ADOLESCENTI OGGI
L’adolescenza come ricerca di senso /2
Antonella Arioli
(NPG 2015-08-64)
(Nell'articolo precedente:
- Oltre i vincoli temporali, al di là del disagio
- La dimensione esistenziale del fenomeno
- Ri-significare l’adolescenza)
Solitudine e chiusura
“Il sabato sera sedevo su una sedia nell’atrio del collegio, vicino al telefono, ad aspettare la chiamata di Naoko, Dato che di solito il sabato sera uscivano tutti, l’atrio era molto più deserto e silenzioso del solito. E mentre osservavo le particelle di luce che fluttuavano luccicanti in quello spazio silenzioso, mi sforzavo di leggere dentro di me. Che cavolo stavo cercando? E che cosa cercavano gli altri in me?” [1]
Tra le righe dello scrittore Haruki Murakami traspare come lo «stare in solitudine», in uno spazio silenzioso, possa costituire una condizione idonea per l’affiorare di importanti interrogativi esistenziali. Spesso, parlando dei cosiddetti «giovani», si fa riferimento al loro atteggiamento di chiusura: alla tendenza a isolarsi, al “bisogno di non parlare” [2] e di vivere la separatezza dal mondo degli adulti. Numerose metafore vengono impiegate per esprimere un simile vissuto: “stare su un altro pianeta”; “essere lontani mille miglia”; “tirare su un muro”, “chiudersi nel proprio mondo”, e via dicendo. Senza contare, poi, come tale chiusura solitaria possa essere interpretata sia come espressione di fragilità che di narcisismo. Si parla, a questo proposito, di “ritiro sociale” [3] per riferirsi alla strategia adottata da coloro che, sentendosi particolarmente vulnerabili, si rifugiano in attività che riducono al minimo i contatti sociali e la possibilità di ferite narcisistiche. Tuttavia, in una prospettiva che mette al centro il dinamismo della ricerca di senso, solitudine e chiusura possono paradossalmente denotare l’apertura al senso. Stare presso di sé, infatti, costituisce una condizione necessaria affinché l’esigenza di senso possa albergare con calma nell’interiorità della persona e trasformarsi, così, in un processo di attiva e consapevole ricerca di significati. Se non ci fossero spazi di solitudine riflessiva, probabilmente tale esigenza ‘scivolerebbe addosso’, non avendo il tempo di decantare nell’interiorità del soggetto. In questa prospettiva, essere-adolescente significa saper-stare in solitudine, coltivare tempi di intimità riflessiva con se stessi, ritagliarsi spazi per conto proprio senza chiudersi agli altri e al mondo della vita. L’esigenza di stare in solitudine e in chiusura, per di più, non riguarda solo i cosiddetti «giovani». Forse da questi ultimi viene maggiormente espressa, nonché agita in modi qualche volta eclatanti. Tuttavia, di certo, anche gli adulti e gli anziani hanno il desiderio di rifugiarsi in sé. La dimensione esistenziale (l’essere-adolescente che è in loro) richiede parentesi di calma e di quiete che gli consentano di ritirarsi dagli scambi intersoggettivi che puntellano le giornate, dagli ambienti affollati e caoticamente assordanti. Così, il bisogno di tracciare dei confini con l’esterno – che delimitino ciò che può entrare nell’ambito personale – preserva dal rischio di cadere nella dispersione. Il desiderio di avere «una stanza tutta per sé» rappresenta la volontà di ricercare un significato nelle situazioni concretamente vissute, piuttosto che “una preoccupante introversione, ma il necessario «ritirarsi» dal mondo per stare presso di sé” [4]. Uno spazio, quello della chiusura solitaria, che non è segnato da una «solitudine chiusa» bensì dall’intenzione di aprirsi ai significati per far-posto al manifestarsi del senso. Una riflessività che non coincide con l’eccessiva introspezione e concentrazione su di sé, quanto con la disposizione a vedere e sentire le potenzialità di senso. Assecondare il dinamismo della ricerca di senso consente, in altri termini, di realizzare quelli che V. E. Frankl chiama “valori di esperienza” [5]. Stare in solitudine, infatti, permette al soggetto di esercitare la capacità di godere delle esperienze della vita, di accogliere gli aspetti significativi delle situazioni e delle persone, di ricevere e riconoscere i valori presenti nell’arte, nella natura, nella vita. La ricerca del senso può essere ricondotta non solo a un modo attivo di relazionarsi al mondo, quanto anche a una «postura passiva» di contemplazione, necessaria affinché la persona possa lasciar-essere le possibilità di significato e comprendere i propri vissuti esistenziali. Un modo di essere, quello adolescenziale, che sa ripararsi dal frastuono assordante e dal caos distraente, per approcciarsi al mondo dei significati in forma di silenzi, momenti di vuoto e di solitudine.
