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    L’educazione cristiana dei giovani e i suoi fondamenti antropologici



    Salvatore Currò

    (NPG 2014-02-9)

     

    IN SINTESI
    L'Autore prende le mosse da un diffuso senso di stanchezza e di incertezza nell'agire pastorale – suffragato anche da una "fatica" a pensare il nuovo – che molti operatori avvertono dalla propria prospettiva e dalla parte dei giovani stessi. Ciò può essere occasione per una verifica e una riflessione, che vada oltre il dato "sensibile" per attingere a ragioni vicine ai "fondamenti" dell'azione pastorale stessa.
    Egli propone dunque un cammino di revisione o anche "rottura" di categorie consolidate, per puntare direttamente al cuore del problema pastorale: il rispetto della verità stessa di Dio e dell'uomo.
    Due sono allora le strade indicate per una riflessione che si traduca in nuova pratica: il prendere sul serio l'umanità del giovane e i suoi bisogni più profondi; e la comprensione della sua autentica identità umana come superamento di una antropologia dell'io nella riscoperta di una radicale alterità.
    Il diventare "più uomo" del giovane (e la proposta educativa in questo senso) non è a scapito dell'annuncio del Vangelo e della radicalità di esso, bensì la premessa e la condizione necessaria, e una delle vie maestre, per una "evangelizzazione" che arrivi al cuore dei giovani.
    Un linguaggio anche "paradossale" per attingere e giungere al paradosso del mistero cristiano e dello stesso cuore dell'uomo.


    L’impegno educativo e pastorale della Chiesa per i giovani ha bisogno di una verifica che ne rivisiti i fondamenti stessi. La sensazione è che tante esperienze siano attraversate, nel fondo, dalla fatica di un vero incontro coi giovani, dalla stanchezza, dall’incertezza per il futuro. Le esperienze che fanno capo alla parrocchia, centrate sul desiderio di comunicare la fede e sulla proposta di itinerari di vita cristiana, attestano un certa capacità di coinvolgere, ma anche un senso di rassegnazione; sembra che il dialogo sulla fede trovi disponibili ormai pochi giovani, essendo la gran parte di essi dentro un’onda di secolarizzazione e di disaffezione ecclesiale. Le esperienze più centrate sull’educazione e sulla maturazione umana (ad es. l’oratorio, la scuola cattolica), anche quelle più vivaci per le attività e per la partecipazione, sembrano attraversate da incertezza: si avverte una certa significatività educativa e sociale delle proposte, ma anche una grande insignificanza in rapporto alla fede; gli educatori cristiani (ad es. i religiosi responsabili dell’attività) si interrogano sul senso del loro servizio e della loro testimonianza.
    Non ci si può accontentare di guardare a qualche esperienza riuscita (o che sembra tale), né di richiamarsi a un maggior zelo pastorale. Non ci si può arroccare su quel che si è sempre fatto, né lasciarsi prendere dal gusto della novità come tale. Non ci si può nemmeno fermare ad analisi settoriali e unilaterali: né alle analisi sociologiche, né alle interpretazioni pastorali parziali, che mettono l’accento ora sui metodi, ora sulle mediazioni linguistiche, ora sulla necessità di riproporre con forza l’annuncio del vangelo. Occorre fermarsi un po’ e fare una riflessione a tutto campo e su un piano più fondamentale. D’altra parte, l’ambito dell’educazione cristiana dei giovani è rivelativo di problematiche più globali, che hanno a che fare col senso stesso dell’essere cristiani e dell’essere Chiesa o, più radicalmente, col senso dell’essere uomini e donne oggi; problematiche non solo dei giovani, ma di tutti. La questione culturale si incrocia con la questione teologica, o teologico-pastorale, del senso o della verità della fede; e questa si incrocia con la questione del senso, o della dignità e verità, della vita umana. Solo una riflessione di ampio raggio, capace di andare ai fondamenti, può aiutare a cogliere più in profondità i problemi e a ritrovare la speranza, intravedendo vie di futuro.
