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    Simone Weil e i «bisogni dell'anima»


    Simone Weil

    e i «bisogni dell'anima»

    Giancarlo Gaeta

    La riflessione di Simone Weil si propone non di creare un qualche sistema filosofico, ma di sviluppare una partecipe condivisione della condizione umana, colta nel vivo delle contraddizioni, delle lacerazioni e dei conflitti. Ne deriva una concezione etica, politica e mistico-religiosa che pone al centro non la collettività o l'astratta ipotesi ideologica della palingenesi sociale, ma l'essere umano in quanto tale, definito dalla sua unicità, dal suo ineliminabile bisogno di trascendenza e dal carattere obbligante, e insieme liberante, di relazione con l'«altro».

    Con la volontà e con il lavoro

    C'è una frase, scritta da Simone Weil ad AIbertine Thévenon nei mesi della sua durissima esperienza di fabbrica, che dice bene quale fu il sentimento che ella ebbe della propria esistenza. All'amica, figlia di operai, che aveva qualche difficoltà ad approvare la decisione di «farsi operaia», Simone gliene dà conto in questi termini: «Vedi, tu vivi a tal segno nell'istante presente – e ti voglio bene per questo – che forse non immagini nemmeno cosa voglia dire concepire tutta la propria vita davanti a sé e prendere la risoluzione ferma e costante di farne qualcosa, di orientarla da cima a fondo, con la volontà e col lavoro, in un senso determinato. Quando si è così – e io sono così, e allora so che cosa vuoi dire – la peggior cosa al mondo che un essere umano possa farti è quella di infliggerti sofferenze che spezzino la vitalità e quindi la capacità di lavoro» [1]. La vita di Simone Weil è stata in effetti uno sforzo prolungato fino al punto di rottura per dare forma a quel «qualcosa» senza il quale per lei esistere non avrebbe avuto senso. Un'esigenza personale, certo, ma che non si risolse in pura autoaffermazione nella misura in cui il senso impresso alla sua volontà e al suo lavoro fu di comprendere l'epoca che gli era stata data in sorte. La quantità di problemi sociali, politici, storici, filosofici, religiosi affrontati con estrema lucidità nel vivo dei conflitti, sempre presente e partecipe, dà la misura del compito che si era prefissa, avendolo precocemente individuato come il compito cruciale richiesto dalla crisi epocale dell'Occidente. Che ne sia rimasta in breve schiacciata e che abbia preferito lasciarsi morire nel momento in cui ha sentito spezzarsi la capacità di lavoro, non dovrebbe perciò sorprendere né lasciare spazio a facili giudizi psicologici. È più proficuo interrogarsi sulle sue scelte di vita nel contesto sociale, intellettuale e politico in cui è vissuta e con il quale si è misurata senza risparmio di energie, in uno stato di crescente isolamento [2]. Si capisce poco della traiettoria esistenziale e intellettuale di Simone Weil se non si tiene conto dello stacco tra la situazione di partenza: ambiente sociale privilegiato, eccezionali capacità intellettuali, il prestigio acquisito come filosofa normalista e la scelta di campo entro il quale esercitare il proprio pensiero. Tali in effetti sono state le scelte da lei operate sin dagli anni dell'École Normale, quando l'elogio dei suoi doni intellettuali non le impedì di volgere le spalle agli studi accademici, per immergersi nell'insegnamento liceale e nella militanza politica a fianco degli operai; scelta decisiva quanto inevitabile, data l'irriducibilità del suo pensiero ai caratteri e ai procedimenti codificati dalla ricerca corrente in ambito umanistico come in quello scientifico. Per lei conoscere ha voluto dire essenzialmente comprendere ciò che determina la realtà concreta in cui ci si trova a vivere, rendersi ragione del perché le cose in ciascun ordine della vita sociale stanno come stanno e a quali condizioni possono essere modificate per soddisfare i primari bisogni fisici e morali degli individui.