Inquietudine verso il futuro
“Cominciò a insinuarsi dentro di me un nuovo sentimento irrequieto […] Avevo bisogno di movimento e non del placido scorrere dell’esistenza. In me c’era un eccesso di energia che non trovava posto nella nostra vita pacata. Mi investivano impeti d’angoscia che cercavo di nascondergli come qualcosa di brutto, e impeti di tenerezza e sfrenata allegria che lo spaventavano […] La mia mente, persino il mio sentimento erano impegnati, ma c’era un altro sentimento, quello della giovinezza, l’esigenza di movimento, che non trovava sfogo nella nostra vita pacata.” [6]
La protagonista di questo romanzo di Lev Tolstoj esprime, con una consapevolezza lucida e sofferta, essa avverte la tensione tormentata verso qualcosa che è «ancora da essere».
I «giovani» sono tradizionalmente dipinti come protesi verso il futuro, con lo sguardo rivolto al non-ancora. Tale orientamento (che, nella concezione dell’adolescenza qui proposta, riguarda chi è alla ricerca di senso a prescindere dai connotati anagrafici) coincide di fatto con l’originario poter-essere della persona. “L’Esserci – sostiene V. Iori – è sempre un poter-essere e questo poter-essere è sempre «in vista di» (ossia è un essere libero-per) una possibilità che gli è propria.” [7]. Il costitutivo poter-essere, dunque, indirizza verso l’avvenire e apre l’orizzonte del futuro davanti al soggetto: un orizzonte costantemente mutevole e caotico, che “non conosce né soggetti né oggetti, non ha parti distinte, né direzione, né inizio, né fine” [8]. Dunque un divenire che, stando così le cose, è matrice di profonda inquietudine nel soggetto poiché, mentre da un lato lo attrae, dall’altro lo disorienta e lo travolge. Ciò emerge frequentemente dai profili che vengono tratteggiati dei giovani «in crisi», preoccupati del loro futuro (più che del passato). Essi non sanno cosa vorranno fare o chi vorranno diventare: l’apprensione che investe l’avvenire non si risolve in progettualità esistenziale. L’inquietudine diventa, allora, paralizzante: la paura, l’indecisionalità, il rimandare all’infinito le scelte costituiscono alcuni tratti di questo modo di vivere il futuro, che assume i contorni della minaccia, dando forma a comportamenti rinunciatari, attendisti e passivi nei confronti dell’esistenza. Si profila un’attesa che, secondo il significato che ne dà E. Minkowski [9] coincide con la sospensione dell’attività accompagnata da una sensazione dolorosa di ansia, terrore e angoscia, poiché il soggetto sente incombere l’avvenire su di sé. Ma il sentimento di inquietudine nei confronti del futuro (visto come minaccia) può estrinsecarsi in modalità di segno opposto: nel voler bruciare le tappe voracemente, nell’improvvisazione e impulsività con le quali ‘ci si butta’ in esperienze sconosciute, nel non stimare il pericolo di taluni comportamenti a rischio, nel prendere le decisioni in modo superficiale e avventato, nell’illusoria credenza che le scelte siano sempre e comunque reversibili. Ciò esprime un’inquietudine spericolata, che porta il soggetto a sfidare senza cautela quanto intimamente avverte come minaccioso: l’avvenire, per l’appunto. Tuttavia si tratta di atteggiamenti, quelli visti fin qui, che a ben vedere non si riscontrano nei soli «giovani», bensì anche in adulti o anziani. Non si riferiscono a una specifica fascia d’età, quanto alla condizione esistenziale di chi è alla ricerca di senso. Pertanto, la paralisi nei confronti del futuro o, all’opposto, la spericolatezza nell’affrontare qualcosa che