Alla riscoperta del senso della messa
Carmine Di Sante
(NPG 2001-09-4)
LA STANZA DELLA PAROLA
La celebrazione della messa inizia con alcuni riti di introduzione: il saluto del celebrante all’assemblea, la richiesta di perdono, il «gloria» e la «colletta»: una preghiera rivolta a Dio e così chiamata perché con essa il sacerdote raccoglie (dal verbo colligere, da cui il participio colletta) le intenzioni dell’assemblea per presentarle a Dio. Ai riti di introduzione segue la liturgia della parola, caratterizzata dall’ascolto delle letture bibliche intervallate dalla risposta della comunità celebrante e da una preghiera detta preghiera dei fedeli.
Se la messa è come un grande edificio o palazzo, i riti di introduzione ne sono come l’atrio, mentre la liturgia della parola la sua prima stanza. Stanza immensa, dove risuona non una parola ma la parola che Dio parla e con cui si rivela «agli uomini come amici e si intrattiene con essi per invitarli e ammetterli alla comunione con Sé» (Dei Verbum 2). Di questa parola la bibbia è la traduzione narrativa e l’oggettivazione testuale. Ne è il racconto, tramandato e proclamato pubblicamente nello spazio liturgico e rituale.
Anche se nella chiesa, da sempre, la parola ha occupato un posto rilevante, si deve comunque al Vaticano II la sua riscoperta e la sua rimessa a fondamento del rito cristiano:
«Massima è l’importanza della Sacra Scrittura nella celebrazione liturgica. Da essa infatti si attingono le letture da spiegare poi nell’omelia e i salmi da cantare; del suo afflato e del suo spirito sono permeate le preci, le orazioni e gli inni liturgici. Perciò per promuovere la riforma, il progresso e l’adattamento della Sacra Liturgia, è necessario che venga favorita quella soave e viva conoscenza della Sacra Scrittura che è attestata dalla venerabile tradizione dei riti sia orientali che occidentali» (Sacrosanctum Concilium, 24).
Posta al centro del rito cristiano, la parola annuncia all’esistenza un al di là dell’esistenza che all’esistenza si offre come ordine, nel duplice senso di armonia, come nell’espressione «in quella casa regna l’ordine», che di imperativo, come nell’espressione «c’è stato l’ordine di espatriare». La parola di Dio è annuncio e svelamento di questo ordine, conformandosi al quale l’esistenza umana acquista la sua forma e il mondo da caos si fa cosmos, mondo «sette volte buono», compiuto e perfetto, come vuole il racconto della Genesi fin dall’inizio delle sue pagine.
L’ordine che la parola di Dio annuncia non riguarda, in primo luogo, il cosmo o la natura, ma l’uomo nella sua singolarità irriducibile. Pur essendo nel mondo, l’uomo non si definisce dal suo essere nel mondo, ma dal suo essere di fronte a Dio che gli parla e che, parlandogli, ne fa il suo partner al quale si confida, si rivolge come amico, comunica la sua volontà ed inizia con lui una storia d’amore, dove l’uno ha bisogno dell’altro e va alla ricerca dell’altro. L’ordine che la parola di Dio annuncia è l’ordine del dialogo e dell’amore, dove Dio parla all’uomo e ne attende la risposta: non quindi l’ordine impersonale ed universale, come l’ordine cosmico o naturale, ma l’ordine relazionale e interpersonale, quello dell’amore che accade tra Dio e l’uomo e tra l’uomo e l’altro uomo. Secondo il suo probabile etimo, ordine rimanda alla radice ordire, che vuol dire tessere. L’ordine è come l’insieme dei fili del ricamo che, nel loro essere intrecciati, acquistano forma e bellezza. Di qui la ragione per la quale l’ordine è sinonimo di armonia e di bellezza. Per la bibbia il luogo dove splende il vero ordine, in quanto sinonimo di armonia e di bellezza, non è il cosmo o la natura, bensì la relazione: quella tra Dio e l’uomo e quella tra l’uomo e l’altro uomo.
