giusta” e “vita buona” o vita felice. Il dovere per il dovere si è venuto ad aggiungere all’impegno etico di “costruire” qualcosa e ha contributo a plasmare l’uomo del mondo borghese.
L’età vittoriana ha fatto propria questa prospettiva, che ha inciso profondamente anche sul modo di concepire il cristianesimo. Il criterio è stato, anche in quest’ambito, quello del “questo si fa ” e questo non si fa”. E alla domanda “perché?”, la risposta è stata per molto tempo: “Perché non è giusto” o, viceversa, “perché è giusto”. E questa impostazione continua, da allora, a sopravvivere nell’ambito dell’educazione, religiosa e no, proposta ai più giovani, malgrado essa mostri ogni giorno di più la sua inadeguatezza .

La fine della missione e il primato della leggerezza

È proprio questo modello etico che la post-modernità ha rimesso in discussione ormai da diversi anni. L’autorealizzazione – quella che una volta si chiamava “felicità” - è diventata un valore fondamentale. Mentre la modernità concepiva la riuscita di un’esistenza in rapporto ai frutti - ai risultati esterni al soggetto e ottenuti grazie alla sua fedeltà alla propria missione -, ora si preferisce parlare di “fioritura” della persona. La vita viene vista come una specie di opera d’arte che, attraverso le varie esperienze viene via via plasmata. Viene meno, per contro, l’idea di “missione”, con ciò che comporta di sacrificio, di dedizione a una causa più alta e di rinunzia a se stessi. «Io non ho nessuna missione. Nessun uomo ha una missione. Ed è un sollievo enorme scoprire di essere liberi, di non avere una missione»[14], dice il protagonista de L’insostenibile leggerezza dell’essere, di Milan Kundera.
E proprio la leggerezza, in contrapposizione al pesante fardello della missione, diventa l’orizzonte entro cui vivere la propria vita per gli uomini e le donne contemporanei. Nell’età moderna, la leggerezza è stata considerata un difetto, un limite, perfino una colpa (come quando di una ragazza si diceva che era “leggera”). L’ideale era, per un uomo, per un discorso, per un’opera d’arte, “aver peso”. Si lavoravano il marmo e il bronzo, per lasciare ai posteri monumenti il cui peso non potesse essere intaccato neppure dal tempo. E anche quando, per il genere artistico utilizzato (come nel caso della musica), ci si doveva affidare alle vibrazioni leggere dell’aria, si cercava di rendere “pesanti” almeno le note: si pensi, per esempio, all’attacco della quinta sinfonia di Beethoven, segnato dal rintocco dei grevi colpi bussati alla porta dal destino!
La cultura post-moderna, invece, è dominata dal senso dell’effimero, di ciò che passa. È significativo che la forma di arte più tipica del nostro tempo - il cinema - sia basata su immagini fugaci, e che essa non conosca la differenza, tipica delle arti figurative tradizionali, tra l’originale - dotato, in quanto tale, di un “peso” che lo rende prezioso - e le riproduzioni.
Ovunque, anche nella moda femminile, si assiste ad una “sottrazione di peso”. Le abbondanti forme corporee delle donne di Michelangelo e di Rubens farebbero orrore a una ragazza del nostro tempo, impegnata con tutte le sue forze a inseguire la magrezza di longilinee top-model. Così come la pesante stratificazione di busti, vesti e sottovesti del passato ha ceduto il posto alla diafana leggerezza di quelli odierni.
Ma questa tendenza ha trovato espressione anche a livello letterario. Per esempio nelle Lezioni americane, di Italo Calvino. «La mia operazione è stata il più delle volte una sottrazione di peso»: così lo scrittore traccia, in quest’ultimo scritto della sua vita, un bilancio del proprio lavoro di scrittore. E, per spiegare cosa intende dire, si rifà al mito di Perseo, che va ad uccidere la Medusa, la mostruosa creatura il cui sguardo pietrificava chiunque lo incrociasse. Anche oggi, nota Calvino, la nostra vita quotidiana, con il peso dei suoi impegni, delle sue costrizioni, delle sue regole soffocanti, è minacciata dallo sguardo dell’antico mostro. «L’unico eroe capace di tagliare la testa della Medusa è Perseo, che vola coi sandali alati, Perseo che non rivolge il suo sguardo sul volto della Gorgone, ma solo sulla sua immagine rifessa nello scudo di bronzo (...). Per tagliare la testa di Medusa senza lasciarsi pietrificare, Perseo si sostiene su ciò che vi è di più leggero, i venti e le nuvole; e spinge il suo sguardo su ciò che può rivelarglisi solo in una visione indiretta, in un'immagine catturata da uno specchio»[15].
È il compito dell’arte, ma esso risponde a un anelito dell’anima che va oltre la sfera della letteratura e che echeggia anche in una bella canzone di Francesco De Gregori, intitolata La donna cannone: «Butterò questo mio cuore tra le stelle/ giuro che lo farò,/ e oltre l’azzurro della tenda/ nell’azzurro io volerò/ (...) E con le mani amore, per le mani ti prenderò/ e senza dire parole nel mio cuore ti porterò;/ e non avrò paura se non sarò bella come dici tu,/ ma voleremo in cielo in carne e ossa/ non torneremo più./ E senza fame e senza sete,/ e senza ali e senza rete/ voleremo via».
Se non ci si vuole ridurre a statue di pietra – questo il messaggio di tante voci della post-modernità - , bisogna imparare, come Perseo, a sottrarsi al peso schiacciante del “terribile quotidiano” e ad andare oltre, librandosi «senza ali e senza rete» nel cielo di ciò che non ha scopo alcuno.