si percepisce come minaccioso costituiscono, nella prospettiva della ricerca di senso, due modi di vivere che vanno risignificati. Essi rappresentano infatti, seppur in forme distorte, la motivazione a intuire qualcosa di significativo: la tensione progettuale del soggetto. In quest’ottica, quei vissuti esistenziali nei confronti dell’avvenire assumono i toni dell’inquietudine creativa, esprimendo il tumulto interiore proprio di chi, essendo impegnato nel cogliere un significato da realizzare, vive una mescolanza di sentimenti che coniuga incertezza e intraprendenza, pensosità riflessiva e sperimentazione, attesa e attività. Anche il vissuto di transitorietà dell’esistenza può volgere in inquietudine creativa. Anziché bloccare qualsiasi iniziativa del singolo o portare ad azioni estemporanee e affrettate, può al contrario incentivare la ricerca e la realizzazione del senso. Proprio il percepire la fugacità del momento presente può spronare alla realizzazione delle possibilità di senso insite nelle concrete e irripetibili situazioni dell’esistenza: possibilità uniche proprio perché transitorie. A questo proposito dice V. E. Frankl: “se non sfruttiamo l’opportunità di attuare il significato intrinseco e come assopito in una situazione, esso passerà e se ne sarà andato per sempre” [10]. In una prospettiva fenomenologico-esistenziale si tratta, allora, di riconoscere, da un lato, che l’esigenza di senso può richiedere di fermarsi per rimandare alcune scelte, ponderandone i pro e i contro, in un fare pensoso che rivela la consapevolezza dell’irreversibilità delle scelte. Solo apparentemente il soggetto «non fa niente»: in realtà, la sua attività è riflessiva e ponderativa, e la sua incertezza diviene fonte di significato. Dall’altro, ciò significa comprendere che l’esigenza di senso esige, spesso, che la persona provi a sperimentare (e a sperimentarsi in) nuovi significati. Atteggiamento che, lungi dal risolversi inevitabilmente in spavalderia e superficialità, assume invece i contorni dell’intraprendenza e del protagonismo, incarnando semmai il principio del carpe diem. Nell’ambito della ricerca di senso, allora, l’inquietudine diventa una via per la scoperta e realizzazione del senso. Quella che V. E. Frankl individua nei “valori di creazione” [11], attraverso la quale il soggetto agisce la tensione al futuro, la progettualità esistenziale, la ricerca di nuove sfide. Un futuro, insomma, vissuto come tempo della possibilità.
Noia e apatia
“Per il momento basterà che ognuno ricordi quanto passa veloce una serie, anzi una ‘lunga’ serie di giorni quando si è a letto malati; è sempre il medesimo giorno che si ripete; ma siccome è sempre il medesimo, è poco corretto, se vogliamo, parlare di ‘ripetizione’; bisognerebbe discorrere di monotonia, di un presente immobile o dell’eternità. Ti recano la minestra di mezzogiorno come te l’anno recata ieri e come te la recheranno domani. E nello stesso istante qualcosa ti investe, non sai come né da dove: è un senso di vertigine, mentre vedi arrivare la minestra, le forme del tempo ti si confondono, confluiscono l’una nell’altra, quella che ti svela per vera forma dell’essere è un presente senza dimensioni nel quale ti si reca la minestra in perpetuo [12].
Thomas Mann descrive in modo approfondito il tempo della noia legato alla ricerca di senso. Egli lo tratteggia come uno stato temporale che dà una sensazione di vertigine, dove ogni cosa si ripete e si dilata. Proprio in questo dilatarsi, v’è lo spazio per pensare e riflettere.