    Nel vivo delle contraddizioni

    Non si applicò dunque, come ci si sarebbe aspettato, alle grandi questioni intellettuali, magari nel tentativo di fondare una nuova scienza della società, bensì all'osservazione della concreta vita sociale e politica, che per essere compresa comportò per lei uno studio inedito da condurre nel vivo delle contraddizioni e dei conflitti in atto piuttosto che nel chiuso delle biblioteche. Soprattutto non bisogna sottovalutare ciò che per lei ha significato in termini di impegno fisico e intellettuale la sfida rappresentata dal lavoro in fabbrica, un'esperienza pensata e voluta come un compito conoscitivo indispensabile per nutrire di realtà il pensiero politico, misurando in concreto se e fino a che punto l'organizzazione imposta dal moderno lavoro industriale era compatibile con condizioni di lavoro e di vita non oppressive, e se dunque l'esito rivoluzionario avrebbe effettivamente potuto modificare la condizione operaia. Di fatto fu l'immersione in una situazione tragica, che non si lasciava afferrare con gli strumenti comuni della morale e della politica, che anzi ebbe su di lei l'effetto devastante di mettere fuori gioco proprio l'intelligenza [3], al punto che la sua tenuta psicofisica sul lavoro fu possibile soltanto a prezzo di un mutamento radicale della coscienza di sé [4].
    Ciò che Simone Weil guadagnò da questa scelta fu la definitiva uscita dall'universo delle rappresentazioni indotte dal privilegio e insieme una conoscenza sperimentale del mondo del lavoro, che invece restava paradossalmente estraneo a un'intellettualità che pure era ossessionata dai problemi della società e della politica. Questo personalmente significò per lei un mutamento profondo della coscienza di sé, al punto che se si volesse cercare un passaggio della sua esistenza in cui parlare di conversione potrebbe avere senso, sarebbe proprio quello che conseguì all'esperienza di fabbrica. Quanto all'impegno politico significò la presa d'atto della distanza estrema tra condizione proletaria e condizione borghese, poiché da una parte c'è «la classe di quelli che non contano – in nessuna situazione – agli occhi di nessuno (...) e che non conteranno mai, qualsiasi cosa accada» [5], mentre dall'altra c'è la categoria di quelli che a vario titolo contano qualcosa per il semplice fatto di essere collocati in una posizione che consente loro di esercitare la forza su quelli che contano zero. Agli occhi di Simone Weil, la vita in fabbrica si riassumeva in questa contrapposizione; è questo il dato di fatto primario, ignorando il quale si cade immediatamente nell'astrattezza, da parte delle organizzazioni operaie come da parte del cosiddetto padronato illuminato; cosicché «il problema è quello di sapere se, nelle condizioni attuali, si può arrivare a far sì che nell'ambiente della fabbrica gli operai contino qualcosa ed abbiano coscienza di contare qualcosa» [6]. Ma così posta, la questione operaia appare in una luce ben diversa da quella in cui la sinistra rivoluzionaria la leggeva ideologicamente; agli occhi di Simone Weil la classe operaia cessa di essere un mito e la questione che la concerne si trova infine,
    per usare la metafora marxiana, posta sui suoi piedi.
    È attraverso questa esperienza che la sua riflessione fu dunque depurata dai residui procedimenti speculativi a cui era stata educata [7] e le si impose con la forza dell'evidenza sperimentale la priorità assoluta di indagare ogni via utile a porre rimedio, per quanto parziale, ai devastanti effetti fisici, psichici e morali del meccanismo industriale. Effetti che incidono profondamente sull'intero corpo sociale, oramai costituito da una massa informe di oppressi in balìa di una società malata, in cui alla borghesia è assegnato il compito dell'oppressore in cambio del sentimento illusorio di contare per qualche cosa. Di qui nasce quella forma inconfondibile del pensiero weiliano, da lei stessa definita come «filosofia in atto e pratica» [8], cioè come esercizio critico della mente applicata all'analisi della civiltà attuale, nel convincimento che «la vita sarà tanto meno inumana quanto più grande sarà la capacità individuale di pensare e di agire» [9].

