Intervista a Guido Tallone, sindaco di Rivoli – TO
A cura di Giancarlo De Nicolò
(NPG 2006-05-13)
Domanda. Anzitutto, da quando il problema dell’immigrazione ha cominciato a interessare le istituzioni locali e non solo più il volontariato, le caritas parrocchiali e gli uffici diocesani? Ed è possibile tracciare una «storia» e una tipologia di presenza delle istituzioni in questo campo?
Risposta. Le date non barano. È del 1986 la prima legge italiana sull’immigrazione. Ed è curioso constatare come per l’Italia questa data risulti recente. In realtà nel nostro Paese il vero «nodo» politico da affrontare è sempre stato quello dell’emigrazione. Si tratta di oltre venticinque milioni di italiani che per necessità hanno dovuto cercare speranza all’estero, oltre i confini del nostro Paese. Centri di incontro, chiese, comitati di italiani nel mondo… sono il «segno» eloquente che per l’Italia il vero problema è sempre stato il «partire» più che non il ricevere o l’accogliere.
Ciononostante ci consideriamo, oggi, terra di immigrazione. Un fenomeno che inizia a emergere come un problema a metà degli anni ’80, appunto, quando vi sono la prima sanatoria (di 120.000 persone) e la prima legge italiana (la Legge Martelli). Da quel momento in poi la storia delle «politiche» che sono state messe in gioco è sempre stata influenzata da un alterno intreccio tra «bisogno» e «paura». Da una parte persone, famiglie e/o datori di lavoro che hanno bisogno di «nuove» risorse (non più diversamente disponibili) per affrontare quotidiane esigenze e, dall’altra, paure alimentate all’occasione per ingrandire numeri, ma anche per suscitare ansie e soprattutto il «business» della sicurezza (perché anche questo no va dimenticato: la paura è un volano dell’economia, dei consumi e dell’occupazione; basta pensare a ciò che può scatenare in termini di antifurti, porte blindate, assicurazioni…).
È indubbio: i primi ad affrontare il fenomeno immigrazione in Italia (spesso in termini anche di pura accoglienza e dunque con una grande dimensione assistenziale) sono stati i centri religiosi, parrocchiali, associativi… che si sono adoperati per porgere il primo e fondamentale aiuto a chi, per motivi diversi, bussava alle sponde e alle porte del nostro Paese per cercare speranza e vita dignitosa. Evidenziando il primo e fondamentale dato: in presenza del bisogno prima si risponde, poi si discute, anche politicamente. Chi ha fame, freddo o è ammalato, chi vive tutto questo lontano da casa ed in un Paese diverso dal proprio è bene che prima di ogni altro discorso riceva sostegno e aiuto.
Un percorso molte volte intuitivo. Una prassi dettata non poche volte dalla sola logica della solidarietà e della immedesimazione in storie vissute dai famigliari della precedente generazione. Un grande tessuto di solidarietà, dunque. Di fatto non sufficiente a fermare quell’insieme di paure, in-sicurezze e diffidenze che poco a poco si sono installate nel nostro Paese.
Il paradigma sociale della «sicurezza» si è gradualmente costruito negli anni fino a trasformarsi – per le politiche dell’immigrazione, così come per le politiche sociali in genere – in un pericoloso killer che attraverso mistificazioni, iper-semplificazioni, dis-informazione ed amplificazioni emozionali ha minato alla radice la stessa possibilità di costruire una comprensione realistica di quanto succede.
La ricerca di tutele e garanzie e la paura del cambiamento spesso fanno perdere alle persone il senso reale dei fatti e, soprattutto, ne indeboliscono le capacità di accoglienza, fino a volte a spingere verso condizioni di emarginazione fasce sempre più ampie di persone. Non è casuale che gli immigrati senza permesso di soggiorno rappresentino oggi, insieme ai tossicodipendenti e ai malati psichici, le tre popolazioni più numericamente presenti nelle carceri italiane.
Un evidente segno del tipo di «politiche» con cui in questi vent’anni si è tendenzialmente voluto fronteggiare l’immigrazione, non a caso «costretta» all’area della precarietà sociale e del disagio. L’immigrato, fin da subito, fa paura.