    Si tratta di individuare vie dalla misura alta [1], che siano all’altezza dei tempi attuali e allo stesso tempo all’altezza della Rivelazione cristiana. La riflessione pastorale si è misurata, nei tempi recenti, con le provocazioni culturali e dell’esperienza giovanile, interagendo con le scienze sociologiche, dell’educazione e della comunicazione; ha interagito meno con le discipline teologiche e con quelle relative ai fondamenti (filosofici e teologici), ad es. l’antropologia filosofica o la teologia dogmatica. Si è dato quasi per scontato che il problema fosse di mediazione culturale, di creare ponti tra il messaggio cristiano (considerato in genere in modo statico o come un contenuto) e la persona. Non si è colto che la questione è più radicale; più che questione del senso che la proposta cristiana può avere per l’uomo di oggi, è questione di verità del cristianesimo e, allo stesso tempo, di verità dell’essere uomini e donne; questione di oggi, ma, in buona parte, questione di sempre. La non consapevolezza di questo piano più fondamentale ha finito per mettere in luce che certe esperienze pastorali, al di là delle aperture di facciata, non rispondevano non solo ad alcune esigenze della tradizione cristiana ma, alla fine, nemmeno alle esigenze culturali attuali e alle istanze più profonde dei giovani.
    Vorrei suggerire una via nuova da praticare e su cui riflettere, invitando a raggiungere il piano dei fondamenti antropologici (filosofici e teologici) della pastorale e dell’educazione. Propongo una riflessione in due tempi o, più esattamente, su due piani strettamente connessi. Il primo piano è quello più direttamente educativo-pastorale: tenterò una lettura, in chiave antropologica, dell’attuale prassi educativa e pastorale e sosterrò l’idea di ridare centralità, nell'azione coi giovani, alla prospettiva educativa rispetto alla prospettiva pastorale. Il secondo piano è quello antropologico: cercherò di esplicitare l’antropologia già in azione nel primo tempo, come chiave interpretativa, e di mostrarla all’altezza e dell’umano e della Rivelazione cristiana; è un’antropologia del sé che vuole rompere con l’antropologia dell’io. I due tempi o piani sono strettamente connessi.
    La riflessione può dare la sensazione, in alcuni momenti, di un recupero di qualcosa che la prassi educativo-pastorale ha perso per strada; non è nel senso di un ritorno indietro nel tempo, ma nel senso di un riandare alle sorgenti della tradizione educativa ecclesiale e della Rivelazione stessa per ritrovare la profezia di cui oggi c'è bisogno. Ciò implica l’andare un po’ controcorrente.
    Nella mia proposta c'è una certa esigenza di rottura o di discontinuità con il modo di pensare attualmente prevalente negli ambiti della pastorale giovanile, dell’educazione religiosa e della catechesi. Il pensiero prevalente, tra l’altro, come cercherò di mostrare, ruota attorno a preoccupazioni di integrazione, di sintesi, di raccordo tra esigenze diverse. Mi sembra, invece, che ci sia bisogno oggi di tener vivi la disintegrazione, il disaccordo, le asimmetrie, e che ciò abbia a che fare con una più sincera apertura alla trascendenza e con una più vera (umanamente e cristianamente) esperienza di fede. Perlomeno, c’è bisogno di un linguaggio più paradossale, più alla misura del paradosso cristiano e del paradosso iscritto, come vedremo, nel cuore di ogni persona.