    Di fronte alla guerra

    Questa stessa ferma volontà di comprendere in situazione la spingerà a prendere parte alla guerra civile spagnola. Un'esperienza breve ma illuminante che le rivelerà «il carattere irreale della maggior parte dei conflitti emergenti», enunciati come sono mediante una terminologia che è tanto più vuota di significato quanto più atta, non appena se ne presentino le circostanze, a spingere irresistibilmente popoli e individui a versare fiumi di sangue, ad ammucchiare rovine su rovine, senza poter mai raggiungere realmente qualcosa che corrisponda alle parole per cui credono di battersi. Parole come nazione, sicurezza, capitalismo, comunismo, fascismo, ordine, autorità, proprietà, democrazia, nell'istante stesso in cui vengono assolutizzate e alzate come bandiere dietro cui schierarsi, si vuotano di ogni significato reale e trasferiscono chi le usa, aderendovi incondizionatamente, in un universo irreale in cui tutto diventa lecito, in cui «agiamo, lottiamo, sacrifichiamo noi stessi e gli altri in virtù di astrazioni cristallizzate, isolate, che è impossibile mettere in rapporto tra loro o con le cose concrete» [10].
    È così posta in primo piano la questione del linguaggio, un linguaggio usato come arma per uccidere, per distruggere, per dominare. Un linguaggio politico resosi autonomo dalle cose concrete, al pari e in continuità con quello della scienza e della tecnica: «Questa epoca sedicente tecnica non sa che battersi contro mulini a vento» [11]. Di conseguenza il compito che le appare urgente, e a cui vorrebbe che si applicassero quanti hanno ancora lucidamente a cuore le sorti della civiltà occidentale, sarebbe proprio quello di «chiarire le nozioni, di screditare le parole congenitamente vuote, definire l'uso delle altre attraverso precise analisi» [12]. In altri termini occorrerebbe restituire significato reale al linguaggio sociale e politico, ma di fatto questo è gravemente impedito dalla frattura consumata tra il pensiero scientifico, impegnato a risolvere i problemi più complessi con raffinati procedimenti intellettuali, e la capacità di esprimere un pensiero ragionevole a misura dei concreti bisogni fisici e morali degli individui in una società organizzata a misura dell'uomo; invece «sembra che in ogni campo abbiamo perduto le nozioni essenziali dell'intelligenza, le nozioni di limite, di misura, di gradualità, di relazione, di rapporto, di condizione, di legame necessario, di nesso tra mezzi e risultati» [13].
    In definitiva il compito che Simone Weil si assunse dopo l'esperienza di fabbrica e della guerra civile fu quello di sottoporre lo statuto stesso della politica a una revisione radicale, investendola con una esigenza di verità destinata a scontrarsi con l'opposizione a prendere in considerazione un pensiero che sembrava generato da una matrice culturale sconosciuta, i cui effetti pratici, se avesse trovato una qualche applicazione, avrebbero sconvolto abiti mentali, convincimenti e pratiche radicati nello spirito stesso dell'Occidente. Società, arte, scienza, religione e politica risultano parimenti investite da una critica che ne svela l'essenziale carattere menzognero e perciò oppressivo. Da una siffatta esigenza sono nati i grandi saggi degli anni tra il '37 e il '43, nei quali Simone Weil sottopose a revisione critica il percorso storico della civiltà occidentale, alla ricerca delle cause prossime e remote di una situazione tragica da cui non si sarebbe potuto riemergere senza porre le premesse di un nuovo inizio [14].

