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    Immigrazione, Chiesa, pastorale giovanile



    Intervista a mons. Piergiorgio Saviola, Direttore Generale della F. Migrantes


    A cura di Giancarlo De Nicolò

    (NPG 2006-05-19)


    Una chiesa «organizzata» per un servizio pastorale

    Domanda. Può a grandi linee indicare i vari soggetti coinvolti in ambito ecclesiale nei servizio ai migranti?
    Risposta. La Chiesa in Italia da quasi due decenni ha ristrutturato il suo servizio pastorale nel grande mondo delle migrazioni, affidandolo a un suo organismo, parallelo a quello della Caritas Italiana, denominato «Fondazione Migrantes», che si articola nei cinque uffici che rispondono alle principali forme di mobilità umana: emigrati italiani all’estero, immigrati in Italia, zingari in particolare rom e sinti, circensi e lunaparkisti, addetti alla navigazione marittima e aerea: il tutto fa capo a un Direttore Generale che coordina i cinque Direttori Nazionali incaricati ciascuno per uno dei cinque settori sopra indicati. Va aggiunto che la Migrantes è in stretto rapporto sia col Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e Itineranti sia con la Commissione Episcopale per le Migrazioni, una delle dodici commissioni costituite da vescovi cui sono affidati i principali settori della vita della Chiesa in Italia.

    D. Quali le grandi linee dell’intervento della Chiesa in questo settore (attraverso Migrantes)?
    R. La Migrantes – dice il primo articolo del suo Statuto – è l’organismo istituito «per assicurare l’assistenza religiosa ai migranti, italiani e stranieri, per promuovere nelle comunità cristiane atteggiamenti ed opere di fraterna accoglienza nei loro riguardi, per stimolare nella stessa società civile la comprensione e la valorizzazione della loro identità in un clima di pacifica convivenza rispettosa dei diritti della persona umana». C’è poi l’articolo quattro che specifica più in dettaglio, ad esempio, la «valorizzazione della loro identità» in tre puntuali obiettivi: «promuovere la crescita integrale dei migranti, perché, nel rispetto e sviluppo dei loro valori culturali e religiosi specifici, possano essere protagonisti nella società civile della quale fanno parte; curare una adeguata informazione dell’opinione pubblica; stimolare l’elaborazione di leggi di tutela dei migranti per una convivenza più giusta e più specifica».

    D. Immagino che la Migrantes non è da sola ad agire in un campo così vasto.
    R. Grazie a Dio non è da sola, non considera i migranti una «riserva di caccia» tutta sua, anzi si impegna con ogni sforzo perché attorno alle migrazioni ci sia la maggiore convergenza possibile di forze ecclesiali e di ispirazione cristiana.
    Molto la Migrantes si è data da fare perché la Conferenza Episcopale Italiana emanasse, nel novembre 2004, quella «Lettera alle comunità cristiane su migrazioni e pastorale d’insieme» che preme per suscitare o intensificare l’intesa e la collaborazione fra le forze ecclesiali e di ispirazione cristiana interessate sul territorio a qualche aspetto del problema migratorio. Tale pastorale unitaria e integrata si fa tanto più necessaria e urgente quanto più la presenza straniera si fa numerosa e complessa.

    Tra apertura e paura

    D. Certo il ricordo della nostra secolare esperienza di popolo emigrante dovrebbe predisporre all’accoglienza; d’altra parte si fa avanti anche la paura causata da un groviglio di fattori.
    R. Già, la nostra esperienza: non si cessa di ricordare agli italiani questa esperienza che non è storia d’un tempo; si continua ad emigrare in particolare dal Sud e sono circa quattro milioni i nostri connazionali, cittadini italiani a pieno titolo come noi, con passaporto italiano, che vivono nei cinque continenti, specialmente in America e in Europa. è di sapore biblico il monito che la Migrantes ripete di continuo: «Ricordati, italiano, che anche tu sei stato straniero». Perciò accoglienza e solidarietà verso i nuovi arrivati, quella stessa accoglienza e solidarietà che 27 milioni di italiani in ogni parte del mondo hanno richiesto e non sempre ricevuto dai Paesi ospitanti. è una memoria storica che va accompagnata, anzi preceduta dalla «memoria evangelica», ossia dalla consapevolezza che vi è implicato il cuore stesso del Vangelo, la legge fondamentale dell’amore.

