Intervista a Andrea Bozzolo
A cura di Rossano Sala
(NPG 2018-06-26)
Dopo aver avuto uno sguardo culturale e pedagogico cristiano, abbiamo chiesto a un teologo, il prof. Don Andrea Bozzolo, professore Ordinario di Teologia Sistematica presso la sezione torinese della facoltà di Teologia della Università Pontificia Salesiana, di aiutarci ad entrare nel prossimo Sinodo con una certa profondità. Non basta infatti lasciarsi toccare emotivamente, ma è necessario andare alla radice di alcune questioni dal punto di vista teologico, ecclesiologico, spirituale e pastorale.
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Cominciamo con uno sguardo ecclesiologico. Al termine del Concilio Vaticano II, esattamente l’8 dicembre 1965, la Chiesa indirizzò un messaggio molto bello ai giovani di tutto il mondo. In esso si diceva che la Chiesa aveva fatto una “revisione di vita” per “ringiovanire il proprio volto”, perché la Chiesa stessa è da pensarsi come “la giovinezza del mondo”. Ricordando quel messaggio, pensa che la Chiesa sia stata fedele in questi cinquant’anni a quelle parole profetiche?
La Chiesa ha vissuto il Concilio e il post-Concilio come una grande stagione di rinnovamento, di cui apprezziamo molti frutti e risultati: un rapporto più ricco con la Parola di Dio, una liturgia più accessibile, una nuova coscienza del ruolo dei laici nella comunità, la fioritura dei movimenti ecclesiali, i passi compiuti nell’ecumenismo, una nuova sensibilità per il dialogo con la cultura, superando ogni forma di arroccamento ecc. Non ci si può nascondere, però, che in alcuni casi il cambiamento è rimasto esteriore. Ha toccato in modo evidente le forme esterne – pensiamo alla liturgia – ma non sempre ha raggiunto convinzioni e atteggiamenti profondi, così da generare una freschezza gioiosa di vita cristiana. Questo ci aiuta a comprendere che la Chiesa non ringiovanisce con operazioni di “lifting”, ma con la conversione dei cuori e delle istituzioni a Colui che nell’Apocalisse dice di sé: “Ecco, io faccio nuove tutte le cose” (Ap 21,5).
E questo che cosa significa?
Significa che il “nuovo” che ringiovanisce il mondo non può essere semplicemente opera delle nostre mani, esito dei nostri progetti. Mi colpisce la forza con cui papa Francesco in Evangelii Gaudium denuncia i “piani apostolici espansionisti, meticolosi e ben disegnati, tipici dei generali sconfitti” (EG 96). La pretesa di gestire il futuro con obiettivi pianificati e tabelle di marcia predefinite è in realtà una condanna a restare prigionieri del ripetitivo. Il “novum” di cui la Chiesa è portatrice è diverso, ha carattere escatologico: è la vittoria pasquale di Cristo, il definitivo che la Pasqua ha introdotto come lievito nella storia. Questo novum non viene a noi come un prodotto, esso è adventus, parousia, viene dal cielo come dono di grazia.
Torniamo all’Apocalisse…
Certo! Penso proprio alla scena finale dell’Apocalisse, in cui si compiono le nozze dell’Agnello. La comunità dei rendenti, la “nuova” Gerusalemme, è presentata come una giovane che scende dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. Ecco la vera “giovinezza” della Chiesa! Forse dovrebbe preoccuparci un po’ di più il fatto che il messaggio escatologico risuoni in modo troppo debole nelle nostre comunità… Esso non riguarda un domani distante e lontano, ma è la chiave decisiva per entrare nell’oggi, per aprire gli occhi su ciò che lo Spirito compie nella storia, facendo “lievitare” dal di dentro la creazione. Senza questo sguardo la comunità cristiana diventa autoreferenziale, si perde nei suoi discorsi e nei suoi piani. Ma così non va lontano.
Il Papa insiste molto sul fatto che la Chiesa debba assumere nel suo insieme, come metodo di lavoro ordinario in tutte le sue componenti, lo stile del “discernimento”. Ma che cosa dobbiamo davvero intendere per questa parola che a molti suona strana e a taluni perfino incomprensibile?