L’importanza delle passioni

Anche sotto il profilo dell’etica del dovere – strettamente connessa, peraltro, a quella della missione - assistiamo a una rivoluzione. Oggi ciò che conta non è tanto rispettare delle norme che vengono sentite astratte e rigide, quanto il perseguimento dell’autenticità. In un film di Pedro Almodóvar, Tutto su mia madre, un personaggio dice a un certo punto: «Costa molto essere autentici. E in questa cosa non bisogna essere avari. Uno è tanto più autentico quanto più assomiglia all’idea che ha sognato di se stesso».
L’etica moderna aveva enfatizzato la lotta contro i condizionamenti esteriori e aveva posto l’accento sull’autonomia, intesa come obbedienza esclusiva al comando della propria ragione. Ma proprio questo comando da un lato si è andato rivelando ancora più tirannico di quello delle antiche morali eteronome, dall’altro è stato sospettato di essere espressione di un soffocante Super-Io, frutto, a sua volta, del riflesso della figura paterna, dell’educazione, delle pressioni sociali. Perciò, secondo l’etica dell’autenticità, non si tratta di difendersi solo dall’invadenza dell’autorità esterna, ma anche dalla repressione interna che può, in nome della coscienza, reprimere e mortificare le nostre inclinazioni e i nostri desideri più profondi. Essere se stessi fino in fondo significa seguire l’impulso dei propri sentimenti e dare libero corso alla propria spontaneità.
“Io sono fatto così!”, è la formula in cui questa prospettiva si riassume. Dove si intende dire non solo che non si accetta di essere giudicati dagli altri, ma anche che non si ritiene né possibile né opportuno sforzarsi di cambiare il proprio modo di percepire la realtà e di orientare i propri stati d’animo in nome di qualsiasi regola.
In questo contesto i sentimenti e i desideri acquistano un nuovo rilievo. Certo, questa reazione al passato assume spesso forme estreme che non solo non sono funzionali alla valorizzazione della sfera emotiva, ma finiscono per comportarne la negazione. Lo constatiamo ogni giorno nella vita di tanti giovani, nei quali «l’eccesso emozionale e la mancanza del raffreddamento riflessivo» producono – come constata Galimberti - «1) lo stordimento dell’apparato emotivo attraverso quelle pratiche rituali che sono le notti in discoteca o i percorsi della droga; 2) il disinteresse per tutto, messo in atto per assopire le emozioni attraverso i percorsi dell’ignavia e della non partecipazione (…); 3) il gesto violento, quando non omicida, per scaricare le emozioni e per ottenere un’overdose che superi il livello di assuefazione come nella droga» [16].