    1. DALLA PASTORALE GIOVANILE ALL’EDUCAZIONE CRISTIANA DEI GIOVANI

    La svalutazione dell’umano nella prassi ecclesiale

    La recente pratica educativa e pastorale coi giovani si è allontanata dall’umano, svalutandolo e, in fondo, non abitandolo. Questa affermazione può apparire assurda, tanto più se si tiene conto che il rinnovamento pastorale e catechistico del dopo concilio, in gran parte orientato verso i giovani, ha fatto proprio dell’attenzione all’umano (all’esperienza e ai problemi umani) uno dei suoi punti di forza. Ci si è misurati con la situazione concreta (culturale ed esistenziale) dei destinatari, pensandoli come soggetti attivi; si è fatto uno sforzo di inculturazione del vangelo e di ricerca delle mediazioni più adatte per favorirne l’accoglienza; ci si è adattati ai ritmi e ai processi di crescita e di maturazione umana delle persone. E, tuttavia, questi sforzi di avvicinamento all’umano hanno sotteso spesso, su un piano più fondamentale, proprio una presa di distanze dall’umano. In che senso? La preoccupazione che la proposta cristiana raggiunga l’umano (la vita) suppone già, a pensarci bene, una separazione tra proposta e vita; così come la preoccupazione ecclesiale di raggiungere il mondo, portandovi il vangelo, per quanto lo si voglia portare in modo inculturato, suppone già una frattura tra Chiesa e mondo, tra vangelo e vita. L’evangelizzazione, quando è troppo vissuta nella prospettiva di colmare il fossato tra il vangelo e l’umano, tra fede e cultura, pensa vangelo e umano, fede e cultura, come realtà in fondo giustapposte. Essa, così, cerca di colmare un fossato mentre, in realtà, lo crea.
    Questo dualismo è stato alimentato da una lettura della società e della cultura giovanile che ha privilegiato le categorie della secolarizzazione e della scristianizzazione, esaminando, di volta in volta, il distacco, più o meno forte, dei giovani dalla Chiesa, dalla pratica religiosa, dalla tradizione cristiana. Tale lettura, sostenuta da tanta sociologia della religione, valorizzata in ambito ecclesiale, rimane animata, nel fondo, da un desiderio di riconquista del mondo (del mondo giovanile), certo con modalità dialogiche, rispettose della libertà, orientate a mostrare che il vangelo riempie di senso la vita, o, detto altrimenti, che vangelo e vita possono integrarsi. Ma se il vangelo dona senso alla vita e se la vita ha bisogno di integrarsi col vangelo, ciò vuol dire che la vita in sé manca di senso. L’atteggiamento del raggiungere o del conquistare l’umano, oltre che essere unilaterale e consacrare una separazione, nasconde un senso di svalutazione dell’umano [2]. L’umano non vale in sé, ma acquista senso nell’incontro col vangelo. L’umano, in sé, è povero, raggiunge pienezza e ricchezza nell’accoglienza del Cristo.
    Tanta pastorale, e quella dei giovani in particolare, si è giocata e si gioca nella polarità: povertà (di senso) e ricchezza (pienezza) di senso, bisogno di salvezza e riempimento di salvezza (che viene dal Cristo). Il bisogno di salvezza può essere più o meno consapevole o nascosto; può essere interpretato più o meno esistenzialmente, ad es. come bisogno di senso, sete di autenticità, di pienezza di vita, ma rimane sempre un bisogno. La proposta cristiana è dalla parte dell’offerta della salvezza; in termini moderni, del senso. La vita umana prenderebbe senso a partire da un messaggio, un evento, che verrebbero da fuori; di cui sarebbe portatrice la Chiesa. Ma, in questa mentalità, che ne è di quella «legittima autonomia» delle realtà temporali, di cui parla la Gaudium et Spes (n. 36)? Che ne è della bontà in sé della creazione e della vita umana? Che ne è di quello sguardo buono o molto buono di Dio sul creato e sull’uomo (v. Gen 1, 4 ss. e 1, 31)? L’appello più decisivo come anche il dono più grande della vita non potrebbero essere scritti all’interno stesso della vita? Spostare troppo l’accento sul rapporto esperienza-vangelo non significa distogliere l’attenzione dal richiamo di Cristo che è già nella vita stessa e che andrebbe risvegliato?
    Di fatto, ci si è preoccupati più di interessare a Cristo che di orientare a rispondere al auo richiamo di verità, che ciascuno si porta dentro. È prevalsa l’idea che solo dopo aver accolto Cristo l’umano si apre alla sua verità, quando invece potrebbe essere il contrario: se si ha il coraggio della verità, con se stessi, con gli altri, e quindi anche con Dio, si può apprezzare il vangelo, avvertendone tutta la forza di provocazione e di promessa. Molto dibattito pastorale e catechetico si è concentrato sulla correlazione tra l’antropologico e il teologico; alla fase dell’enfasi sull’antropologico è subentrata, più recentemente, quella dell’enfasi sul teologico, che significa una maggior attenzione ai contenuti biblico-teologici e alla proposta della dottrina cristiana. Ma anche l’attenzione antropologica era orientata, pur con accentuazioni diverse, a favorire l’accoglienza dei contenuti della fede; semplicemente, si voleva mostrare il carattere esistenziale della proposta cristiana. La polarità antropologico-teologico rimane, dunque, all’interno di una preoccupazione di mettere in rapporto col vangelo, più che con la verità di se stessi.
    D’altra parte, mostrare e comprendere il carattere antropologico del cristianesimo non significa ancora abitare l’umano. Il mostrare (dal punto di vista dell’evangelizzatore) e il comprendere (dal punto di vista dell’evangelizzando) rimangono sul piano dell’interpretazione (del vangelo e della vita) e suppongono, a pensarci bene, un atteggiamento di sguardo sulla vita, di dominio del territorio, un atteggiarsi a proprietario. L’abitare [3] dice di più: dice un coinvolgimento più forte, un mettersi in gioco; certo, anche un esercizio di proprietà, ma anche un esporsi ad altro e agli altri. L’abitare è un entrare in contatto con gli altri, sullo stesso terreno. Tanta pastorale non è nel segno dell’abitare lo stesso territorio. L’evangelizzatore abita il terreno ecclesiale, dell’interesse per il Cristo e della coscienza che Lui è il Salvatore; l’evangelizzando, o meglio: l’altro (perché chiamarlo evangelizzando è già ricondurlo al nostro terreno) abita un terreno dove l’elemento determinante non è una questione di fede in Cristo o di rapporto con la Chiesa. È possibile abitare lo stesso terreno? Tale terreno comune non dev’essere necessariamente terreno umano, fino in fondo? Non si potrebbe interpretare anche al rovescio l’affermazione di GS 41: «Chiunque segue Cristo, l'uomo perfetto, diventa anch'egli più uomo»? Non si potrebbe dire: mentre diveniamo più uomini, o davvero uomini, entriamo in contatto col Cristo e possiamo scoprire l’importanza di seguirlo? Un contatto, certo, non automatico perché ha bisogno di un annuncio, ma su un terreno che è anche dell’altro.