È opinione comune che soprattutto i giovani si annoino come nessun bambino, adulto o anziano riesca a fare: “sono veri e propri professionisti della noia, funamboli dell’apatia […] Non riescono a pensare a nulla che li possa attrarre […]. Genitori e insegnanti cercano in tutti i modi di rianimarli: propongono attività, sport, ripetizioni o punizioni, ma i semiaddormentati fanno cenno di no, e non c’è verso di vederli risorgere dalla loro inerzia” [13]. Un vissuto, quello della noia, difficile da accettare, sia per i giovani che per i meno giovani. È stata definita, infatti, “una passione triste” [14] che, lungi dall’essere accompagnata da un senso di tranquillità e di intimo godimento, risulta per lo più permeata da un fastidioso sentimento di vuoto, di insoddisfazione e insidiosa agitazione. Come esprime E. Minkowski, attingendo alla sua esperienza nelle trincee: “eravamo oppressi dalla lunghezza e dalla monotonia delle giornate che si susseguivano e lottavamo contro la noia – fenomeno, come è ovvio, di natura essenzialmente temporale – che, come una massa morta e vischiosa, penetrava nel nostro essere minacciando di annientarlo” [15]. Non di rado, piuttosto che sperimentare l’angosciante sensazione di non aver nulla da fare (e forse, anche, da desiderare) il soggetto tenta di tacitare questo disturbante malessere evitando di comprendere ciò che, comunque insistentemente, si fa sentire. Egli elude lo sforzo di interrogare i propri vissuti, di nominarli e legittimarli, a partire dal coraggio di “accomodarsi frale cose” [16] che abitano la sua interiorità. Atteggiamento, questo, che non è appannaggio esclusivo dei giovani. Anche gli adulti, infatti, hanno paura della noia: cercano di scansarla non solo dalla propria vita ma, anche, da quella dei figli o degli educandi. Si tratta di un sottofondo emotivo comunque trasversale alla condizione umana, che appare nelle svariate forme della mancanza di iniziativa, del disimpegno, della noncuranza, del distacco. Un vissuto che si radica nella profonda situazione esistenziale del soggetto, rispecchiando il suo modo di «prender posizione» nelle situazioni dell’esistere. Anche il non-agire e il non manifestare un attivo interesse per alcunché costituiscono una modalità di essere, allo stesso modo in cui la non-scelta esemplifica, pur sempre, un atto si scelta. A un primo sguardo la noia comunica un modo di essere pervaso dalla mancanza di senso: il fatto che non vi sia nulla che attragga la volontà della persona. “In misura crescente – dice a questo proposito V. E. Frankl – l’uomo d’oggi è dominato da un sentimento di mancanza di significato […] che si manifesta principalmente sotto forma di noia e di indifferenza” [17]. Tuttavia, nella prospettiva della ricerca di senso, la noia può esprimere anche altro, trattandosi di un modo di essere che presenta diverse sfaccettature. L’esperienza della noia, infatti, può manifestare l’esigenza del soggetto di distanziarsi dal «corpo a corpo» con le cose, per immergersi in un «tempo quieto» che consenta l’emergere dell’esigenza di senso. Uno stato d’animo, dunque, che può indicare un processo interiore che anela ai significati dell’esperienza. Ma viviamo purtroppo in un’epoca in cui il tempo è accelerato, dove non è ammesso «prendere tempo», distanziarsi dalle situazioni e dalle attività per riprender fiato e stare presso di sé. Dietro al tempo della noia c’è il bisogno di ritiro interiore, di interporre una pausa fra le cose, di lasciar-essere l’intimo bisogno di senso. Se è vero, infatti, che il vissuto di vuoto spaventa, è altrettanto vero che chi è alla ricerca di significato avverte – più o meno consapevolmente - la necessità di frapporre qualche vuoto fra i tanti pieni (delle mille attività, parole, impegni). Su questa linea, se non ci fossero dei momenti in cui il tempo si dilata e «non si sa che cosa fare», chi è alla ricerca di senso non avrebbe l’occasione per elaborare i propri vissuti esistenziali, per comprenderli fino in fondo, concentrandosi su di essi e non sull’attività di turno da espletare. A questo proposito E. Minkowski parla del valore del tempo libero, “che ci consente di rilassarci realmente, di contemplare la vita attorno a noi e di confonderci con essa, di stare a colloquio con noi stessi spingendo lo sguardo sino al fondo del nostro essere, di riflettere, infine, senza che sia assolutamente necessario precisare lo scopo di queste riflessioni” [18]. Tale concezione dell’esperienza della noia contrasta la tendenza all’attivismo esasperato, che conduce le persone a riempire ogni fessura temporale per fuggire da sé: ad affastellare nella giornata miriadi di impegni (forse non tutti così necessari) che hanno la funzione di debellare i tempi-morti. Si tratta, per lo più, di attività «centrifughe», che hanno la funzione di portare lontano dal proprio Io. Non solo, poiché è proprio nella noia che le persone possono trovare lo stimolo a fare qualcosa: essa “esiste per indurci a sfuggire al «far niente» e per rendere giustizia al significato del nostro vivere” [19]. Dove per «far niente» intendiamo uno «stato di addormentamento» della coscienza che nulla ha a che vedere con quella che M. Heidegger definisce noia autentica: quella “che va e viene nelle profondità dell’esserci […] e rivela l’ente nella sua totalità” [20]. La noia autentica diviene tempo della possibilità, volto a dinamizzare, a trarre fuori dall’immobilismo, dopo che il soggetto ha goduto di un tempo quieto per far albergare l’esigenza di senso dentro di sé.