Il ritorno delle virtù

In questo modo, però a una morale rigorista si rischia di sostituire la rinunzia ad ogni morale. Si comprende perché, per uscire da questa perversa oscillazione, già nella seconda metà del secolo scorso si sia sviluppato un vasto movimento di pensiero che, soprattutto nel mondo anglosassone, ha promosso il recupero della morale aristotelica delle virtù in alternativa a quella kantiana del dovere. Perché nella prospettiva di Aristotele, ha scritto una delle più autorevoli rappresentanti di questo movimento, Martha Nussbaum, «la passione è un elemento costitutivo della virtù e della bontà della scelta, l’elemento che la rende qualcosa di più del puro prodotto dell’autocontrollo»[17].
Non, però, in contrasto con la ragione, ma in un’armonia che comporta un reciproco potenziamento. È la ragion pratica, infatti, che consente alle passioni di esprimersi secondo un «giusto mezzo» che non le depotenzia, ma dà loro la massima intensità, sottraendole alla duplice minaccia di un difetto che le infiacchisce e di un eccesso che le distrugge.
Il problema, insomma, non è la passione, ma il suo disordine, da cui essa è resa meno umana. La conclusione è chiara: «Facciamoci carico delle nostre passioni e, invece di comprimerle (…) diamo loro espressione avendo cura della “giusta misura”»[18].
Esse saranno allora un fattore essenziale del comportamento virtuoso. Infatti, «per reagire correttamente ad un caso pratico (…) che ci stia davanti, è necessaria non soltanto la valutazione dell’intelletto, ma anche un’appropriata risposta emozionale» [19]. Così, per esempio, secondo Aristotele e s. Tommaso (che segue su questo punto essenziale la sua impostazione morale), «è da lodare chi si adira per giusti motivi e contro le persone giuste, come si deve, quando e per tutto il tempo appropriato» [20]. È un vizio, opposto e simmetrico all’iracondia, non sapersi indignare di nulla! Lo stesso vale per le altre passioni, che non devono essere sradicate, ma valorizzate.
L’obiettivo dell’educazione morale, a questo punto, non è di reprimere i nostri stati d’animo, rimuovendoli o ignorandoli, ma di prenderne coscienza e di farli maturare dall’interno, dando loro una forma e orientandoli. «Ciò significa che la nostra emotività può essere educata e, se vogliamo una società migliore, deve essere educata» [21].

Il desiderio perduto

In particolare, poi, per quanto riguarda i desideri, recentemente un noto psicoanalista, Massimo Recalcati, ha fatto notare che il problema, nella società consumistica, non è il loro accrescersi, ma il loro affievolimento fino alla scomparsa. Partendo dall’idea di Freud secondo cui «è necessaria una perdita originaria, una differenziazione, un limite, una lontananza dalla Cosa materna perché vi sia desiderio»[22], Recalcati osserva che il desiderio è reso impossibile in un contesto dove «tutto tende a sospingere verso l’apologia cinica del consumo e dell’appagamento senza differimenti» [23].
Siamo immersi, infatti, in un clima culturale che «rigetta il limite, la mancanza» e dove perciò «il godimento deborda senza argine, senza freni, non si aggancia al desiderio, sospinge verso la consumazione dissipativa della vita». Il punto essenziale è, allora distinguere il desiderio da una «pulsione che conduce la vita verso un godimento tanto illimitato quanto distruttivo», che perciò diventa «pulsione di morte» [24].
Non si tratta solo di discorsi teorici. Nel 44° Rapporto Censis, del 2010, troviamo, da questo punto di vista una diagnosi spietata della situazione del nostro Paese: «Sembra avvenire ogni giorno di più che il desiderio diventi esangue, senza forza, indebolito da una realtà socioeconomica che da un lato ha appagato la maggior parte delle psicologie individuali attraverso una lunga cavalcata di soddisfazione dei desideri (…) e che dall’altro è basata sul primato dell’offerta che garantisce il godimento di oggetti e di relazioni mai desiderati, o almeno non abbastanza desiderati» (n.13).
Da qui, secondo Recalcati, l’esigenza, sul piano educativo, di una svolta che recuperi, valorizzandolo, il ruolo del “padre” e il senso del limite: «Come vi può essere educazione – e dunque formazione – se l’imperativo che orienta il discorso sociale s’intona perversamente come un “Perché no?” che rende insensata ogni esperienza del limite?»[25].