Il discernimento è il processo spirituale che conduce a decidere in conformità al volere di Dio, imparando a riconoscere la sua voce, a “distinguerla” dalla voce dell’uomo vecchio che è in noi e dalla tentazione del maligno, con la sua logica ingannatrice. Se ogni decisione deve aprire a una novità, il discernimento è l’arte di accogliere la novità di Dio, di collaborare al suo avvento, di porsi al suo servizio. Dio infatti parla “oggi” alla sua Chiesa, parla alle singole persone e alle comunità per guidarle e orientarne l’azione. Riconoscere la sua voce che apre il futuro è sorgente di gioia e di fecondità e permette di affrontare con coraggio e audacia le sfide della storia. Il discernimento riguarda tutti gli ambiti della vita: morale, spirituale, vocazionale. In ambito pastorale assumere lo stile del discernimento significa impostare la programmazione delle attività e maturare le decisioni con un più chiaro riferimento all’azione ispiratrice dello Spirito. Usando un paragone musicale, si può dire che significa lasciarsi dare il LA da Dio, deponendo la pretesa di prendere da soli la nota giusta.
Perché oggi è così importante assumere, come Chiesa, l’habitus del discernimento? E che cosa significa concretamente per la Chiesa pensare e agire secondo questo “modo di procedere”? Quali conversioni sono necessarie?
È importante perché talora rischiamo di vivere la progettazione pastorale meramente come un’organizzazione del calendario degli impegni, che per lo più riproduce per inerzia ciò che si è fatto l’anno prima, oppure come una suddivisione di compiti che non coinvolge in profondità le persone. Si fa fatica a trovare tempi per riflettere sull’esperienza che si vive, per far emergere i grandi interrogativi che la vita pone. Ma quando si va avanti così, prima o poi la stanchezza prevale, ci si sente rotelle di un ingranaggio… altro che giovinezza del mondo.
Cosa c’è alla base di questa mentalità?
C’è la sottile tentazione di pensare che il Vangelo sia riducibile a “contenuti”, che dopo un po’ di anni si pensa di conoscere, e che la pastorale si giochi sulle “tecniche”, sui “metodi” di trasmissione di tali contenuti. Ma non è così. Il cristianesimo è un evento: ha un suo modo di accadere e di trasmettersi che non può smettere di stupire e di affascinare. È una sintesi di forme e di forze, di parole e di gesti, di strutture e dinamismi che tra di loro non sono separabili e che sono sempre e di nuovo suscitati dalla grazia. Quando si riconosce questo, non ci si sente padroni delle strutture e delle attività, ma umili testimoni di ciò che Dio continua a operare in mezzo a noi. Si sente il bisogno di ritornare ogni giorno a imparare che cosa significhi vivere “in Cristo” e si cerca di vivere “in Lui” ogni cosa.
Concretamente quali attenzioni sono importanti per vivere il discernimento pastorale?
È importante anzitutto vivere il discernimento non come un dovere in più, ma come una grazia, un’opportunità, un dono che fa crescere la comunità. È bello, anche se impegnativo, maturare le decisioni in un clima di preghiera, di comunione, di ascolto reciproco, cercando di imparare con umiltà da esperienze precedenti e di aprirsi con audacia al nuovo. Quando in un consiglio pastorale qualcuno arriva con la sicurezza di avere già la soluzione giusta e vuole “far passare” la propria idea, non si fa discernimento. Occorre mantenere il proprio punto di vista aperto a integrare gli elementi che emergono nel confronto, così da costruire quella visione integrata e poliedrica di cui parla papa Francesco. Senza perfezionismi, senza volere tutto e subito, accettando i tempi necessari ad attivare processi impegnativi. Il segno di un discernimento ben fatto è la pace che accompagna le decisioni, anche quando sono difficili. Si trasmette l’energia serena di chi si lascia condurre da Dio.
Entriamo ora nell’argomento specifico del prossimo Sinodo: “I giovani, la fede e il discernimento vocazionale”. Il Sinodo sui giovani viene dopo due momenti sinodali in cui la Chiesa universale si è concentrata sul tema della famiglia. Ritiene questa continuità importante? Perché?