Perché non notarlo? Le immagini acquatiche (onda, flusso, ondata…) sono le più utilizzate per affrontare i temi dell’immigrazione. Perché l’acqua fa paura. E ciò che fa paura va controllato, «gestito», incanalato. Non si parla del positivo, di quanto risulti necessario questo «flusso» di persone e di che cosa e come cambia la nostra società questo movimento. Si preferisce puntare l’attenzione su sanatorie, sulla lotta all’immigrazione clandestina, sul dilagare di flussi sempre più numerosi… il tutto per portare il fenomeno verso «schemi» rigidi, ristretti e funzionali ad una politica che gioca in difesa.
Scegliere di stare non dalla parte di chi si difende o di chi espelle, ma di chi accoglie: è la grande sfida che oggi l’immigrazione pone alla politica; ad ogni politica. Tentare una risposta a questa precisa domanda è la prima e la più urgente priorità che il «fare politica» deve sapersi dare.
Ed è su questa domanda che le generazioni di domani ci giudicheranno.
Visioni di valore sottostanti le politiche
D. Ci sono delle idealità, delle visioni di valore sottostanti le politiche dell’immigrazione, o è mera amministrazione, un tentativo di prevenire – magari isolando e ghettizzando – mali minori? Ci sono «variazioni» di quadro culturale e valoriale nelle politiche cosiddette di destra e di sinistra?
R. «Cercavate braccia e sono arrivate persone» portava appeso al collo un immigrato italiano che lottava per contrastare le discriminazioni presenti in Svizzera. «Persone» è diverso da forza-lavoro, da sole «braccia»: le persone portano con sé relazioni, tradizioni, progetti, bisogni, risorse anche diverse da quelle attese. Non è una precisazione di poco conto. Tenerne conto, e considerare «persone» gli immigrati, rende più facile l’integrazione.. e crea le condizioni perché questa sia possibile.
Ma torniamo alla domanda. La differenza tra destra e sinistra, in campo politico, viene spesso spiegata in termini di semplice contrapposizione. In realtà la vera differenza tra le due parti è data, a mio parere, dal fatto che la destra spiega con un pensiero «superficiale» (e unico) ciò che in realtà è complesso anche se per questo non complicato. Proviamo a spiegarci in italiano. Lo schema di questo pensiero superficiale lo conosciamo: «Sono senza casa? La comprino… Sono senza lavoro? Se lo cerchino… Sono in galera? Buttiamo via la chiave… Immigrati? Ognuno a casa sua… Tanti figli? Dovevano pensarci prima… Si drogano? Se lo sono voluti…».
Un pensiero che non si preoccupa di presentare risposte concrete a precisi problemi, ma che insegue semplicemente il consenso di chi è spaventato da questi problemi e si illude di risolverli con questi slogan.
Il più sano realismo di cui necessita una politica capace di cercare soluzioni praticabili nel campo delle politiche dell’immigrazione parte invece dal considerare tutti gli elementi di cui l’immigrato, che è una persona, si fa voce.
È una politica miope quella che considera l’immigrato solo in quanto forza-lavoro da utilizzare per i propri fabbisogni precari. Significa usare l’altro, ma di fatto negare quella progettualità necessaria per vivere e soprattutto per aprirsi al futuro.
Erodoto diceva che la vita di un popolo dura normalmente mille e cinquecento anni. Dalla nascita dell’impero romano alle cosiddette trasmigrazioni germaniche (che a scuola studiavamo come invasioni barbariche) sono passati esattamente quel numero di anni. E l’Europa si è, in quei decenni, letteralmente e profondamente trasformata. Oggi, dopo altri mille e cinquecento anni, l’Europa è nuovamente invecchiata: meno nati, età media sempre più alta, più anziani meno bambini… Le cosiddette trasmigrazioni afro-asiatiche assecondano una domanda implicita, a volte silenziosa ma costante e ad altre volte anche esplicita. Ascoltare la domanda, abitarla e adoperarsi perché vengano date risposte vere ai tanti interrogativi che sorgono da chi cerca aiuto e a chi lo offre perché anch’egli in condizioni di bisogno, è compito che non può ridursi a slogan.