    Enfasi sulla pastorale e sull’evangelizzazione a scapito dell’educazione

    L’allontanamento dal più ampio terreno dell’umano e il ritiro nel terreno ecclesiale, che è solo una parte o un’interpretazione del terreno umano, si sono manifestati, tra l’altro, in rapporto ai giovani, nel forte spostamento di interesse (e di investimenti) dall’educazione alla pastorale. All’educazione dei giovani si è preferita la pastorale giovanile. L’impegno della Chiesa per i giovani è stato inteso come impegno pastorale e di evangelizzazione, più che come impegno educativo. È negli anni attorno al Concilio che nasce la pastorale giovanile, o che si comincia a preferire tale terminologia [4]. Cosa si nasconde in questo fatto? La necessità di una pastorale specifica per i giovani è legata al delinearsi sul piano socio-culturale, in modo sempre più marcato, di una condizione giovanile specifica, che richiede, dal versante ecclesiale, una risposta su misura. Ciò che preoccupa di più è che il mondo giovanile va modificando la sua posizione nei confronti della fede e della Chiesa, in genere nel senso di un allontanamento. Si richiedono attenzioni nuove e una progettazione specifica, volte a riallacciare il rapporto della Chiesa coi giovani e a favorire il rapporto dei giovani con la fede. È per questo che si privilegia l’espressione pastorale rispetto a quella di educazione. Pastorale dice, di fatto, cioè nella pratica ecclesiale (almeno in quella recente e attuale), la preoccupazione di condurre a Cristo; dice un interesse della Chiesa e non, prima di tutto, un interesse che sia anche del giovane (almeno non lo è di tanti giovani); non dice dis-interesse, piena gratuità, decentramento sul giovane. Il termine educazione, invece, più laico (umano, di tutti), dice di più il decentramento.
    Le pratiche pastorali hanno acquistato, via via, più rilevanza rispetto a quelle educative. Si è investito sui gruppi parrocchiali e sulla catechesi giovanile, più che sull’insegnamento della religione cattolica nella scuola pubblica o sulle scuole cattoliche. Le associazioni e i movimenti ecclesiali hanno acquistato particolare importanza, mentre le attività di solidarietà, di condivisione coi problemi dei più poveri, pur riconosciute importanti, sono state viste, sempre più, solo come espressione e segno di autenticità dell’essere cristiani; talvolta sono state anche guardate con sospetto, come attività puramente sociali. Le attività di educazione alla fede hanno prevalso in importanza, in dignità, in investimento di energie, rispetto alle attività orientate alla maturazione umana. A dire il vero, si è ragionato molto in termini di integrazione tra proposta di fede e educazione, e la proposta ecclesiale si è configurata sempre di più in termini educativi; la catechesi è stata decisamente pensata come educazione alla fede. Ma, per quanto si voglia ragionare in termini integrati e non strumentali, la preoccupazione della fede presiede alla valorizzazione della strumentazione educativa.
    D’altra parte, nelle attività tradizionalmente pensate nella prospettiva educativa, pur senza escludere l’annuncio della fede e i contenuti catechistici, ad es. negli oratori non immediatamente legati alla parrocchia, nelle scuole gestite dai religiosi, nei centri giovanili o di recupero dei tossicodipendenti, si è respirato un senso di crisi o di frustrazione per non riuscire a sufficienza ad evangelizzare. Tante comunità religiose, impegnate tradizionalmente nell’educazione, hanno spostato il tiro, avvicinandosi a pratiche parrocchiali e di educazione alla fede, assumendo preoccupazioni clericali, col risultato, alla lunga distanza, della confusione e dell’indebolimento della propria identità apostolica. Si è affermato un clima per cui il fine della prassi ecclesiale è condurre al vangelo, evangelizzare. La campagna sulla nuova evangelizzazione non ha fatto altro che rafforzare questa mentalità.
    Certo, l’evangelizzazione non si riduce all’annuncio del vangelo, ma implica una serie di attenzioni e di processi, che comprendono delle dimensioni profondamente umane (la condivisione di vita, il farsi responsabile dell’altro, ecc.). Lo si sa, già a partire da Evangelii Nuntiandi [5]. Ma il fatto stesso che la missione della Chiesa e il senso stesso dell’essere Chiesa siano pensati in termini di evangelizzazione, se da una parte dice l’importante esigenza che tutta la vita della Chiesa sia segno e espressione del Vangelo, dall’altra dice anche, in fondo, una preoccupazione dei cristiani, non di tutti. La Chiesa, mentre si rinnova a partire dal vangelo, non dovrebbe anche rinnovarsi nel senso di farsi più umana? segno e profezia di vera umanità? L’essere veramente in cammino con tutti, coi problemi e con le speranze di tutti, non è necessario (come condizione e come fine allo stesso tempo) al senso stesso dell’essere Chiesa e al senso stesso dell’evangelizzazione? Forse deve ancora sprigionarsi tutto il senso di GS 1: «Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d'oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore» [6].