Giovani e famiglia sono due grandi luoghi nei quali misurare i cambiamenti antropologici del nostro tempo. La scelta di questi temi esprime in maniera molto chiara la volontà di papa Francesco di dare effettiva attuazione all’impegno di una Chiesa “in uscita”. Questa richiesta, però, non può essere intesa solo in senso operativo e fattuale, ma riguarda più profondamente un’attitudine dello spirito. Si tratta di tornare ad abitare mondi che sono divenuti distanti, per comprenderli dal di dentro e arricchirli con la luce della fede. Pensiamo, ad esempio, a un tema che è all’incrocio tra giovani e famiglia, ossia il tema del cambiamento della cultura affettiva entro cui i giovani crescono. La Chiesa non può ignorare che i giovani hanno nuovi modi di costruire relazioni affettive, usano nuovi linguaggi per esprimerli, crescono entro rappresentazioni simboliche del corporeo che pongono sfide nuove. Spesso nelle nostre comunità circolano giudizi catastrofici su questa realtà, ma le proposte costruttive sono poche. La preoccupazione è giusta, ma deve tradursi in impegno, non in lamentela. I giudizi lapidari come anche una vicinanza accondiscendente non aiutano i giovani. Occorre uscire per abitare il loro mondo, come ha fatto Gesù, e rendervi accessibile la testimonianza del Vangelo.
I giovani, prima di tutto, la porzione “più preziosa e delicata” della società, come soleva dire don Bosco. Come vede la situazione dei giovani di oggi, i primi del terzo millennio, che vivono in una società globalizzata e tardo moderna, dominata dalla forza dei media, dove sussistono inedite opportunità e nuovi rischi?
Penso che prima di parlare dei giovani “di oggi”, sia importante anzitutto richiamare qualche tratto che vale per i giovani “di sempre”. C’è una condizione antropologica che ultimamente è universale; è la grande sfida dell’esistenza, che tutti ci accomuna. È importante richiamarlo, perché ci consente di mettere in dialogo culture diverse e anche epoche diverse, identificando le grandi domande della vita e attingendo alla grande sapienza dell’umanità. La giovinezza è l’età della vita in cui l’uomo avverte profondamente l’appello a decidere di sé, del proprio futuro, a dare un indirizzo fondamentale alla propria esistenza, che segnerà in modo determinante il futuro. Per questo il giovane è in ricerca di un orizzonte affidabile, di una promessa convincente, di una base solida su cui edificare la casa della propria vita e guarda agli adulti aspettandosi di trovare la testimonianza autentica di un’esistenza compiuta, che possa indicare la rotta per la libertà. Oggi però il mondo adulto, in larga misura, ha rinunciato a dare questa testimonianza, abdicando alle proprie responsabilità: si limita a fornire ai giovani strumenti (tecnologici) e beni (di consumo), ma quando si tratta di dare risposta alle grandi domande sul senso della vita, si sottrae.
Con quali conseguenze?
Quest’atteggiamento rinunciatario provoca nelle nuove generazioni incertezza conoscitiva e paralisi decisionale: si cresce incerti e indecisi. E in più delusi, soprattutto nei confronti delle istituzioni, che non paiono orientate a custodire il bene di tutti e a salvaguardare i meno tutelati, bensì arroccate sulla difesa di privilegi. È su questo sfondo di fragilità educativa e di rottura del patto sociale che emerge con prepotenza la spinta a emergere come individui. Quando il padre è assente o distratto, il figlio non può che affidarsi alle proprie forze, cercando in ogni modo di farsi notare, di promuovere la propria immagine e di renderla attraente. Gustavo Pietropolli Charmet ha parlato a questo riguardo di un «insostenibile bisogno di ammirazione» che caratterizza la società contemporanea. Si tratta di una frenesia di visibilità, un bisogno di notorietà che porta con sé la paura di trovarsi relegati in un cono d’ombra sociale. All’autenticità della vita, insomma, si sostituisce l’appetibilità dell’immagine e l’enfasi del Sé.
Lei parlava di incertezza conoscitiva dei giovani. Molti parlano dell’epoca della post-truth, della post-verità, dove il bombardamento mediatico non aiuta a cogliere ciò che è vero, buono, bello, giusto e santo. Dove le fake news abbondano e colonizzano le giovani generazioni, impedendo un pensiero disciplinato e profondo. Come aiutare i giovani ad orientarsi in un mondo così frammentato e confuso?