Un interessante esercizio per giovani (ma non solo) potrebbe essere quello di provare ad abbozzare qualche cifra in grado di inquadrare il fenomeno immigrazione. Anche solo nelle sue tendenze di massima. Quanti extracomunitari sono presenti, ad esempio, in Italia, nel mio comune, regione o provincia. Un «quanti» che può espresso in numeri, ma anche solo in percentuali (rispetto alla popolazione tutta). Risulta interessante verificare se l’approccio si avvicina al reale o se è decisamente fuori dalle righe. E nel caso di eccessivi errori o di proporzioni con altri Paesi europei non conosciute può diventare utile provare a capire perché si è sbagliato; qual è la fonte che ha ingrandito o ridimensionato la percezione del fenomeno. Un esercizio utile per uscire dagli slogan, dalle semplificazioni, ma anche dai pregiudizi e dagli errori mai evidenziati come tali!
Una cultura dell’accoglienza?
D. Le sembra che ci sia una «cultura» dell’accoglienza, dell’integrazione, del percorso pieno (facilitato) verso la cittadinanza nell’attuale sentire della gente (e dello Stato) nei confronti degli immigrati? O prevale ghettizzazione, paura, stereotipi e pregiudizi?
R. È curioso. Siamo in presenza di una politica dell’immigrazione che esprime, inutile negarlo, valori soprattutto di «controllo», di sfiducia e, quando necessario, di utilizzo dell’immigrato per i nostri bisogni («cerchiamo braccia»). Accanto a queste politiche sussistono però pratiche di solidarietà civile che molte volte contrastano, in linea di principio e per quanto riguarda i riferimenti valoriali, con questi indirizzi. Mi riferisco a quelle pratiche di parrocchie, di gruppi, di movimenti e di centri di aggregazione non confessionali (forze politiche comprese) che scelgono di esprimere istanze di accoglienza, di scambio, di confronto e di ricerca di un’integrazione possibile.
Istanze diverse. Spesso alternative. Soprattutto espressioni di logiche e di culture diverse. Da una parte vince la paura, ma anche la voglia di difendersi e di barricarsi in casa per impedire ad ogni straniero/nemico di avvicinarsi; dall’altra emerge il bisogno e il desiderio di aprirsi al nuovo, di incontrare, di cambiare e di confrontarsi con il fluire del vivere sempre diverso e mai uguale.
Compito della politica non è, a mio parere, quello di difendersi dal nuovo e di sprangare la propria identità per impedirne contaminazioni o possibili intrecci. Funzione di ogni amministratore è il permettere a storie diverse di incontrarsi e il ri-creare le condizioni perché linguaggi diversi possano reciprocamente ascoltarsi e riconoscersi. L’esperienza insegna che nel fluire delle «diversità» si cresce, si cambia, ma soprattutto si migliora. A questo proposito potrebbe tornare utile la metafora dell’acqua. Identità troppo rigide – a storia insegna – generano guerre, trincee e conflittualità insormontabili. La forza del nostro Paese è data dall’identità fluida che il mediterraneo ha permesso e favorito. Senza troppe trincee o rigidità. Non significa smussare i nostri riferimenti. Al contrario. Coincide con il trovare nella contaminazione e nel meticciato che fanno – a parole – così tanta paura, una spinta in più per capire chi siamo e dove andiamo; per capire come reciprocamente sostenerci e riconoscerci. Nel nostro mediterraneo sono nate le nostre grandi religioni che si raccontano e utilizzano tutte lo stesso libro: la Bibbia. Non abbiamo tutti radici cristiane, è vero, ma utilizziamo tutti lo stesso libro. Ebrei, cristiani e mussulmani si riconoscono attorno a questo libro. Tutti utilizziamo gli stessi numeri e soprattutto gli uni sono stati aiutati dagli altri nelle ricerca delle propria identità, cultura, tradizioni, feste… . L’immigrazione ci permette di ri-trovare queste radici per proporci percorsi nuovi. Non significa negare le difficoltà o i problemi che questi intrecci inevitabilmente comportano. Semplicemente ci impone l’obbligo del non pensare che per risolvere alcuni problemi si possa negare la storia o la verità «fluida» da cui proveniamo.
Problemi e ricchezze
D. Dove vede lei i problemi più urgenti rispetto all’immigrazione, sia dal punto di vista dei «cittadini», della popolazione locale, che degli immigrati? Dove vede le «ricchezze» che gli immigrati possono apportare alla comunità locale, al di là degli aspetti più esteriori e magari folkloristici?