    Un ordine senza forma né nome

    Alla stessa esigenza è ispirata la ricerca frammentaria depositata nei Quaderni tra il 1940 e il 1943, straordinario laboratorio di un pensiero deciso a ricostruire per via sperimentale il corpo originario della filosofia nella sua unità e pluralità. Per lei non si trattava infatti di proporre un nuovo sistema filosofico, bensì di comunicare dei pensieri mano a mano che il loro contenuto di verità giungeva a maturazione, per ondate successive, senza bisogno in partenza di cercare tra loro connessioni, articolazioni, né successioni ben strutturate. Questo lavoro lo avrebbe forse fatto in qualche misura più tardi, ma non certo cedendo alla tentazione di sistemare gli oggetti della ricerca rispetto ad un unico punto di vista. Per lei si trattava piuttosto di apprendere a leggere simultaneamente su piani molteplici e dunque a pensare l'ordine non come una gerarchia precostituita dal pensiero stesso attraverso un procedimento logico dimostrativo, ma come relazione tra una molteplicità di letture: un «ordine senza forma né nome», secondo un passo fondamentale dei Quaderni [15]. Relazione che di per sé non si può comunicare, si può solo cercare di renderla sensibile attraverso opere che esaltino il rapporto tra una molteplicità di forme, una pluralità di letture [16].
    Ora, tale concezione non ha avuto per Simone Weil soltanto valore di opzione epistemologica, ma altresì una forte valenza sociale e politica. Le relazioni che si stabiliscono tra gli esseri umani e con la stessa natura non sono senza rapporto con le relazioni stabilite tra gli oggetti del pensiero, nel senso che maggiore è la differenza socialmente affermata tra gli esseri umani, più forte si fa l'esigenza di imporre un ordine gerarchico che investe ogni espressione della vita umana e del suo rapporto con l'ambiente naturale. Al contrario, per Simone Weil la differenza tra gli individui va riconosciuta come minima, benché si tratti di un minimo prezioso perché definisce la singolarità di ciascuno. Perciò non fa uso di categorie generali, di modelli di pensiero; non cerca di sistemare i fatti della realtà in schemi o sistemi conoscitivi; non si occupa dell'Uomo, ma della pluralità degli individui e dunque della condizione umana colta attraverso l'esperienza della loro situazione effettiva. Ne consegue che i pensieri nati da tale considerazione posseggono una loro inconfondibile fisicità, descrivono un universo realmente percepito e insieme svelano l'inevitabile arbitrio e violenza di pensieri e atti generati da visioni immaginarie, relativamente innocue finché restano espressione di singoli, devastanti non appena giungono a coagularsi in immaginari collettivi. Pensare in termini di differenza minima, significa d'altra parte sopportare una contraddizione che non deve essere tolta: tutte le creature, per il semplice fatto di essere tali, sono uguali, e insieme ciascuna è unica. Ma per cogliere la loro essenziale uguaglianza ed essenziale unicità occorre di nuovo andare oltre la forma, cioè oltre il potere di nominare e classificare, occorre rinunciare a tale potere; solo così l'esistenza dell'altro diventa reale al punto da sentirsi in obbligo verso di lui.
    Il pensiero religioso elaborato da Simone Weil negli ultimi anni di vita è già tutto implicito in questa concezione antropologica. La metafora della creazione come abdicazione di Dio alla sua onnipotenza, altro non è che l'esempio assoluto di rinuncia a comandare ovunque se ne abbia il potere e perciò un implicito invito alle creature a rinunciare a loro volta liberamente al proprio potere, o meglio all'immagine immaginaria di esso che ciascuno nutre a suo modo in se stesso, cosicché: «Al pari di Dio, che è al di fuori dell'universo e al contempo ne costituisce realmente il centro, ogni uomo immagina di essere al centro del mondo. L'illusione prospettica lo situa al centro dello spazio; un'illusione analoga falsa in lui il senso del tempo; e un'altra illusione simile fa sì che l'intera gerarchia dei valori si disponga attorno a lui. (...) Noi siamo nell'irrealtà, nel sogno. Rinunciare alla nostra immaginaria collocazione al centro, rinunciarvi non solo con l'intelligenza, ma anche con la parte immaginativa dell'anima, significa destarsi al reale, all'eterno, significa vedere la vera luce, ascoltare il vero silenzio» [17].
    Si precisa così una concezione religiosa in cui la rinuncia da parte della creatura a qualsiasi cosa che non sia il bene assoluto, e perciò la scelta di un «niente» invece di «tutto il bene esistente o possibile, sensibile, immaginario o concepibile, offertoci dalle creature», conduce alla «rivelazione che questo nulla è la pienezza suprema, la fonte e il principio di ogni realtà» [18]. Un «niente» che pertanto non è pura e semplice negazione [19], ma ciò che consegue allo svuotamento del sé che dice «io», per accogliere «l'Altro» che implora muto, avendo per primo rinunciato al possesso del creato. Si tratta di un'opposta modalità di vivere la condizione umana e dunque la relazione con l'insieme delle creature a cominciare dal prossimo. È questa per Simone Weil la religione dei mistici, altra rispetto a quella in cui domina l'elemento sociale [20], poiché non si tratta di aspirare ad essere parte di un corpo religiosamente connotato, bensì di acconsentire innanzitutto a che il Cristo viva in sé, diventando «in un certo senso ognuno di noi» [21].
    Nella concezione religiosa di Simone Weil è dunque in questione una radicale trasformazione dell'anima, di per sé non trasferibile a un intero popolo e che tuttavia ha indubbiamente effetto comunitario, nella misura in cui la scelta individuale del bene assoluto opera indirettamente nella vita sociale [22]. Pensa a un cristianesimo incarnato in coloro che hanno aderito al bene assoluto e che sono perciò in grado di infondere un'ispirazione autenticamente religiosa in tutte le forme di vita, si tratti del lavoro come dello studio, della ricerca scientifica come dell'espressione artistica e dell'azione politica. Ciò che per lei conta non è dunque che la nostra civiltà sia formalmente cristiana, ma che al centro della vita sociale come al centro dell'anima operi quell'«infinitamente piccolo» che fa la differenza tra un lavoro che consente l'accesso alla bellezza del mondo e uno che lo preclude [23]; tra un'applicazione allo studio che accresce il potere d'attenzione e una finalizzata al puro successo scolastico [24]; tra una ricerca scientifica permeata dallo spirito di verità e una che considera l'oggetto dell'indagine come al di fuori del bene e del male [25]; tra il collocare la fonte d'ispirazione dell'opera d'arte nel bene assoluto, volgendo il desiderio solo ad esso e il cercarla nei beni di questo mondo [26]; tra un impegno nella vita pubblica mosso dall'obbligo di rimediare per quanto possibile «a tutte le privazioni dell'anima e del corpo che sono suscettibili di distruggere o mutilare la vita terrestre di un essere umano, quale egli sia» [27] e uno dominato dallo spirito di partito, che è totalitario per sua natura e ispirazione [28].
    Sta di fatto che ('«infinitamente piccolo» è semplicemente ignorato dalla concezione di gran lunga dominante nella società analizzata da Simone Weil; non solo perché la nostra civiltà è dominata da una falsa idea di grandezza, dalla degradazione del senso di giustizia e dall'idolatria del denaro, ma perché in definitiva in essa è assente l'ispirazione religiosa [29], e questo a causa dello stato di degradazione in cui la vita religiosa stessa si trova, essendo da molto tempo pressoché priva dello spirito di verità, al pari della scienza e di tutto il pensiero [30]. Rimediare a un danno così grave, e che tanto ha segnato la storia e la cultura occidentale, comporterebbe necessariamente un mutamento radicale che abbia inizio col pieno recupero dell'autentica ispirazione cristiana, conservata, secondo Simone Weil, soltanto dalla mistica [31].