Mi pare che per affrontare questa sfida sia importante anzitutto aiutare i giovani a riprendere contatto con ciò che vivono, a credere nell’effettività dell’esperienza. Il mondo della vita quotidiana non è fatto solo di sensazioni, ma di accadimenti che cambiano il soggetto che li vive. Noi non siamo una cassa di risonanza virtuale, non viviamo i rapporti solo per “provare l’effetto che fa”. Il primo passo è dunque riscoprire che gli accadimenti della vita parlano, interpellano, richiedono decisioni.
E poi?
Poi bisogna ridare forza al fatto che la verità non è un’idea, una teoria astratta, una formula evanescente. La verità si dà a conoscere nel suo intreccio originario con la giustizia. Noi possiamo riconoscere come vero solo ciò che risulta affidabile per una vita degna dell’uomo, delle sue speranze e dei suoi affetti. Una verità che non appassioni, che non sia capace di rigenerare il cuore, che non impegni a trasformare il mondo sarebbe un idolo vuoto. Per questo è importante riscoprire la verità come sorgente di giustizia e di gioia. L’idea che senza verità si sia più liberi è un’immensa menzogna. Di fronte allo scetticismo di Pilato, bisogna ricordare che la verità è ciò che impedisce di confondere la vittima con il carnefice, ciò che impedisce di lavarsi le mani di fronte all’ingiustizia del mondo. La rinuncia alla ricerca della verità apre le porte alla prepotenza del più forte: il relativismo alla fine è una dittatura in cui prosperano gli interessi dell’economia.
È per questo che è diventato così difficile decidere, soprattutto per quanto riguarda le scelte di vita? Lei parlava di paralisi nelle decisioni, che sono sempre più rinviate e considerate reversibili…
L’antropologia che riduce l’uomo a un consumatore gli lascia una sola sicurezza: ogni scelta è “a tempo” perché ogni prodotto, prima o poi, dev’essere sostituito. Se a questo si aggiunge l’incertezza conoscitiva, non rimane che il dubbio su quale sia la scelta migliore e la spinta a provare tutto. Ma esiste anche un’altra antropologia, che non pensa l’uomo suddito dei suoi bisogni, ma lo intende come abitato da un appello a vivere in modo autentico. La sede delle decisioni è la coscienza e la coscienza non è una stanza vuota. Essa è abitata da una voce che ci chiede di fare il bene, addirittura di “dedicarci” a esso e non a inseguire i nostri capricci di fronte alla vetrina del mondo.
E come si possono aiutare i giovani a riconoscere tale voce e accompagnarli verso un’autentica adultità, che ha nella capacità di scegliere il bene in modo fedele la sua caratteristica principale?
Qui torniamo al ruolo del padre, dell’educatore, del testimone. Il giovane non ha esperienza sufficiente della vita per riconoscere da solo l’appello che lo abita. Il padre è colui che rende riconoscibile quella voce e ne testimonia l’affidabilità, perché mostra con la vita di averla ascoltata e di onorarne la chiamata. Il padre diviene tale non quando impone se stesso e la propria autorità, ma quando indica e testimonia l’Origine dell’alleanza che tiene insieme gli umani: un’Origine che ci trascende, ma non ci è estranea, poiché tutti ne udiamo la voce.
Oggettivamente al centro del tema sinodale è posta la fede. È un modo specifico di vedere i giovani e anche un modo specifico per aiutarli. Quali sono i tratti caratterizzanti della fede cristiana, che siamo chiamati a trasmettere alle giovani generazioni?
La fede cristiana riconosce in Gesù la rivelazione piena e definitiva del volto di questa Origine, che è Dio – il Padre, e nello Spirito Santo il segreto della libertà, la voce intima che muove la coscienza a divenire ciò che è chiamata a essere. La fede cristiana è costitutivamente trinitaria; essa consente di accedere alla verità del nostro essere in termini relazionali, poiché ci fa vivere in Cristo come figli del Padre nello Spirito. La fede va compresa per riferimento all’evento con cui Dio si comunica a noi, evitando di rinchiuderne i tratti in schemi riduttivi e devianti, come purtroppo spesso avviene.
Ad esempio?