Per questo, nella bibbia, il vero ordine è l’ordine dell’amore: affermazione sconvolgente che, nella sua semplicità apparente, contraddice l’intera tradizione occidentale per la quale la natura è il modello di ogni ordine e dello stesso ordine politico, riproduzione, a livello antropologico, dell’ordine naturale.
Quando, con la modernità, l’idea della natura si dissolve, diventando da organismo vivente a res extensa, corpo cioè senza vita, come morto, si dissolve – e non poteva non dissolversi – anche l’ordine politico, come registra lucidamente il filosofo inglese Thomas Hobbes, per il quale gli uomini sono lupi accanto ad altri lupi, e l’unico modo per non autodistruggersi nella violenza è di istituire un patto sociale delegando alla composizione dei conflitti «il Leviatano», il monarca o sovrano dotato di potere incontrastato e repressivo.
Annunciando l’ordine dell’amore e facendo di questo il fondamento del reale la bibbia fa quindi un’affermazione straordinaria di cui è necessario cogliere l’originalità e la portata: per capire perché si differenzia da tutti gli altri grandi testi dell’umanità, ma soprattutto perché essa, situata al centro dell’edificio rituale, è proclamata e riascoltata continuamente dalla comunità celebrante la quale è tale – «comunità» appunto, cioè «un cuore solo e un’anima sola» o, secondo la terminologia classica, il «corpo di Cristo» – in forza della parola assunta a parametro del pensare e dell’agire, nell’istituzione di un ordine il cui principio è l’amore: «la Chiesa ha sempre considerato e considera le Divine Scritture come la regola suprema della propria fede; esse infatti, ispirate come sono da Dio e redatte una volta per sempre, impartiscono immutabilmente la parola di Dio stesso e fanno risuonare, nelle parole dei profeti e degli Apostoli, la voce dello Spirito Santo» (Dei Verbum 21).
La bibbia quindi come racconto dell’ordine dell’amore: dell’ordine che l’amore istituisce (genitivo soggettivo) e che è altro dall’ordine della natura e della ragione, e che dell’ordine della natura e della ragione è il sovvertimento. La bibbia, custodita nella prima stanza del rito cristiano, è il racconto di questo sovvertimento: di come l’amore di Dio sconvolge l’ordine degli egiziani e l’ordine degli ebrei, definendo oppressori i primi e oppressi i secondi, e istituendo un nuovo ordine dove gli oppressori sono delegittimati e gli oppressi liberati. È il senso luminoso e abissale del racconto del mare (il celebre racconto della traversata del mar Rosso immortalata in tutti i kolossal della bibbia) dove si narra:
«Il Signore disse a Mosè: ‘Stendi la mano sul mare: le acque si riversino sugli Egiziani, sui loro carri e i loro cavalieri’. Mosè stese la mano sul mare e il mare, sul far del mattino, tornò al suo livello consueto, mentre gli Egiziani, fuggendo, gli si dirigevano contro. Il Signore li travolse così in mezzo al mare. Le acque ritornarono e sommersero i carri e i cavalieri di tutto l’esercito del faraone, che erano entrati nel mare dietro a Israele: non ne scampò neppure uno. Invece gli Israeliti avevano camminato sull’asciutto in mezzo al mare, mentre le acque erano per loro una muraglia a destra e a sinistra. In quel giorno il Signore salvò Israele dalla mano degli Egiziani e Israele vide gli egiziani morti sulla riva del mare» (Es 14, 26-30).
Preso alla lettera e interpretato superficialmente, questo testo, al centro del racconto fondatore della bibbia, potrebbe far pensare ad un Dio violento che alla forza degli egiziani risponde con un più di forza con la quale li sconfigge e li annienta.