    I doveri eterni verso ogni essere umano

    Ciò che Simone Weil ha cercato di indagare e porre in evidenza negli scritti degli ultimi anni della sua breve vita è dunque sì un cristianesimo mistico, ma in cui la dimensione verticale, e perciò necessariamente personale, del rapporto con Dia ha un'incidenza profonda sulla dimensione comunitaria, che ritrova così il suo carattere propriamente religioso. Una religione purificata dal preponderante condizionamento sociale e perciò finalmente in grado d'incarnarsi effettivamente nel. l'epoca «senza precedenti» toccata in sorte a lei e che da allora non si può dire molto migliorata [32]. Vale a dire un cristianesimo in cui si dia «una soluzione armoniosa del problema delle relazioni tra individuo e collettività», avendo posto fine a quel «malessere dell'intelligenza» [33] determinato dal primato dell'appartenenza al corpo ecclesiale per la salvezza e quindi dall'imposizione del linguaggio collettivo sul linguaggio individuale, che per Simone Weil è invece l'unico attraverso cui si può realizzare un reale contatto con Dio [34]. E d'altra parte un cristianesimo che non si affermi più come l'unica religione vera, una Chiesa che non si affermi più come la sola portatrice di salvezza [35]. Ma in tal modo il cambiamento da lei invocato per la Chiesa non ha certo il carattere di una riforma per quanto profonda; ciò che lei ha in mente e che propone in forza della propria esperienza spirituale è un altro cristianesimo, al cui centro non c'è più l'istituzione ecclesiastica, da lei ricondotta alla pura funzione di conservatrice collettiva del dogma e dei sacramenti [36], ma quell'« infinitamente piccolo», che è la parte pressoché impercettibile, ma decisiva del soprannaturale nella vicenda umana [37]. È ispirandosi a una siffatta concezione religiosa che negli ultimi mesi di vita trascorsi a Londra Simone Weil ha delineato un rinnovato modello di società, profittando a suo modo del ruolo di «redattrice» che le era stato assegnato dal governo francese in esilio. Tra i numerosi testi stesi febbrilmente spicca il grande saggio rimasto incompiuto che porta il significativo titolo: Preludio ad una dichiarazione dei doveri verso l'essere umano, pubblicato postumo col titolo L'enracinement, in italiano La prima radice. Concepito come un manifesto in vista della ricostruzione intellettuale, morale e politica dell'Europa, esso muove dalla critica alla cultura dei diritti, che lei giudicava inficiata dall'errore, compiuto dagli uomini del 1789, di aver voluto «cominciare» con una nozione di ordine oggettivo, cosicché i diritti appaiono sempre legati a determinate condizioni e la loro rivendicazione ha senso soltanto se associata a una quantità di forza sufficiente a far sì che ottengano riconoscimento [38].
    Al contrario, lei pensava che occorresse cominciare con la nozione di obbligo, poiché è soltanto riconoscendosi in obbligo verso ogni essere umano per il semplice fatto che è un essere umano, dunque incondizionatamente, che il diritto è liberato dal vincolo che altrimenti lo lega alla forza; infatti primario è in questo caso non l'aspettativa che altri riconoscano un mio diritto, bensì l'obbligo ad esso corrispondente. Come Simone Weil scrive nelle prime righe del saggio, «l'adempimento effettivo di un diritto non proviene da chi lo possiede, bensì dagli altri uomini che si riconoscono, nei suoi confronti, obbligati a qualcosa» [39]. Un obbligo che perciò, diversamente dal diritto, sussiste di per sé a prescindere che venga o meno riconosciuto. Si tratta infatti di una nozione che non si fonda su se stessa, ma sul riconoscimento, universalmente verificabile, che l'esistenza di ciascuno, ne sia o no consapevole, è divisa tra la necessità imposta dalle condizioni di fatto e l'esigenza di un bene assoluto legata alla parte più segreta dell'anima umana, e che tuttavia «non trova mai alcun oggetto in questo mondo» [40]. Ora, è precisamente questa contraddizione ineludibile a testimoniare dell'esistenza di una realtà altra, trascendente.