R. Dentro ogni problema è nascosta la sua risposta e la sua ricchezza, la sua risorsa. Così mi insegnavano saggi professori ai tempi dell’Università. Ridurre l’immigrazione a sole questioni di folklore vuol dire non prendere coscienza di una di una trasformazione reale che ci attraversa. La questioni più emblematica resta però la capacità – per le nostre democrazie – di ri-pensare la nozione di cittadinanza oltre i confini degli stati nazioni e oltre le questioni di nascita. Non siamo ancora in grado di considerare «cittadino» chi con la sola presenza è vivo nei nostri territori o nei nostri mari. I tanti – troppo! – morti caduti nei mari che bagnano l’Italia sono la più grande provocazione a cui non riusciamo a rispondere. Muoiono. Sono persone. Adulti, anziani, bambini, ma non sono «cittadini». E questo il nodo, il problema o la sfida più alta a cui siamo chiamati. Un procedere che così illuminato riscriva la storia del diritto, della cittadinanza, della convivenza per apportare cambiamenti e soprattutto miglioramenti. Oggi bambini crescono insieme sugli stessi banchi di scuola, nei giardini e sulle piazze dei nostri comuni. Non sanno, questi piccoli, che alcuni di loro non sono cittadini perché non italiani. Da questa premessa si riuscirà poi a risolvere altri problemi quali casa, lavoro, salute… Ma la soluzione a questi problemi reali e di non facile soluzione sarà all’insegna dell’integrazione e non della separazione o della ostilità competitiva.
Le seconde generazioni
D. Quali specifici «problemi» o quali «risorse» rappresentano i minori, quelli di «seconda generazione»?
R. Sono stato avvicinato, in questi ultimi mesi, da italo-argentini di terza generazione che, giunti all’età della pensione in buona salute e con discrete risorse economiche, hanno cominciato a ripercorrere la storia della propria famiglia «a ritroso». Mi hanno contattato perché sindaco di un comune piemontese (Rivoli, in provincia di Torino) non molto distante dai tanti paesi da cui i loro nonni sono emigrati, all’inizio del ’900 per cercare lavoro e nuova dignità. L’analisi da questi amici presentata circa le diverse generazioni piemontese emigrate in Argentina è lucidissima.
La generazione dei loro nonni (i primi emigranti) erano così alle prese con istanze di sopravvivenza, nel Paese di accoglienza, da non aver avuto nemmeno il tempo di porsi questioni identitarie, occupati come erano nel ricercare per sé e per i propri figli il necessario per vivere.
La seconda generazione è quella dei figli, che crescono nel Paese di immigrazione e che incontrano non poche volte vergogna, pudore e perfino il tentativo di nascondere le radici italiane per illudersi di una presenza e di un inserimento totale, da sempre.
La terza generazione, quella dei nipoti, giunta alla maturità, si sente liberata dall’ansia di dimostrare la propria bravura e si ritrova disponibile e desiderosa di ricercare le proprie origini. Sono gli adulti che ho incontrato. Sono arrivati nei nostri Comuni italiani (e piemontesi, nel mio caso) alla ricerca di un’identità mille volte ascoltata nei racconti dei nonni, ma mai approfondita. Dati, informazioni, nomi, storie, tradizioni, riti, cibi, luoghi: sono alcune delle tante domande che mi sono state poste. E nel rispondere a questi quesiti e a queste curiosità ho rivisto l’uguale «tensione» di quanti oggi studiano sui banchi di scuola con i miei figli. Mi riferisco a quelli definiti dalla domanda quelli della seconda generazione. Sono pienamente inseriti nella vita dei coetanei. Uguali a loro in tutto, non possono però nascondere la loro origine. Si presentano e ostentano i medesimi codici comunicativi, ma non possono nascondere la provenienza dei genitori da un Paese lontano. Sono esposti al rischio di essere permanentemente stranieri. Tanto nei confronti della famiglia di origine quanto rispetto alla cultura dei propri compagni.