    D. Però si registra ovunque, anche nei nostri ambienti, una crescente paura dello straniero. è giustificabile o almeno è comprensibile questo fenomeno?
    R. Non vorrei dare risposte salomoniche. Cominciamo a sgomberare un po’ il terreno: la paura che «ci tolgano il lavoro» risulta sempre più demotivata; ormai è alla luce del sole che gli stranieri sono elemento ormai strutturale e portante della nostra economia. Che sarebbe del settore alberghiero e della pesca, dell’edilizia e della collaborazione familiare, senza la presenza immigrata? E poi il calo demografico e il rapidissimo invecchiamento della popolazione ci interrogano seriamente su quale sarà la sorte della forza lavoro tra noi, a prescindere da nuovi flussi immigratori. Dunque la paura per il lavoro dovrebbe scomparire od essere ridimensionata.

    D. Però è seria la paura per fatti di devianza che turbano l’ordine pubblico.
    R. È più comprensibile questa paura per comportamenti asociali fino al crimine, a parte l’estrema rilevanza che i mass media danno a singoli episodi, che non sono rarità, però costituiscono solo una piccolissima frangia a confronto dei tre milioni di stranieri presenti regolarmente tra noi. è giusto invocare rigore da parte delle forze dell’ordine, controllo alle frontiere, espulsione di elementi pericolosi e sospetti. Ma allo stesso tempo è doveroso rivedere una normativa che crea tanta confusione, che intralcia il processo integrativo, favorisce più il sospetto e la paura che l’accettazione del diverso ed è in buona parte responsabile di quelle sacche di clandestinità che sono terreno fertile allo sviluppo della delinquenza.
    è un grosso problema per l’ordine pubblico anche il pericolo di attentati, l’estendersi del fondamentalismo, pericolo che si traduce in paura generalizzata. Diamo atto anzitutto alle forze dell’ordine la cui vigilanza ha forse scongiurato il ripetersi anche in Italia di attentati clamorosi; questo è un elemento molto rassicurante. Altrettanto rassicurante è la constatazione che il fondamentalismo è certamente radicato in alcuni soggetti, non però nella grande massa degli immigrati, anche di quelli provenienti dal bacino del Mediterraneo. Comunque, anche senza vero e proprio movimento immigratorio, questi elementi fanatici e spregiudicati avrebbero ugualmente capacità di infiltrarsi tra noi. In ogni modo regola saggia è non adottare da parte nostra politiche e comportamenti provocatori e discriminatori, perché la reazione anche da parte di gente pacifica potrebbe diventare forte fino alla violenza. Non vuol essere offensivo per nessuno il proverbio: se al cane, anche mansueto, pesti la coda, ti azzanna e ti morde.

    Buona prassi di accoglienza

    D. In fatto di paura, possiamo dunque dire alla nostra gente una parola tranquillizzante? Possiamo fare opera educativa?
    R. Opera educativa è, in primo luogo, far leva sull’indole pacifica e aperta della grande massa della gente italiana.
    Opera educativa è anche il tentativo di ridimensionare i motivi della paura, spesso più fantastici che reali, tante volte indebitamente generalizzati e ingigantiti. Non è superfluo far anche presente che da qualche anno i grossi flussi di ingresso non sono dall’area mediterranea, che è a prevalenza islamica; sono dall’Est europeo a maggioranza cristiana. Si aggiunga poi una considerazione molto realistica: con questa gente, che ci sembra incutere paura, voglia o non voglia dobbiamo convivere, noi italiani, noi europei: il movimento immigratorio è irreversibile: perché allora non prendere il toro per le corna? Intendo dire perché non dare, non fare anche da parte nostra un vigoroso e intelligente sforzo perché sulle tensioni e i sospetti, sul tentativo di emarginazione e di incriminazione prevalgano volontà di dialogo, gesti di accoglienza e di benevolenza, coinvolgimento di italiani e non italiani in un impegno comune per una società più vivibile e accogliente per tutti? Non si naviga tra le nubi, nel regno dell’utopia; siamo circondati da felici iniziative ed esperienze che fanno concludere: se quei tali lo fanno, perché anche noi non lo possiamo fare? Certamente si dovrà far fronte comune, di critica energica e persuasiva, verso quelle posizioni ideologiche e politiche che puntano il dito contro lo straniero quasi fossero causa di tanti nostri malanni congeniti ed hanno per parola d’ordine: «fuori lo straniero!».