Ad esempio quando si pensa alla fede prendendo come punto di partenza la figura moderna della ragione, confinando così il credere in un ragione distinta dal sapere e magari contrapposta a essa. In questa visione la fede inizia dove la ragione finisce, riducendosi a una sensazione soggettiva, un sentimento privato privo di valore conoscitivo e di rilievo pubblico. Altre volte la fede è ridotta a mera adesione ai contenuti dottrinali, senza implicare una relazione felice e persuasa con il Tu divino; oppure è intesa come gesto volontaristico d’impegno etico per certi valori, svuotandola del suo carattere di giudizio circa l’ordine ontologico del reale. Tutte queste interpretazioni deformano in modo inaccettabile il credere cristiano.
La fede cristiana non è una teoria filosofica, ma un modo di abitare il mondo e di vivere le relazioni tra noi, che hanno un riferimento originale nel modo di vivere di Gesù tra noi. In che modo presentare ai giovani la persona e il messaggio di Gesù?
Penso che sia importante aiutare i giovani a comprendere che al centro del cristianesimo non c’è qualcosa che noi dobbiamo fare, ma qualcosa che un Altro fa per noi. Qui è il punto determinante, ciò che alla luce dell’insegnamento paolino si chiama il primato della grazia. Riconoscere Dio nella carne di Gesù, accogliere l’offerta gratuita della sua amicizia e il dono della sua misericordia, lasciare che questo ci rinnovi sono passi fondamentali dell’esperienza cristiana. L’insistenza sull’impegno, sulla coerenza, sull’appartenenza non deve soppiantare l’annuncio centrale della grazia e della misericordia. Come papa Francesco ha scritto in Evangelii gaudium, il kerygma non è semplicemente un momento iniziale che poi ci si può lasciare alle spalle, ma l’orizzonte entro cui comprendere tutti i temi della vita cristiana. E l’accoglienza del kerygma si esprime come gioia, consolazione, speranza. Aiutare i giovani a riconoscere la vera gioia è introdurli al linguaggio con cui Dio parla al loro cuore.
Parliamo anche della liturgia e dei sacramenti. Nelle risposte ai questionari i giovani chiedono che la liturgia sia presa in maggiore considerazione. Varie sono le denunce sui suoi alleggerimenti e banalizzazioni. Anche a proposito della qualità delle omelie ci sono critiche molto dure. Perché, secondo lei, i giovani sono così sensibili a questo tema?
La liturgia intercetta la dimensione simbolica che è costitutiva dell’umano. Essa affascina perché non è solo pensiero su Dio, ma incontro con Lui: un incontro che, coinvolgendo tutte le dimensioni della vita, la raccoglie e la unifica intorno all’essenziale. Pensiamo ad esempio al rapporto con il tempo. La civiltà del consumo impone all’uomo contemporaneo il primato dell’efficienza e del rendimento, in cui il tempo è rigidamente regolato dalle scadenze dell’agenda. In questo modo però il tempo perde respiro e profondità, appiattendosi sulle urgenze del momento. La liturgia capovolge questa visione e offre l’esperienza autentica di un tempo abitato dal Mistero. In tal modo essa dà il ritmo alla giornata e alla settimana, alimenta il senso dell’attesa e la celebrazione comunitaria della festa. Nella celebrazione dei sacramenti, dunque, c’è una vera e propria antropologia. Celebrare bene la liturgia significa accogliere la logica del dono e del gratuito, dell’ascolto e della condivisione, significa scoprirsi sostenuti e nutriti dall’azione di un Altro.
La povertà liturgica delle comunità educative è dunque segno di qualcosa che non va. A quanto pare i giovani lo vedono. Come ripartire?
Veniamo da una stagione di “illuminismo liturgico” che ha ritenuto che la pratica sacramentale avesse senso solo se “preceduta” dalla comprensione teorica di ciò che viene celebrato. Molta catechesi di fatto va ancora in questa direzione, ma rischia, al di là delle intenzioni, di veicolare una prospettiva sbagliata, la prospettiva secondo cui i giochi non si fanno nell’azione sacramentale, ma nell’istruzione che la precede. Forse sarebbe ora di mettere in discussione questo impianto e ripristinare la visione che ha caratterizzato per secoli la vita della Chiesa agli inizi del cristianesimo: il sacramento è il luogo dell’effettività della fede, il “corpo a corpo” con Dio… e non la traduzione in gesti esteriori di convinzioni di fede maturate altrove e altrimenti. Il Concilio ci ha insegnato che la liturgia è “culmen et fons” della vita cristiana; ma nelle pratiche pastorali più consuete essa non riesce a esprimere la forza sorgiva della fonte. Per lo più si attesta come punto di approdo delle istruzioni del catechismo: ma così arriva tardi e male.