Riscoprire il ruolo della leggerezza, della felicità e dei desideri nell’evangelizzazione

L’evangelizzazione, oggi, deve imparare a evidenziare la leggerezza che pervade il messaggio cristiano. Certo, c’è n’è una, fatua e irresponsabile, il cui prezzo è il vuoto. Il rischio di cadere in questa, vanificando la serietà della croce e la radicalità dell’amore cristiano va sempre tenuto ben presente. Ma si può trovare una traccia della leggerezza autentica anche nel cuore del Vangelo. Non ha detto Gesù: «Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero» (Mt 11,28-30)? Agli antipodi di una impostazione che privilegiava unilateralmente l’impegno, le rinunzie, la disciplina, si tratta di mettere in primo piano che l’esperienza cristiana comporta la dolcezza e la sottrazione di peso che derivano da una più profonda esperienza di amore e di libertà.
Del resto, non è un caso che il cristiano sia chiamato a rinascere dallo Spirito, che non può mai essere catturato e ingabbiato dentro alcuna costrizione: «Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai da dove viene né dove va: così è chiunque è nato dallo Spirito» (Gv 3,8). La missione non va, ovviamente, vanificata, ma deve essere riletta alla luce della promessa di felicità presente in tutta la Sacra Scrittura, che le dà il nome di “beatitudine”. Con questa promessa si apre, per esempio, il Salterio: «Beato l'uomo che non entra nel consiglio dei malvagi…» (Sal 1,1). E la felicità/beatitudine sta al centro del messaggio di Gesù: «Beati…; beati…; beati…» (Mt 5, 3ss). La fioritura e la missione che porta frutti non sono in conflitto, come dice esplicitamente, del resto, un altro salmo: «Il giusto fiorirà come palma, crescerà come cedro del Libano; piantati nella casa del Signore, fioriranno negli atri del nostro Dio. Nella vecchiaia daranno ancora frutti, saranno verdi e rigogliosi» (Sal 92, 13-15).
Troppe volte, nell’evangelizzazione del passato, si è dimenticato di dire che la salvezza portata da Cristo implica la felicità, la pienezza di vita, il compimento delle prospettive anche umane di chi vorrebbe un’esistenza “riuscita”. Nella mentalità borghese, che ha avuto la sua piena affermazione nell’età moderna, la fede si è in molti casi ridotta a una religiosità moralistica, fondata sull’osservanza scrupolosa del dovere, rappresentato dai dieci comandamenti (a loro volta fraintesi e piegati in senso puramente etico), e il credente è stato identificato con la persona onesta. Nell’educazione cristiana si è cercata soprattutto una garanzia contro le deviazioni e i disordini morali, nonché un attestato di “buona condotta” da esibire in società.
Quello che si è perduto di vista è che Cristo è venuto a portare una buona notizia, non un fardello da trascinare. È significativo che, nel corso dell’età moderna, il capitolo sulla felicità - che, fino alla fine del Medioevo, era il più importante nei trattati di teologia morale, perché parlava del fine a cui obblighi e divieti sono subordinati e orientati - sia stato a poco a poco messo in secondo piano, fino scomparire del tutto nei trattati moderni. È rimasto un cristianesimo dei “no”, fatto di tabù (soprattutto relativi alla vita sessuale, enfatizzata in senso negativo) e di prescrizioni formali (“andare a messa la domenica”, “confessarsi e comunicarsi almeno una volta l’anno”, etc.), che non dicono più nulla all’uomo e alla donna d’oggi.
In questa logica, si capisce bene che l’idea che il Vangelo si ponga sulla linea della morale kantiana è frutto di un equivoco. La visione cristiana ha addirittura elevato a virtù suprema, insieme alla fede e alla speranza, quella che nella prospettiva umana sarebbe solo una passione, l’amore (cfr. 1 Cor 13,1-3), indegno, secondo l’etica kantiana, di rientrare nell’etica come un fattore determinante.
L’amore, peraltro, come ha ricordato Benedetto XVI nella Deus caritas est, non è solo agape, dono di sé, ma anche eros, desiderio. L’evangelizzazione, in una società che conosce quasi solo bisogni e pulsioni superficiali, deve avere come scopo quello di suscitare dei veri desideri, a partire da quello dell’Infinito che si annida nel cuore di ogni essere umano, credente o non credente che sia (cfr. il bellissimo Canto notturno di un pastore errante per l’Asia del non credente Giacono Leopardi).
Forse gli uomini e le donne di oggi – i giovani soprattutto - sarebbero meno diffidenti verso la morale cristiana, verso quella cattolica in particolare, se essa fosse presentata (e testimoniata) in questa prospettiva ariosa, che potrebbe intercettare attese ed esigenze autenticamente umane, oggi inappagate, al di là della linea divisoria tra chi ha la fede e chi non ce l’ha, in una comune prospettiva di ricerca per cui la tradizione cristiana può, oggi più che mai, costituire un significativo punto di riferimento.