    D. Si è accennato a buone prassi, che sono certo incoraggianti. Riguardano però più la prima accoglienza che la seconda, quella che mira a integrazione, dialogo fra culture, cittadinanza.
    R. Esistono in quantità le buone prassi. Si può far riferimento agli oltre tremila centri di ascolto e di accoglienza che la Caritas gestisce su tutto il territorio; la Caritas poi è un nome prestigioso, ma non l’unico. Si può far visita d’estate a Borgo Segezia, nei pressi di Foggia, dove il parroco riesce a dare ospitalità nel corso di una stagione fino a mille «extracomunitari» che invadono quelle campagne per la raccolta del pomodoro. Interventi di prima accoglienza, si dirà. Già, sono ancora necessari anche questi, perché – avverte Gesù – «i poveri li avrete sempre con voi». Però si va pure oltre l’emergenza, un po’ ovunque: chi entra in Via Dandolo a Roma nella Comunità di S. Egidio, troverà a pianterreno due spaziose sale per la cena di centinaia di diseredati, iniziativa di prima accoglienza; ma al primo piano trovi le aule della scuola Massignon dove si insegna lingua e quanto altro giova per inserirsi nel nostro Paese e si fa dell’intercultura non tanto la lezione ma il dialogo quotidiano. E ancora, se vai a Bassano del Grappa, tutti ti parleranno della «Casa a colori», un’associazione che dà decorosa ospitalità a chi ha ormai «tutto»: permesso di soggiorno, lavoro, famiglia riunificata, manca soltanto un tetto dove poter dire: siamo a casa nostra. Ma a proposito di incontro e di dialogo, non hai ancora partecipato a una «Festa dei Popoli»; ormai è una realtà annuale presente in decine di città, talora organizzata per cattolici» mai però in forma esclusiva, tra l’altro per tutti i gruppi etnici, a prescindere dall’appartenenza religiosa.
    Questa sì è intercultura, di quelle genuine, popolari, perché «festa» è proprio mescolarsi assieme, danzare, suonare, recitare dallo stesso palco, gustare cibi d’ogni genere passando per i vari stand.
    Altro quesito: e come la mettiamo con la cittadinanza? Non manca occasione che gruppi e associazioni anche di matrice cristiana facciano pressioni e appelli perché venga cambiata l’attuale legge sulla cittadinanza, vero rudere archeologico, anche se del 1992, e nel frattempo si sveltisca l’iter burocratico per il rilascio della carta di soggiorno a quanti, a norma di legge, ne hanno diritto. E infine uno sguardo sull’Europa, sulla campagna europea in cui si è impegnata anche la Migrantes e altri gruppi cristiani intesa alla raccolta di un milione di firme perché venga inserito nel Trattato di Costituzione dell’UE «la cittadinanza europea di residenza» agli extracomunitari che sono nell’ambito dell’Unione.
    Tale riconoscimento, oltre al suo valore sul piano dei principi, avrebbe sue conseguenze pratiche, quali il diritto di circolazione tra i singoli Stati membri.

    Quale compito per la Chiesa?

    D. La Chiesa è chiamata a farsi presente tra i migranti con un servizio caritativo e di promozione umana, ma in primo luogo di evangelizzazione. Quanto a tal riguardo è cosciente e sensibile in Italia il corpo ecclesiale e i singoli fedeli? Tengono presente che si tratta di una grande sfida?
    R. Sembra sia generale la consapevolezza che primo compito per la Chiesa è l’evangelizzazione, ossia «annunciare il Vangelo ai non cristiani e continuare ad alimentare dei valori evangelici ai cristiani; anzi è ben presente che lo stesso servizio socio-assistenziale, fatto in nome del Vangelo, ha in se stesso una forte carica di evangelizzazione. Quanto questa consapevolezza si traduca in preoccupazione e azione pastorale è altra cosa; ci sono splendidi esempi e sono molti, ma c’è ancora anche tanta disattenzione e lentezza dettata non tanto da idee fuorvianti, quanto piuttosto per il peso di una prassi pastorale adottata quando le migrazioni non erano di così pressante attualità. Non è mortificante ripetere che occorre una «conversione pastorale» che va nella direzione indicata da Giovanni Paolo II quando le ha proposte per tutta la Chiesa come una «priorità pastorale». Rientra in questa «conversione» anche una seria verifica se le idee, i discorsi, gli umori, le reazioni della gente comune nei confronti dei migranti non vengano più o meno condivise all’interno delle nostre comunità cristiane e dei loro responsabili, con la conseguenza di un certo distacco affettivo ed effettivo verso questa parte del gregge.

    D. Quali allora in positivo le linee pastorali da adottare verso le varie categorie di migranti?
    R. In breve: se sono cattolici, riconoscere che verso di loro è necessaria una pastorale specifica, fatta su misura della loro lingua, cultura, tradizione, favorendo per i vari gruppi etnici la costituzione di comunità di fede e di culto dove possano esprimere la loro fede e vita cristiana in continuità con quanto avveniva nel loro Paese di origine.
    Naturalmente questa formula non deve compromettere il contatto e la progressiva integrazione nelle parrocchie locali. Direi che siamo sulla buona strada: sono già circa settecento questi centri pastorali etnici, in progressivo aumento su tutto il territorio.
    Per i cristiani non cattolici è la prendere in forte considerazione l’opportunità che essi presentano, in particolare gli ortodossi, per dare concretezza al dialogo ecumenico, quello della fraternità in primo luogo. Per i non cristiani vale tutto il discorso precedente di cordiale accoglienza, senza alcuna discriminazione sul piano caritativo e promozionale fra cristiani e non cristiani.