    Per Simone Weil si tratta in definitiva di recuperare uno sguardo «religioso» sulla condizione umana, senza che questo comporti necessariamente l'adesione a una qualche forma di credenza. Infatti qui il convincimento del destino eterno dell'essere umano si risolve esclusivamente nel riconoscimento che «tutti gli esseri umani sono assolutamente identici nella misura in cui possono essere concepiti come costituiti da un'esigenza centrale di bene intorno alla quale è disposta la materia fisica e carnale» [41]; e che perciò si deve loro rispetto a prescindere dalle situazioni di fatto: nazionalità, razza, genere, collocazione sociale, condizione economica, valore morale, ecc. In effetti è sufficiente al riguardo il convincimento circa l'esistenza di una realtà altra rispetto a quella di questo mondo, la quale è «l'unico fondamento del bene» [42] e costituisce altresì «l'unico movente possibile per il rispetto universale di tutti gli uomini»; cosicché, «quale che sia la formula di credenza o d'incredulità che un uomo abbia voluto scegliere, colui il cui cuore tende a praticare questo rispetto riconosce di fatto una realtà altra da quella di questo mondo» [43].
    In altri termini, ad una concezione tutta immanente della vita umana, i cui rapporti sociali devono perciò trovare nel diritto la propria regolamentazione e che di conseguenza affida il riconoscimento dei diritti al mutare delle condizioni di fatto e perciò dei rapporti di forza, Simone Weil oppone una concezione che pone al centro non la collettività ma l'essere umano in quanto tale, vale a dire l'individuo nella sua specifica realtà psicofisica, la stessa testimoniata nelle espressioni più alte di tutte le civiltà. Come scrive ne La prima radice, «la coscienza umana su questo punto non ha mutato mai. Migliaia di anni fa, gli egiziani pensavano che un'anima non possa giustificarsi dopo la morte se non può dire: «Non ho fatto patire la fame a nessuno». Tutti i cristiani sanno di dover udire, un giorno, il Cristo dir loro: «Ho avuto fame e tu non mi hai dato da mangiare». Tutti si rappresentano il progresso come il passaggio ad uno stato della società umana nella quale, prima di tutto, la gente non soffrirà la fame. Nessuno, la cui domanda venga posta in termini generali, penserà che sia innocente chi, avendo cibo in abbondanza e trovando sulla soglia della propria casa un essere mezzo morto di fame, se ne vada senza dargli aiuto» [44].
    Così, è proprio l'obbligo più evidente tra tutti, quello di sfamare chi ha fame, a servire come esempio per compilare l'elenco di quelli che Simone Weil definisce «i doveri eterni verso ogni essere umano», rigorosamente corrispondenti a quei bisogni umani che sono, come il cibo, vitali, siano essi in rapporto alla vita fisica o alla vita morale. Certo, quelli che Simone Weil chiama «i bisogni dell'anima» sono più difficili da riconoscere e definire, perché occorre una forte capacità di discernimento per distinguere l'essenziale e l'accidentale, i bisogni reali, come quello di rispetto sia degli individui che delle collettività, di libertà, di uguaglianza, di giustizia, di verità, di ordine, di sicurezza, di obbedienza, senza il cui soddisfacimento si cade in uno stato analogo alla morte, e quelli indotti sia da desideri e fantasie personali sia da meccanismi socio-economici. Ma senza una siffatta operazione non c'è criterio che orienti con chiarezza la vita sociale, che ne definisca le priorità, che guidi l'esercizio dei poteri pubblici, al punto da costituirne il criterio della loro stessa legittimità [45].
    L'elenco stilato da Simone Weil può certo essere soggetto ad obiezioni e suscettibile di modifiche e integrazioni, ma questo non esime da un compito che diventa sempre più indispensabile, poiché oramai pensare daccapo i fondamenti di una convivenza sociale e della sua gestione politica ha rilevanza mondiale. Non dovrebbe sfuggire a nessuno che se si possono intraprendere guerre devastanti in nome della democrazia, è perché ci si può impunemente appellare ad essa come a una nozione sufficientemente vuota da poter essere di volta in volta riempita con contenuti di comodo. Lo stesso vale per ogni altra nozione, come libertà, uguaglianza, verità, ordine, sicurezza, a cui per lo più ci si richiama a vuoto. Si veda al contrario la definizione che Simone Weil dà ad esempio di uguaglianza, intesa come «riconoscimento pubblico del principio che un uguale grado di attenzione è dovuto ai bisogni di tutti gli esseri umani» e a fronte di questa la definizione di gerarchia come «scala delle responsabilità»; o il riconoscimento del bisogno per l'anima umana di avere radici in più ambienti naturali definiti dalla lingua, dalla cultura, da un passato storico comune; o ancora il fatto che ponga tra i bisogni vitali quello della verità, di cui in effetti non si parla mai, intesa concretamente come diritto per tutti di «avere accesso alla cultura dello spirito» e quindi il bisogno per l'intelligenza di potersi esprimere senza che alcuna autorità la limiti nell'esercizio della sua ricerca [46].