E dunque?
Penso che sia necessaria una nuova stagione di iniziazione al rito cristiano, che introduca a stare nel rapporto con Dio senza scavalcare il corpo e le sue posture, i suoni, le immagini, i gesti. Anche se esistono esperienze significative che vanno in questa direzione, in alcune comunità c’è molta trascuratezza. Non è raro trovare delle chiese in cui trionfa il kitsch: non è prima di tutto un problema di estetica, ma è il sintomo di una fede ridotta a bene di consumo, che non genera linguaggi e forme adeguate. A volte entrando in un luogo di preghiera mi chiedo: ma come può un giovane entrare qui dentro e sentirsi a casa? Come può avvertire in questo ambiente il richiamo dell’Assoluto? Il fatto è che su queste cose non si bara e non ci si improvvisa: la liturgia ci smaschera. Solo una fede viva trasmette – nelle forme simboliche degli ambienti che abita e dei gesti che pone – il senso della presenza di Dio.
Arriviamo al tema del discernimento vocazionale. Qui il Sinodo è molto provocatorio: da una parte dice di volersi occupare di tutti i giovani, nessuno escluso. Ma poi dice con la stessa forza che a tutti deve essere proposto un “discernimento vocazionale”: Nell’immaginario ecclesiale la questione vocazionale è molte volte pensata in forma elitaria, nel senso che è riservata alle cosiddette “vocazioni di speciale consacrazione” (vita consacrata e ministero sacerdotale). Che cosa sta cambiando, a partire da questa scelta sinodale?
Direi che la scelta del tema sinodale è fortemente provocatoria; va a prendere uno dei temi che nella tradizione moderna si è assestato nella “nicchia” più interna della Chiesa per rilanciarlo come nodo essenziale dell’esperienza antropologica. È un’operazione che spiazza l’inerzia dei linguaggi consueti e provoca un vero ripensamento. Afferma infatti che l’attitudine responsoriale è costitutiva della libertà; si diventa liberi rispondendo a un appello. La lingua ha conservato una segreta memoria di questo tema nella parola “responsabilità”, che connota la qualità tipica dell’agire umano. Purtroppo nel senso comune dire che uno è “responsabile” viene inteso come sinonimo di “indipendente, autonomo, capace di gestire la sua vita”. La responsabilità è invece la figura di una libertà responsoriale, che rende conto di sé di fronte all’appello e all’ingiunzione con cui la Verità la chiama a decidersi.
Abbiamo quindi bisogno di una “teologia della vocazione” ampia e articolata che possa supportare un cambio di prospettiva forte, capace di riformare l’immaginario ecclesiale condiviso. Ci potrebbe indicare i cardini di questa teologia?
Il termine “vocazione” ha una vasta gamma di usi e significati, che si ritrovano già con diverse accentuazioni nella letteratura neotestamentaria. Il verbo kaleō (chiamare) e il corrispondente gruppo lessicale (klēsis = chiamata; klētos = chiamato), oltre a designare l’azione comune del chiamare o l’atto del denominare, assumono in non pochi testi del NT un significato forte che riguarda principalmente due ambiti: la chiamata degli uomini alla salvezza e una peculiare designazione divina in vista della missione. Al primo ambito di testi appartiene ad esempio parabola degli invitati alle nozze (Lc 14,15-24; Mt 22,1-14) che presenta la venuta del Regno come un invito pressante che Dio rivolge agli uomini. San Paolo, riflettendo sul mistero della grazia, afferma che l’eterno disegno salvifico di Dio si traduce storicamente in una chiamata personale, la cui accoglienza conduce alla giustificazione e alla gloria (cfr. Rm 8,28-30). Il secondo ambito riguarda la scelta di alcune persone per una forma particolare di sequela e per uno speciale ministero. È ciò che si ritrova con evidenza nella vocazione degli apostoli («e subito li chiamò» Mc 1,20 par) e di Paolo, «servo di Gesù Cristo, apostolo per chiamata, scelto per annunciare il vangelo di Dio» (Rm 1,1; cfr. 1Cor 1,1).
