Intervista al card. Gérald Cyprien Lacroix
Gioele Anni
(NPG 2019-03-10)
Il cardinal Gérald Cyprien Lacroix cammina con passo incerto sui ciottoli scivolosi della collina di Monte Mario. «Accidenti, ho sbagliato le scarpe», si lamenta guardando i mocassini neri. È un omone alto e parecchio robusto. Pensava che il pellegrinaggio verso la tomba di San Pietro, negli ultimi giorni del Sinodo, sarebbe stato più agevole. «E sì che sono abituato. Ogni giorno a Quebec City mi alzo alle cinque e fino alle sei vado a camminare. Anche con trenta gradi sotto zero. Mi fermo solo se nevica, in quel caso vado a nuotare». È una delle mille sorprese che si scoprono parlando con quest’uomo gioviale, la voce potente da far immaginare buone doti da tenore. Per esempio, il suo curriculum: cardinale a soli 56 anni ma prete da quando ne aveva già 31. La vocazione è arrivata tardi grazie a sei mesi da missionario in Colombia. Prima, ne ha fatte di tutti i colori. L’infanzia tra Stati Uniti e Canada, poi tanti lavoretti precari e una quantità di talenti che non capiva bene come impiegare. Può comprendere la complessità del discernimento dei giovani, perché lo ha vissuto sulla sua pelle.
Prima di entrare in seminario ha lavorato in un ristorante, poi come grafico…
In realtà il primo lavoro è stato in una fattoria. In New Hampshire, negli Stati Uniti, dove la mia famiglia è emigrata dal Quebec quando avevo otto anni. Durante l’anno andavo a scuola, d’estate raccoglievo fragole e mirtilli. Lo facevo per aiutare i miei genitori, perché sono il più anziano di sette figli. Poi mio fratello ha iniziato a lavorare insieme a mio padre nel settore delle costruzioni, ogni tanto andavo con loro a costruire case.
E poi il ristorante.
A 18 anni, finita la scuola superiore, sono tornato in Canada e ho trovato questo lavoretto. All’inizio lavavo i piatti, poi sono passato ai tavoli. Ci sono rimasto per cinque anni. Amavo lavorare al ristorante perché si tratta di servire le persone, renderle felici e dare loro del buon cibo. In fondo è quello che faccio anche oggi, anche se non più in un ristorante! Do ancora da mangiare alle persone, ma con la Parola di Dio e il pane della vita.
E lo studio di grafica?
Era una tipografia, per sei anni mi sono occupato di design. Anche questo lavoro mi piaceva perché è molto creativo, non capita mai di fare due volte la stessa cosa.
Il suo percorso è simile a quello di tanti giovani nel mondo, che si ritrovano a fare un po’ di tutto mentre cercano la loro strada. Che cosa ha imparato da queste esperienze?
Prima di tutto mi hanno aiutato a capire il mondo del lavoro. So cosa significa essere un dipendente e doversi rapportare con un capo, avere delle persone che valutano il tuo lavoro a cui rendere conto. E poi ho imparato a lavorare in squadra con gli altri. Per tutto questo ringrazio il Signore, sono state esperienze importanti per la mia formazione.
Così come importante è stato l’incontro con i poveri, soprattutto in Colombia. Che cosa possono dare le esperienze di servizio caritativo a un giovane di oggi?
Credo che i poveri ci aiutino a riscoprire il senso della gioia. Le persone povere hanno molta gioia, più di quanto noi pensiamo. Poi hanno valori profondi, penso in particolare al senso dei legami familiari. In Colombia ho incontrato tanti uomini e tante donne che avevano poco, ma riuscivano ad aiutare chi era più povero di loro: sapevano condividere con i vicini. Ma la cosa più importante, forse, è che l’incontro coi poveri ci aiuta a guardare le persone e i loro bisogni reali. Il mondo oggi è così veloce e complicato, possiamo essere presi da tante cose che in fondo non sono necessarie. Questo è un pericolo che vedo soprattutto per i giovani. Dove sono stato io non c’era elettricità, né telefono, né cavi, né strade… Ma c’era la gente. Per questo un’esperienza coi poveri è utile, e incoraggio sempre i giovani a mettersi in gioco e magari a partire per un periodo in missione.
Tra le sfide di cui si è parlato al Sinodo c’è anche la necessità che la Chiesa possa essere più vicina alle persone, in particolare ai giovani. Anche per questo lei ha profondamente riorganizzato la struttura della diocesi di Québec. Prima della sua nomina le parrocchie erano 216: nel 2020, a processo completato con decine di accorpamenti, saranno solo 37. Quali risultati sta ottenendo?
Abbiamo fatto questo cambiamento per vari motivi, ma il primo e più importante è il desiderio di mettere in pratica la conversione missionaria per essere “Chiesa in uscita” come ci chiede papa Francesco. Uscire per arrivare alle persone che non conoscono Gesù Cristo o che si sono allontanate dalla Chiesa e non stanno crescendo nella loro fede. A Québec ora abbiamo sempre 241 comunità, come prima, ma le abbiamo raggruppate arrivando a metterne insieme anche dodici o quindici sotto la stessa parrocchia. La differenza è che prima c’erano quindici sacerdoti per ognuna delle comunità, ma oggi non abbiamo abbastanza preti. E non abbiamo neppure abbastanza laici che possano avere il ruolo di guide. Per questo abbiamo deciso di costituire delle équipe pastorali a servizio delle varie zone e abbiamo chiesto ai membri delle comunità più piccole di condividere la fede tra loro. Così che una domenica la messa è in una comunità, la domenica successiva in un’altra, e così via. Per i fedeli che non possono spostarsi dal loro paese c’è la celebrazione della Parola di Dio. Vogliamo dare a tutti la possibilità di incontrarsi, cantare, ascoltare le scritture e stare insieme in fraternità. So che non è la stessa cosa di poter celebrare l’Eucarestia, ma semplicemente al momento non abbiamo abbastanza sacerdoti.
Questo in effetti avviene già in molte parti del mondo, dove i cristiani sono una minoranza e le comunità sono piccole: un sacerdote consacra l’Eucarestia ma non celebra la Messa ogni domenica. Quali altre azioni di riforma volete intraprendere?
Stiamo puntando sempre più sulla formazione dei laici, incoraggiandoli a partecipare alla vita parrocchiale come guide nel livello locale. È importante che i laici possano essere maggiormente coinvolti nella vita della comunità, così che per esempio il sacerdote non si debba occupare dell’amministrazione o delle questioni logistiche. Ecco, forse il punto centrale è questo: i preti sono pastori, si occupano di persone. È un processo di conversione, ma sta andando bene. È molto difficile, richiede un grande cambio nell’attitudine, e nella pratica operativa. Ma non possiamo continuare a fare le cose come si è sempre fatto, come dice il Papa nell’Evangelii Gaudium. E noi stiamo provando a prendere sul serio l’Evangelii Gaudium.