Fare in modo che questa condizione della seconda generazione diventi risorsa, eccellenza e soprattutto status dal quale non fuggire e non vergognarsi è il preciso compito della politica. Non significa sostituirsi alle reti primarie di famiglia, amici, concittadini…, ma fare in modo che dalle leggi e dalle istituzioni pubbliche parta verso chi è immigrato la profonda riconoscenza per il fatto di «regalare» al nostro Paese un ulteriore punto di vista. Parole facili a formularsi che devono però diventare «carne», storia, educazione e… leggi.
Favorire progetti
D. Quali per lei le tipologie di interventi in favore dei minori che possono essere vantaggiose? E vede metodologie particolarmente utili ed efficaci? Quale il campo dell’amministrazione locale e quali possibili interazioni e collaborazioni con altre associazioni del volontariato, di promozione sociale, le cooperative sociali, in una parola il mondo del terzo settore, le scuole?
R. L’amministrazione di Rivoli ha favorito progetti che penso possano essere considerati interessanti, al di là della specificità della città e dei suoi abitanti.
Innanzitutto un impegno di supporto scolastico per minori immigrati di scuole elementari e medie alle prese con i compiti a casa. L’idea è nata per far fronte alle difficoltà di alcuni genitori immigrati nel seguire i loro bambini nei compiti pomeridiani: un comparativo di maggioranza dell’analisi grammaticale o un teorema di Pitagora possono ingenerare difficoltà per genitori italiani, ma spesso sono problemi insormontabili per genitori immigrati chiamati dal figlio a dare una mano nella semplice correzione di un compito.
La proposta è stata indirizzata ai giovani del liceo (età 15-19 anni). È stato proposto loro un impegno serio, continuativo e di tipo individuale (uno a uno). Ad ogni giovane studenti un piccolo alunno della scuola dell’obbligo. Rigorosamente immigrato. Per sostenerlo nella fatica dei compiti e del ri-prendere o approfondire parti di programma non pienamente acquisite. Si sono messi in gioco con generosità i liceali. Maschi e femmine, non solo ragazze (anche questo dato è importante). Con alcuni risultati collaterali: aiuto all’ordine in questioni di tempo (fare di più aiuta a perdere meno tempo e ad organizzare meglio la propria agenda); sostegno scolastico per chi impartisce ripetizioni (solo chi insegna impara davvero!); migliore affettività e capacità relazionale (nella relazioni ciascuno si è coinvolto e ha visto il volto dell’altro sotto il segno della speranza, del diritto e della solidarietà, non della minaccia e o della paura).
Un’altra esperienza è quella che vede protagonisti un gruppo di immigrati da sette Paesi diversi (Marocco, Moldavia, Nigeria, Argentina, Perù, Cina e Tunisia) ora abitanti a Rivoli che si sono scoperti tutti accomunati dalla stessa professione di insegnanti svolta nei loro Paesi di origine. Si sono resi disponibili a fare corsi sulle culture delle loro tradizioni ai loro bambini e ragazzi che frequentano le scuole pubbliche di Rivoli, ma hanno pensato di aprire questi percorsi e incontri anche ai bambini italiani: per far conoscere la propria cultura di origine e per aumentare la conoscenza di altre culture.
Esperienze, vorrei essere molto chiaro, impossibili a realizzarsi senza una forte sensibilità del mondo scolastico, senza il supporto del mondo del volontariato e senza un tessuto sociale intriso dei valori costituzionali che intrecciano giustizia e solidarietà. Aiutare alla regia è il compito di un’amministrazione comunale, a mio parere. Senza sostituirsi a nessuno, ma pronti a sostenere la fatica di ciascuno perché il risultato del convivere risulti migliori per tutti.
Il fatto che in questo comune si sia realizzata una Consulta degli immigrati con tanto di consultazione aperta a tutti i cittadini non italiani residenti nel comune da almeno un anno e con più di diciotto anni è anche questo, credo, un segno del lavoro che in città si vuole realizzare per superare steccati, paure e incomprensioni.
D. Ancora sulle seconde generazioni. Dove vede lei il loro futuro? Siamo di fronte a modelli diversi di integrazione e di cammino verso la cittadinanza in Europa. Quali le specificità e le differenze? Si può parlare (se esiste) di un modello italiano? È in grado di avviare a una società interculturale e multireligiosa senza traumi, o l’Italia non è ancora matura?