Vi è dunque già nel testo biblico una tensione interna e una rete complessa di riferimenti…
Certo. I due gruppo di testi, infatti, disegnano un arco di pensiero che non va semplificato. Essi mostrano che le “chiamate” particolari sono comprensibili soltanto entro l’orizzonte “vocazionale” della Chiesa intera. Nello stesso nome “ecclesia”, infatti, è indicata la fisionomia vocazionale della comunità cristiana, la sua identità di assemblea di convocati. Al suo interno le vocazioni a un compito speciale non hanno il senso di selezionare una élite o conferire un privilegio, ma piuttosto di rendere evidente, con l’assegnazione di una missione speciale, la grazia con cui Dio chiama tutti alla salvezza. Pensiamo al caso emblematico della vocazione di Levi. Nella chiamata del pubblicano che lascia il banco delle imposte per mettersi alla sequela del maestro emergono i tratti specifici di una vocazione speciale alla sequela apostolica, ma anche l’insegnamento che sintetizza, attraverso la vicenda di Levi, il senso complessivo della missione di Gesù: «non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori».
Nei nostri ambienti si parla anche di “cultura vocazionale”. Ma, anche qui, molte volte non sappiamo bene che cosa significa questa espressione. Ci potrebbe aiutare a comprenderla in profondità, magari indicandoci anche qualche strategia educativa che ci aiuti a concretizzarla?
L’espressione “cultura vocazionale” rimanda all’idea, già presente nel magistero di Paolo VI e ripresa dal magistero successivo, che la vita stessa è vocazione. Dio ha creato con la sua Parola che “chiama” all’esistenza e “separa” nel caos dell’indistinto, imprimendo al cosmo la bellezza dell’ordine e l’armonia della diversità. Ciò significa che l’uomo scopre la propria identità soltanto ponendosi in dialogo con il Creatore, in un atteggiamento di ascolto e di apertura che è costitutivo del suo stesso essere. La visione della vita come vocazione si oppone dunque a concezioni che oggi sono assai diffuse, a prospettive che presentano la vita come frutto del caso o del fato. Gli esiti educativi di questi modelli antropologici sono devastanti.
In che senso?
La visione deterministica della vita toglie rilievo alla libertà e conduce alla rassegnazione nei confronti di un fato cieco che s’impone. Essa ha molte versioni, che vanno dal fatalismo superstizioso di chi cerca la sua sorte negli oroscopi al determinismo biologico di chi considera l’uomo come un grumo di cellule o un animale ingegnoso. La visione della vita come caso, a sua volta, deriva ultimamente dall’idea che in principio non vi sia il Logos, ma il caos. Essa genera l’illusione perversa che nulla abbia un valore definitivo, che tutte le scelte siano intercambiabili, che l’unica legge sia quella che si impone con la forza. Da questa mentalità deriva la cultura del provvisorio, che corrisponde all’immagine di un uomo senza vocazione.
Quali passi educativi si possono compiere dunque nella direzione di una cultura vocazionale?
Io direi che il primo passo è invitare all’uscita da se stessi. Occorre aiutare i giovani a lasciarsi interpellare dalla realtà che li circonda, dalle sfide e dalle necessità del nostro tempo. Se non ascoltano la voce dei poveri, se non entrano personalmente in contatto con chi fatica ed è nel bisogno, come ascolteranno la voce di Dio? Il papa ha affermato recentemente che la domanda che un giovane deve porsi non è: «Chi sono io?», ma piuttosto «Per chi sono io?». La prima domanda rischia di rinchiudere in un narcisismo ripiegato, che si estenua nella ricerca inconcludente della propria autorealizzazione; la seconda mette in moto energie e creatività che si accendono in noi soltanto quando ci facciamo carico dell’altro e ci ingegniamo per custodirne la dignità. Proprio in questa dedizione realizziamo in modo personalissimo l’appropriazione dell’immagine e somiglianza divina che è stata impressa in noi.