    Una sfida anche per la pastorale giovanile

    D. Quali le sfide del fenomeno migratorio alla pastorale giovanile?
    R. Grande è la sfida per la pastorale giovanile, se è vero che i giovani sono i più favoriti e forse i più disponibili a cogliere e far cogliere nell’ambiente le migrazioni come dato sostanzialmente positivo, pronti in pari tempo a fare la propria parte per superare le inevitabili scabrosità che il movimento migratorio sempre comporta. Tra giovani italiani e stranieri sono più frequenti le occasioni di contatto: scuola, lavoro, sport, divertimento, gruppi anche interetnici di cultura e di impegno sociale.
    Sono questi occasioni quotidiane: ne può scaturire conoscenza e stima reciproca, superamento facile di remore psicologiche e pregiudizi, gusto di stare insieme fino all’autentica amicizia; e il tutto può diventare una convincente lezione di serena convivenza per gli adulti, per tutto l’ambiente, anche ecclesiale.
    Per i non cattolici questo rapporto umano autentico può far scattare anche la scintilla della fede, prima come curiosità e interesse, quindi come ricerca, scoperta e condivisione di quanto a noi credenti in Cristo sta più a cuore. Per i cattolici la parrocchia offre ulteriori occasioni di partecipazione attiva sia nelle assemblee liturgiche che nelle tante attività e aggregazioni del mondo giovanile. Non tutto però scatta automaticamente, occorre una forza trainante e questa può essere la pastorale giovanile.

    D. Dopotutto però i giovani sono ancora minoranza.
    R. Una minoranza però in continua crescita al ritmo di circa 100.000 all’anno; più che ai giovani di prima generazione provenienti dall’estero, l’attenzione si deve concentrare sulla seconda generazione, facendo leva sulla conoscenza più o meno perfetta che già possiedono della lingua italiana. Sono sul mezzo milione i minorenni, pari al 20% della popolazione immigrata; questa poi nel suo insieme si connota come una massa giovanile; le centinaia di migliaia di lavoratori subordinati che nel 2003 hanno ottenuto la regolarizzazione avevano in media l’età di 28 anni. Del resto basta dare uno sguardo alla celebrazione liturgica in una comunità etnica per rendersi conto che non vi prevalgono l’età anziana e l’elemento femminile, come abitualmente tra noi italiani, ma la massa giovanile spesso equamente distribuita in maschi e femmine. Conclusione: è urgente portare avanti il processo integrativo, fino a che gli «stranieri», pur mantenendo le loro specificità, non si sentano più stranieri, ma cittadini tra i cittadini, a pieno loro agio tra noi. Londra e Parigi ci... hanno dato una severa lezione: ignorare ed emarginare, tanto più comprimere questa massa di giovani può portare alla rivolta. La sfida per i giovani italiani, e per la pastorale giovanile è grande, è decisiva per il futuro della nostra società ed anche della nostra Chiesa.

    D. In questo contesto quale il ruolo della scuola?
    R. Pare quasi superfluo dire che la scuola gioca un ruolo fondamentale, primissima palestra di integrazione sotto tutti gli aspetti, anche perché è luogo d’incontro ideale non solo per gli alunni ma per le loro famiglie. Un interesse comune lega tra loro famiglie italiane e straniere; i propri figli che studiano, giocano, litigano e poi giocano di nuovo tra loro è una lezione molto concreta di convivenza da portare anche a casa. Naturalmente per procedere su questa linea senza grossi intoppi e contrasti un ruolo importante potrebbe giocare il mediatore culturale e linguistico nelle scuole con forte presenza di stranieri, il continuo aggiornamento didattico degli insegnanti e degli stessi programmi di studio che devono prendere un respiro più universale. Forse tutto questo non è sufficiente per evitare ritardi scolastici: quale spazio aperto per la pastorale giovanile avviare o sostenere un doposcuola dove con amore e competenza si provvede al ricupero scolastico di questi alunni scolasticamente meno fortunati. Oltre alla scuola penso, in ambito ecclesiale, alla funzione educativa degli oratori aperti, con le dovute cautele, a tutti i giovani immigrati, a prescindere dall’appartenenza religiosa; penso a gruppi come quello degli scout così aperto e invitante o ad attività socio-caritative e culturali nelle quali i giovani stranieri potrebbero tanto imparare e altrettanto contribuire con originali apporti. Penso soprattutto alla necessità che la pastorale giovanile si faccia carico della formazione e aggiornamento dei nostri giovani ad un compito così nuovo e complesso, per il quale non bastano le buone intenzioni né la buona volontà.


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