    Comprendere dove sta andando il mondo

    Penso che il modo migliore per rendere omaggio a Simone Weil a cento anni dalla sua nascita sarebbe di assumere la sua esigenza di comprendere dove sta andando il mondo e come ci sta andando, vale a dire di studiare i sintomi dei mali che lo affliggono, diagnosticarne la portata e individuare le condizioni indispensabili perché il rispetto verso l'essere umano in quanto tale sia realizzato in tutta la misura del possibile. A tale fine sarebbe indispensabile creare daccapo spazi aperti nei quali sperimentare forme di relazione, di riflessione e, quindi, di azione consapevole; vale a dire luoghi di conoscenza reciproca, di confronto, di progettazione del fare inserito in un territorio, in una situazione sociale concreta, in modo che chiunque lo voglia possa partecipare e sentirsi a casa propria; una forma autentica di socialità in cui sperimentare il privilegio del parlare e dell'ascoltare, del rispetto effettivo, della ricerca in comune, dell'apprendimento di linguaggi politici generati da situazioni vissute in determinati contesti umani e sociali. Nel pieno della catastrofe bellica, Simone Weil aveva sperato che si sarebbe profittato della necessità di ricostruire daccapo l'Europa per farlo su basi intellettuali e morali del tutto rinnovate, una ricostruzione necessariamente dall'alto per la quale le classi dirigenti risultarono largamente inadeguate. Oggi possiamo misurarne le conseguenze in tutti gli ambiti della vita sociale e spirituale, cosa che non ha molto accresciuta la capacità e la volontà politica a porvi rimedio. Ma ci si può sempre adoperare per immettere dal basso nel corpo sociale qualche germe di nuova vita.