R. Non so se esiste un modello italiano. Gli studi mi dicono però che le città romane (da cui proveniamo) erano proposta di convivenza per tutti, non tanto e non solo sede di una determinato stirpe o «gens» (come erano le polis greche). Fare delle nostre città un luogo, uno spazio e una sede di incontri, di coabitazioni e di convivenze «meticciate» può essere lo sforzo perché il modello mediterraneo esponga il massimo e il meglio di sé. Le seconde generazioni esprimono la loro rabbia e la loro non integrazione quando sono costrette a vivere confinate: in periferie escluse da tutto e non aperte al resto della città. In questo caso le multi-culturalità, le multi-religiosità, e le multi-tradizioni non si incontrano, non diventano inter-culturalità, inter-religiosità o inter-tradizioni. Trasformare un «multi» in «inter» è il lavoro che ci attende. Perché da ciò che può essere vicino, accanto o semplicemente appoggiato l’uno all’altro scaturisca un intreccio e un incontro che crea reciproca ricchezza.
Quella cultura evangelica che ha plasmato molte coscienze italiano può aiutare in questo lavoro. La forza della cultura italiana è sempre stata il mescolarsi, l’accogliere, il contaminarsi e il fare mescolare tra loro liquidi diversi: per un unico grande e migliore risultato finale. Con umiltà possiamo affermare che l’Italia diventerà matura per questo compito solo e se proverà ad attuarlo con serietà e determinazione.
Promuovere diritti e cittadinanza
D. L’educazione è uno dei diritti del cittadino e nello stesso tempo un grande mezzo di promozione della cittadinanza. Quali le modalità in cui essa può tradursi rispetto ai minori immigrati?
R. Educare è un processo continuo e graduale, che coinvolge ognuno in ogni momento dell’esistenza e nei vari contesti in cui si trova a vivere. L’educare non è e non può essere attività astratta che progetta in modo rigido e predeterminato, così come educare non deve diventare evento isolato che si può chiudere in questo o quel settore della vita.
Si educa (e ci si educa) sempre, lungo l’intero arco della vita: nel partecipare ai diversi contesti sociali cui prendiamo parte, attraverso incontri, esperienze, coinvolgimenti. Così inteso educare non necessita tanto di «corsi» (occasionali, sull’onda delle mode o delle emergenze…), ma diventa autentico «percorso» che promuove e rivisita il senso delle relazioni, che favorisce partecipazione, apprendimento, protagonismo, «fame e sete di giustizia» e che insegue – nella condivisione con altri compagni di strada – gli strumenti più appropriati perché giustizia e legalità restino intrecciati.
Educarsi ed educare si qualifica, di conseguenza, come impegno corale, esercizio attivo per costruire alleanze con tutte le forze presenti su di un territorio – nel rispetto della reciproca libertà e diversità – perché sempre più il luogo dell’»abitare» diventi realmente spazio di vita dove si rende possibile vivere e convivere nel reciproco educarsi grazie al dialettico confronto che l’incontro con ogni identità esprime.
Questo richiede che le diverse realtà sociali ed istituzionali presenti ed attive su di un territorio (famiglia, comunità, scuola, privato sociale, servizi, mondo dello sport, realtà ecclesiali, gruppi informali, mondo del lavoro e delle professioni…) siano disponibili a far convergere energie e risorse per pervenire ad orizzonti progettuali condivisi e per moltiplicare le opportunità di partecipazione presenti in quel contesto. Nel caso contrario, procedendo cioè in modo distinto e separato, non solo sarà evidente lo spreco delle risorse e l’inutile dispersione di energie, ma si dovrà fare anche l’amara esperienza dell’inefficacia degli interventi.
Molte volte, soprattutto in presenza di immigrati, si percorre la scorciatoia del separare i sentieri. Ci si illude che dividere le persone in base ai Paesi di origine possa facilitarne il crescere. Si cercano allora strutture, istituti o momenti educativi che separino gli uni dagli altri. Si tratta di illusioni, non tutte in buona fede. Ma funzionali a non far incontrare e soprattutto tenere divisi.I giovani (figli degli immigrati e figli nostri) intuiscono che in questo schema c’è qualche vizio di forma, c’è un errore.