NOTE

[1] L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus , tr. A. G. Conte, Torino, Einaudi 1980, p.82.
[2] M. Weber, Il lavoro intellettuale come professione, intr. D. Cantimori, tr. it. A. Giolitti, Einaudi, Torino 1980, p.33.
[3] U. Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, Milano 2000, p.715.
[4] F. Nietzsche, Crepuscolo degli idoli, a c. di G. Colli e M. Montinari, tr. it. F. Masini, Mondadori, Milano 1975, p.72.
[5] C. Lévi Strauss, Il pensiero selvaggio, tr. it. P. Caruso, Il Saggiatore, Milano 1970, p.269.
[6] A. Cavarero, Il pensiero femminista. Un approccio teoretico, in A. Cavarero - F. Restaino, Le filosofie femministe. Due secoli di battaglie teoriche e pratiche, Bruno Mondadori, Milano 2002, p.106.
[7] C. Lévi Strauss, Mito e significato, ed. it. a cura di C. Segre, Il Saggiatore, Milano 1980, pp.16-17.
[8] L. Salmieri, Coppie flessibili. Progetti e vita quotidiana dei lavoratori atipici, Il Mulino, Bologna 2006, p.77.
[9] D. Haraway, Manifesto cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, a c. di L. Borghi, intr. R. Braidotti, Feltrinelli, Milano 1995, pp.164 e 165.
[10] Cit. in G. Vannucci, «Introduzione» a in Philokalìa. Testi di ascetica e mistica della Chiesa Orientale, a c. di G. Vannucci, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 1978, p. 8.
[11] G. Bormolini, I santi e gli animali. L’Eden ritrovato, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 2014, pp.144-145. «Non si tratta di episodi sporadici, legati alla sensibilità individuale di un santo, ma di una vera e propria “cultura”, di cui è permeata la spiritualità cristiano-celtica nel suo complesso» (ivi, p.147).
[12] Ivi, pp.157-159.
[13] Basilio di Cesarea, Omelia sull’Esamerone, II, 1.
[14] M. Kundera, L’insostenibile leggerezza dell’essere, tr. A. Barbato, Adelphi, Milano 1985, p.317.
[15] I. Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Garzanti, Milano 1988, pp..5-6.
[16] U. Galimberti, L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani, Feltrinelli, Milano 2007, pp.41.42.
[17] M. C. Nussbaum, La fragilità del bene. Fortuna ed etica nella tragedia e nella filosofia greca, tr. it. M. Scattola, a cura di G. Zanetti, Il Mulino, Bologna 1996, p.566.
[18] U. Galimberti, I vizi capitali e i nuovi vizi, Feltrinelli, Milano 2008, p.19.
[19] M. C. Nussbaum, La fragilità del bene, cit., pp.160-161.
[20] G. D’Addelfio, Desiderare e fare il bene. Un commento pedagogico all’“Etica Nicomachea”, Vita e Pensiero, Milano 2008, p131.
[21] U. Galimberti, L’ospite inquietante, cit., p.44.
[22] M. Recalcati, Cosa resta del padre? La paternità nell’epoca ipermoderna, Raffaello Cortina Editore, Milano 2011, p.55.
[23] Ivi, p.104.
[24] Ivi, pp.47 e 55.
[25] Ivi, p.104.