    NOTE

    1. La condizione operaia, SE, Milano 1994, p. 124; ora anche in S. Weil, Pagine scelte, Marietti, Genova-Milano 2009, p. 106.
    2 L'ultima lettera ai genitori, pochi giorni prima della morte in un sanatorio del Kent, dice chiaramente il sentimento di inconciliabilità con un mondo tanto propenso a riconoscere la qualità eccezionale delle sue doti intellettuali, quanto indisponibile apre-stare attenzione al contenuto del suo pensiero. (Ecrits de Londres et dernières lettres, Gallimard, Paris 1957, p. 256).
    3 «Lo sfinimento finisce col farmi dimenticare le vere ragioni della mia permanenza in fabbrica, rende
    quasi invincibile la più forte delle tentazioni che comporta questo genere di vita: quella di non pensare più, unico mezzo per non soffrire» (Diario di fabbrica, in La condizione operaia, cit., p. 35).
    4 «Lentamente, soffrendo, ho riconquistato attraverso la schiavitù il senso della mia dignità di essere umano, un senso che questa volta non si fondava su nulla di esterno, sempre accompagnato dalla coscienza di non avere alcun diritto a nulla, e che ogni istante libero dalle sofferenze e dalle umiliazioni doveva essere ricevuto, come una grazia, come il mero risultato di favorevoli circostanze casuali» (da una lettera a A. Thévenon, La condizione operaia, cit., p. 127 e Pagine scelte, cit., p. 109).
    5 La condizione operaia, cit., p. 94.
    6 Ibid., p. 153.
    7 In una lettera del 1936 allo scrittore Jules Romains, autore di un romanzo dedicato alla vita operaia, Simone Weil rileva ciò che differenzia il suo modo di «sentire» la realtà della fabbrica rispetto a quello del romanziere, malgrado ella «abbia ricevuto esattamente la sua stessa formazione universitaria» (ibid., p. 259, nota).
    8 Quaderni, IV, Adelphi, Milano 1993, p. 396.
    9 Riflessioni sulle cause della libertà e dell'oppressione sociale, Adelphi, Milano 1983, p. 127.
    10 Non ricominciamo la guerra di Troia, in S. Weil, Pagine scelte, cit., pp. 113-115.
    11 Ibid., p. 115.
    12 p. 114.
    13 Ivi.
    14 Oltre ai saggi già citati si vedano Meditazioni sull'obbedienza e sulla libertà, in S. Weil, Incontri libertari, Elèuthera, Milano 2001; Riflessioni sulle origini dello hitlerismo, in S. Weil, Sulla Germania totalitaria, Adelphi, Milano 1990; L'«Iliade» poema della forza, in S. Weil, La Grecia e le intuizioni precristiane, Borla, Torino 1967; La scienza e noi, in S. WeiI, Sulla scienza, Borla, Torino 1971; L'ispirazione occitana, in S. Weil, I catari e la civiltà mediterranea, Marietti, Genova 1996.
    15 Quaderni, I, Adelphi, Milano 1982, p. 283.
    16 «Presentare nello stesso oggetto forme molteplici eleva lo spettatore (il lettore) al di sopra della forma. [...] L'universo deve essere a letture molteplici, come le opere d'arte» (ibid., pp. 284 e 285).
    17 Attesa di Dio, Adelphi, Milano 2008, pp. 118-119.
    18 Quaderni, III, Adelphi, Milano 1988, p. 189. Operazione impossibile nella condizione mondana, «ma l'impossibile è possibile a Dio. In certo senso soltanto l'impossibile è possibile a Dio. Egli ha abbandonato il possibile ai meccanismi della materia e all'autonomia delle creature» (Questa guerra è una guerra di religioni, in S. Weil, Sulla guerra, Pratiche Editrice, Mi ano 1988, p. 127).
    19 Simone Weil segna le tappe del processo di trasformazione nei termini seguenti: «Il nostro peccato consiste nel voler essere, e il nostro castigo è credere di essere. L'espiazione sta nel non voler più essere; la salvezza nel vedere che non siamo» (Quaderni, IV, cit., p. 248).
    20 Si veda Lettera a un religioso, Adelphi, Milano 1996, p. 42.
    21 Si veda Attesa di Dio, cit., pp. 40-41.
    22 «La natura stessa di una tale trasformazione impedisce che si possa sperare di vederla compiuta da tutto un popolo. Ma la vita intera di tutto un popolo può essere impregnata di una religione che sia completamente orientata verso la mistica. Solo questo orientamento distingue la religione dall'idolatria» (Questa guerra è una guerra di religioni, in Sulla guerra, cit., p. 127).
    23 Ibid., p. 128.
    24 «Se con vera attenzione si cerca di risolvere un problema di geometria e in capo a un'ora si è al punto di partenza, in ogni minuto di quell'ora si è comunque compiuto un progresso in un'altra dimensione più misteriosa. (...) Un giorno se ne ritroverà il frutto nella preghiera» (Sul buon uso degli studi scolastici in vista dell'amore di Dio, in Attesa di Dio cit., p. 192).
    25 «Dal rinascimento in poi - o, meglio, dalla se conda metà del rinascimento - l'idea della scienze è quella di uno studio il cui oggetto è posto al di fuori del bene e del male, soprattutto al di fuori del be ne; e considerato senza alcuna relazione né col be ne né col male, anzi, più particolarmente, senza nessuna relazione col bene. La scienza studia solo i fatti come tali e i matematici considerano le relazioni matematiche come fatti dello spirito. Se i fatti, la forza, la materia vengono isolati e considerati di per sé senza relazione con altro, non v'è in tutto ciò proprio nulla che un pensiero umano possa amare» (La prima radice, SE, Milano 1990, p. 227).
    26 «Per ogni spirito che crea (poeta, compositore matematico, fisico, ecc....) la fonte sconosciuta d'i spirazione è il bene verso cui si volge un desideri( supplice. Ciascuno sa per esperienza continua di ricevere l'ispirazione. Ma alcuni di questi spiriti concepiscono tale fonte come esistente al di sopra de cieli, altri come esistente al di sotto» (Quaderni, cit., pp. 205-206).
    27 Studio per una dichiarazione degli obblighi verso l'essere umano, in Pagine scelte, cit., p. 228.
    28 «Un partito politico è una macchina per fabbri care passione collettiva. Un partito politico è un'organizzazione costruita in modo da esercitare un« pressione collettiva sul pensiero di ciascuno degli esseri umani che ne sono membri. Il primo scopo e in ultima analisi, l'unico scopo di ogni partito politico è la propria crescita, e senza alcun limite. Per questo triplice carattere ogni partito è totalitario ne germe e nell'ispirazione. Se non lo è di fatto, è sol( perché gli altri partiti lo sono non meno di lui» (ibid. pp. 209-210).
    29 La prima radice, cit., p. 198.
    30 Ibid., p. 225.
    31 Ibid., p. 247.
    32 Si veda Attesa di Dio, cit., p. 58.
    33 Ibid., pp. 38-39.
    34 «La parola di Dio è la parola segreta. Chi non udito tale parola, anche se aderisce a tutti i dogmi insegnati della Chiesa, non ha alcun contatto con la verità» (ibid., p. 40).
    35 Lettera a un religioso, cit., pp. 48-49.
    36 Attesa di Dio, cit., p. 40 e Lettera a un religioso cit., p. 46.
    37 Questa guerra è una guerra di religioni, in Sulla guerra, cit., p. 130.
    38 La prima radice, cit., p. 13.
    39 Ivi.
    40 Studio per una dichiarazione degli obblighi verso l'essere umano, in Pagine scelte, cit., p. 225 (si tratta di uno studio preparatorio alla prima parte de L'enracinement).
    41 Ibid., p. 227.
    42 Ibid., p. 225.
    43 Ibid., p. 226.
    44 La prima radice, cit., p. 15.
    45 Si veda lo Studio per una dichiarazione degli obblighi verso l'essere umano, in Pagine scelte, cit., F 227.
    46 Ibid., pp. 231 sgg.

    (Testimonianze 468-469 [2009], pp. 21-30)


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