Ma non sanno come afferrarlo, come evidenziarlo. Qualcuno, pigramente, si adegua. In realtà gli è così negata la straordinaria occasione non solo del dialogo, ma anche dell’incontro e del confronto.
Un percorso educativo condiviso e costruito insieme ci pungola però nella direzione del saper andare oltre rispetto ad astratte separazioni: di classe, di età, di etnia, di genere, di appartenenza religiosa...
Per promuovere cittadinanza attraverso il riconoscimento del diritto-dovere alla socializzazione è necessario creare e mettere a disposizione opportunità fondamentali, moltiplicando i luoghi ed i tempi della formazione e dell’informazione esistenti, in modo da riuscire ad incontrare le domande spesso inespresse nella vita dei ragazzi. Inutile negarlo: il bisogno di affettività, di comunicazione, di espressione e di valorizzazione delle proprie abilità, il bisogno di conoscere il mondo e del trovare «senso»… sono pulsioni vitali che accompagnano ogni ragazzo.
Quando – a questi ragazzi – vengono a mancare opportunità di incontro, di dialogo e di confronto non si negano solo possibilità di «parola», ma viene meno il diritto a crescere, viene minato alla radice il loro futuro.
Solo il saper «leggere i bisogni di chi cresce nel nostro Paese provenendo da altri contesti come ben precisi diritti» è punto di partenza per una reale ed efficace educazione ai doveri. Non dimentichiamolo mai: chi è orfano di diritti è straniero nella terra dei doveri.
Il futuro della legalità e della giustizia si gioca, di conseguenza, sulla nostra capacità di riconoscere ed articolare in modo preciso e puntuale i diritti di tutti e di ciascuno, perché ognuno si senta parte di una società in cui vi sia effettivo spazio per lui, nella sua concreta realtà di bisogni, limiti e desideri.
Si tratta dunque di riconoscere i ragazzi ed i giovani immigrati come «cittadini a pieno titolo», non pretendendo la loro «obbedienza» ma promuovendone senso critico e partecipazione, perché solo dal sentirsi parte attiva ed innovativa di un gruppo, di un’associazione, di una città e di una comunità di cittadini può spontaneamente scaturire in ognuno di loro il rispetto (critico e costruttivo) delle regole che governano la vita all’interno di quel gruppo, di quella comunità.
Consegnare a questi giovani il loro protagonismo significa perciò fare delle giovani generazioni dei moltiplicatori di cittadinanza democratica, legalità e giustizia; vuol dire costruire – tra i giovani – dei punti di riferimento tra «pari» per renderli educatori di se stessi in grado – essi stessi – di promuovere e progettare percorsi di rinnovamento per tutti.
Quando sei nato non puoi più nasconderti
D. Rispetto al «clandestino», che per definizione «non esiste» per nessuna istituzione, e che maggiormente avrebbe bisogno di vedere riconosciuti i suoi diritti, che fare? Esiste uno spirito rispetto alla lettera della legge che permette comunque possibili interventi, o tutto è lasciato alla «clandestinità» della carità o al rigore della legge?
R. Ho visto ultimamente un bel film: «Quando sei nato non puoi più nasconderti». La storia di un ragazzo italiano salvato da un barcone di immigrati disperati che tentano la traversata del mediterraneo per sopravvivere, per sfuggire alla morte per fame. Nel titolo la forza di una provocazione evidente, ma nascosta: «Quando sei nato non puoi più nasconderti». Clandestino è termine legislativo, non reale! Se sei nato non sei clandestino per la vita. Forse per una legge. Per una norma. Ma non per la realtà.
Ed è a questo proposito che va ribadito, a mio parere, che il solo terreno di incontro tra legge e carità è la giustizia. Senza tensione alla giustizia la legge è lettera morta; è principio astratto. Senza il fondamento della giustizia la carità è semplice assistenza; è sforzo per zittire una coscienza che consegna per pietà o per dono ciò che è dovuto per giustizia.
Nella giustizia il diritto non diventa favore e nemmeno merce. E a partire dal diritto si è «giusti» e pronti alla bontà, ma anche nel solco della legalità. Se si arresta questo circolo virtuoso legge e carità tornano a sostenere la clandestinità. Che in realtà non esiste.
La speranza e la voglia di futuro però esistono. Per ciascuno. Per tutti.