Una risorsa per l’esistenza
Da quanto detto fin qui, la risignificazione dell’adolescenza passa attraverso la risignificazione di quegli stati d’animo (spesso associati ai «giovani») che hanno come matrice la motivazione primaria di trovare un significato nell’esistenza. Stati d’animo che non riguardano solo i giovani, bensì coloro che impersonano la postura esistenziale dell’adolescenza, a prescindere dall’età. Coloro che continuano a ricercare un significato in cui credere, un compito da compiere, una sfida da affrontare. In questo quadro, la spavalderia diventa intraprendenza, la rabbia volge in determinazione, l’incertezza in prudenza nel ponderare le scelte, la delusione e lo sconforto divengono la molla per la speranza, la leggerezza e la superficialità curvano in lievità: ovvero, la capacità di ridimensionare le cose. Allo stesso tempo, nelle maglie dell’incertezza, della superficialità e dell’instabilità (che pur non si intende affatto misconoscere) possono trovare spazio anche l’originalità del singolo e la sua inventiva, nonché l’espressione di importanti risorse, quali la disponibilità al cambiamento, la convinzione di poter-essere anche in modo diverso, la compresenza di aspetti apparentemente opposti (quali la stabilità e il piacere per le novità; la dipendenza e la ricerca dell’autonomia), l’accettazione di polarità come fonte di creatività, il gusto per l’imprevisto, il non rifuggire il rischio, la coltivazione delle personali esigenze e la sana capacità di dire di no. Tutte qualità che fanno dell’adolescenza una risorsa per la vita: che mettono in luce come l’atteggiamento dell’«essere alla ricerca di senso» si possa tradurre nella capacità di stupirsi nonostante tutto, nella volontà di entusiasmarsi e di lasciarsi incessantemente interrogare dalle cose. Virtù adolescenziali, queste, da sviluppare e da coltivare nell’esistenza di ognuno, attraverso l’impegno di un’educazione che sappia orientare alla realizzazione di significati nell’esistere.
NOTE
[1] Tratto da, romanzo di H. Murakami, Norwegian Wood. Tokyo Blues, Einaudi, Torino, 2006.
[2] A. Fabbrini, A. Melucci, L’età dell’oro. Adolescenti tra sogno ed esperienza, Feltrinelli, Milano 1992, p. 54.
[3] G. Pietropolli Charmet, Fragile e spavaldo. Ritratto dell’adolescente di oggi, Laterza, Roma-Bari, 2008, p. 115
[4] D. Bruzzone, Viktor Frankl, cit. p. 192.
[5] V. E. Frankl, Logoterapia e analisi esistenziale, Morcelliana, Brescia 2005, pp. 84-86.
[6] Tratto dal romanzo di L. Tolstoj, Felicità familiare, Garzanti, Milano, 2001.
[7] V. Iori, Essere per l’educazione. Fondamenti di un'epistemologia pedagogica, La Nuova Italia, Firenze 1988, p. 117.
[8] E. Minkowski, Il tempo vissuto. Fenomenologia e psicopatologia, Einaudi, Torino, 2004, p. 18.
[9] Ibid., pp. 78-87.
[10] V. E. Frankl, Un significato per l’esistenza. Psicoterapia e umanismo, Città Nuova, Roma, 1990, p. 40.
[11] V. E. Frankl, Logoterapia e analisi esistenziale, cit., p. 84.
[12] Tratto dal romanzo di T. Mann, La montagna incantata, Corbaccio, 1992
[13] G. Pietropolli Charmet, Adolescenza. Istruzioni per l’uso, Fabbri, Milano, 2005, p. 17.
[14] G. Pietropolli Charmet, Fragile e spavaldo. Ritratto dell'adolescnte di oggi, Laterza, Bari 2009, p. 81.
[15] E. Minkowski, Il tempo vissuto. Fenomenologia e psicopatologia, Einaudi, Torino 2004, p. 14.
[16] R. De Monticelli, La conoscenza personale. Introduzione alla fenomenologia, Guerini, Milano 1998, p. 21.
[17] V. E. Frankl, Dio nell’inconscio. Psicoterapia e religione, Morcelliana, Brescia, 2000, p. 124.
[18] E. Minkowski, Il tempo vissuto, cit., p. 3.
[19] V. E. Frankl, Logoterapia e analisi esistenziale, cit., p. 143.
[20] M. Heidegger, “Che cos’è la metafisica?”, in Segnavia, Adelphi, Milano, 1987, p. 66.