Per aiutare un giovane nel discernimento vocazionale è necessario accompagnarlo. Ma per questo abbiamo una grande necessità di formare gli accompagnatori. In questo, mi pare, siamo un po’ in debito di ossigeno, perché non ne abbiamo davvero molti. Quali dovrebbero essere, a suo parere, le caratteristiche principali di un buon accompagnatore spirituale e vocazionale dei giovani?
Mi fermo su una sola: l’autenticità. Bisogna aver onestamente onorato, pur con i limiti che sempre segnano la nostra vita, la chiamata personale del Signore e continuare ad avvertirla come la sorgente profonda della propria energia.
L’accompagnamento, nella tradizione della Chiesa, non è solo personale, ma anche comunitario. A volte vediamo, soprattutto in Europa, comunità cristiane che sono molto autoreferenziali e centrate sulla propria sopravvivenza. In che modo una comunità cristiana, nella sua vita ordinaria, può accompagnare i giovani? Quali potrebbero essere i tratti di una comunità che davvero si senta in solido responsabile delle nuove generazioni? Quali strumenti potrebbe privilegiare?
Penso che il primo tratto attraverso cui una comunità visibilizza il suo interesse per i giovani sia la vicinanza. Ci vogliono persone che stiano in mezzo ai giovani, che condividano il loro mondo, costruendo pazientemente legami di amicizia, ponendo le basi per la confidenza. Don Bosco diceva che non basta amare i giovani; occorre che si accorgano di essere amati, e questo avviene quando l’adulto (l’educatore, l’insegnante, il prete…) non si limita a fare ciò che il suo “ruolo” implica, va vive una reale condivisione, “perdendo tempo” per condividere il quotidiano. Tutto nasce di lì. Poi certo bisogna dare responsabilità ai giovani, offrire loro spazi di partecipazione, incoraggiare la loro creatività, aiutandoli a costruire con realismo e perseveranza.
In che modo i giovani possono essere partecipi della vita della comunità, donando ciò che è proprio della giovinezza alla Chiesa a cui appartengono? Quali sono gli spazi di partecipazione in cui i giovani potrebbero essere protagonisti oggi?
Gli spazi di partecipazione non mancano: dall’impegno in oratorio al servizio caritativo verso i poveri, dall’animazione della liturgia al coinvolgimento in movimenti e associazioni, per non parlare della possibilità di valorizzare le loro competenze tecnologiche a beneficio della comunità o dell’opportunità di incoraggiare il loro impegno sociale sul territorio. Il problema, forse, non sono gli spazi, ma gli atteggiamenti, perché a volte i giovani possono essere usati, più che resi protagonisti. Ciò avviene ad esempio quando i servizi richiesti non sono accompagnati da adeguate proposte formative, oppure quando i giovani sono trattenuti gelosamente nel proprio ambiente, quasi fossero “proprietà” del parroco o di un educatore, e non introdotti in esperienze ecclesiali più ampie. In questi e altri casi la comunità non si pone a servizio del giovane e del suo cammino vocazionale, ma rischia di spremerne l’entusiasmo per rispondere a urgenze immediate. Se si agisce così, i giovani prima o poi si allontaneranno dalla comunità, portandosi dietro qualche ferita.
Ritorniamo, per concludere, ancora al Concilio Vaticano II, da cui siamo partiti. Questo Sinodo dei giovani, che certamente non si occupa solo dei giovani, ma anche della necessità di ringiovanire il volto della Chiesa, quali tratti del Concilio potrebbe e dovrebbe riportare alla nostra attenzione?
Riprenderei senza dubbio la chiamata universale alla santità, di cui parla Lumen Gentium. Solo una comunità che crede al fatto che ogni uomo può essere toccato dalla santità di Dio, ha la gioia e la forza di educare e di ringiovanire. La fioritura nel nostro tempo di numerose figure di santità giovanile è certamente un segno dello Spirito. Il cristianesimo mostra il suo fascino solo nell’orizzonte della santità, che è la bellezza e la realtà della vita di Dio in noi.
In che senso ritiene strategico questo tema rispetto ad altri?
Benedetto XVI, nella sua celebre lettera alla diocesi e alla città di Roma sul compito urgente dell’educazione, ha affermato che «anima dell’educazione, come dell’intera vita, può essere solo una speranza affidabile». I santi sono i testimoni della speranza cristiana e della sua affidabilità. Per questo in ogni epoca sono i santi che ringiovaniscono la Chiesa.