Ma altro è il senso del racconto fondatore: non che Dio è più forte degli egiziani, ma che egli è altro dalla forza del dio degli egiziani, e che l’ordine che egli instaura non è l’ordine in cui vige un di più di forza, ma l’ordine in cui regna l’amore per il quale non ci sono né devono esserci oppressi ed oppressori o vinti e vincitori, ma uomini e donne amati da Dio allo stesso modo e chiamati ad amare allo stesso modo. L’ordine dell’amore è l’ordine della filialità, dove, come in una famiglia, si proviene tutti dallo stesso padre, ed è l’ordine della fraternità, dove si gode della stessa dignità non perché uguali (i fratelli sono diversi per età, per simpatia, per intelligenza e per bontà!) o dotati delle stesse possibilità (un fratello resta tale anche se disabile e incapace di intendere e di volere), ma perché dentro lo stesso spazio d’amore che è donato e che, donandosi, chiama alla ridonazione.
Elevazione alla filialità e alla fraternità, l’ordine dell’amore, per la bibbia, è il sovvertimento di ogni altro ordine e, per essa, Dio è il soggetto di questo sovvertimento. È questo il senso non solo del racconto esodico, il racconto della disintegrazione dell’ordine o impero faraonico dissoltosi come un nulla nelle profondità del mar Rosso, ma di ogni altra pagina biblica che, del racconto esodico è il commento, la ripresa o il proseguimento, come quella di Giobbe dove, con un linguaggio poetico straordinario, il sofferente di Luz (la terra dalla quale Gobbe proviene), in risposta agli amici che lo vogliono convincere della sua colpevolezza, descrive la insondabile potenza di Dio che,
«rende stupidi i consiglieri,
fa impazzire i magistrati,
strappa ai re le loro cinture d’investitura
e li cinge ai fianchi d’una cintura di stracci,
fa vagare nudi i sacerdoti,
rovescia i politici,
toglie la parola agli oratori,
fa rimbambire gli anziani,
spande disprezzo sugli aristocratici,
allenta il cinturone dei militari,
rivela gli intrighi più tenebrosi,
porta alla luce le ombre,
innalza gli stati e li fa precipitare,
estende le popolazioni e le porta in esilio,
li fuorvia in orizzonti senza meta,
vanno a tentoni in un buio senza luce
barcollando come ubriachi».[1]
Il Dio che, per Giobbe, «rende stupidi i consiglieri», «fa impazzire i magistrati», «strappa ai re le loro cinture d’investitura», «fa vagare nudi i sacerdoti», «rovescia i politici», «toglie la parola agli oratori», «fa rimbambire gli anziani» (i depositari, nell’antichità, della saggezza, gli equivalenti, oggi, degli intellettuali), «spande disprezzo sugli aristocratici», «allenta il cinturone dei militari», «rivela gli intrighi più tenebrosi», «innalza gli stati e li fa precipitare», «estende le popolazioni e le porta in esilio», facendoli barcollare «come ubriachi», non è un Dio bizzarro che, con la sua arbitrarietà, si diverte a scompaginare il mondo facendone soffrire gli abitatori, ma un Dio-Amore che denuncia, nel mondo, l’occultamento del suo amore e che smaschera questo occultamento come la condizione di possibilità per la sua reinstaurazione. Riecheggiato nel canto del magnificat («ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore, ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili, ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato a mani vuote i ricchi»), il Dio che, per farsi instauratore dell’ordine dell’amore, deve farsi prima sovvertitore dell’ordine costituito, trova la sua epifania escatologica – cioè ultima e definitiva – nella «parola della croce» che, per Paolo, è moria, cioè follia e pazzia: «la parola della croce infatti è stoltezza per quelli che vanno in perdizione, ma per quelli che si salvano, per noi, è potenza di Dio» (1 Cor 1,18).
NOTE
[1] Gb 12, 17-25. La traduzione è di G. Ravasi, Il libro di Giobbe, Rizzoli, Milano 1989, p. 103-104.