    Il terreno umano del vangelo e la sua forza di ispirazione

    Non è questione qui di contestare l’impegno dell’evangelizzazione, tantomeno di metterlo in alternativa con quello dell’umanizzazione. È questione, casomai, di situare, cioè di ridare sito, terreno, all’evangelizzazione. Si tratta, più radicalmente, di riconciliarci con la nostra e altrui umanità, già assunta e redenta da Cristo, già salvata, anche se segnata dal peccato. Si tratta di situare l’annuncio, e la nostra stessa comprensione del vangelo, dentro un cammino di verità, che implica un radicale mettersi in gioco, un radicale farsi carico dell’altro e insieme farsi raggiungere da lui. Il vangelo risuona davvero in condizioni di umanità vera; senza queste condizioni, non risuona. Paradossalmente: lo si annuncerebbe senza annunciarlo, lo si comprenderebbe senza comprenderlo. Ci si è molto preoccupati di raccordare vangelo e vita, ma poco di far risuonare il vangelo; ci si è molto preoccupati di mediarlo, ma poco di dargli suono. Dare suono al vangelo significa dargli carne; dargli, come cassa di risonanza, umanità vera.
    Inoltre, ci si è lasciati interpellare dalla differenza, dallo scarto, tra umanità (cultura, esperienza) e vangelo, ma si è stati spesso ciechi sullo scarto tra umanità e disumanità, tra verità e falsità, sulla differenza che fa l’umano davvero umano. È più umano amare o odiare? farsi carico dell’altro o fargli pesare la propria supremazia? perdonare o lasciarsi prendere dall’odio? praticare la giustizia o farsi prendere dai propri interessi e da vie più comode? mettersi nella logica dell’affermazione di sé o in quella (che sembrerebbe illogica, più che logica) del dono o del rischio della perdita di sé? Questi dilemmi, che abitano il cuore di ciascuno, per quanto possano essere tacitati, dicono la differenza iscritta nel cuore dell’umano, la differenza di verità nell’umano. Avvertire il dilemma, o, sarebbe meglio dire, abitare il dilemma, è prima di tutto un gesto di verità, più che un frutto dell’accoglienza del vangelo. Si dirà: la formulazione stessa dei dilemmi risente già dell’incontro col vangelo. Certo, il vangelo di Gesù Cristo già agisce come ispirazione e criterio di discernimento di ciò che è davvero umano. Ma paradossalmente agisce mentre si abita già il dilemma, o mentre ci si decide dalla parte della vera umanità. D’altra parte, l’evento di Gesù Cristo è evento di verità dell’umano; Gesù Cristo ha abitato pienamente l’umano; è pienamente uomo: ecce homo! Se il vangelo, in quanto annuncio, viene da fuori, sopraggiunge (deve sopraggiungere) per l’iniziativa di qualcun altro, l’evento di Gesù Cristo è già iscritto nel cuore dell’umano, e proprio laddove il richiamo di verità, come una scrittura indelebile, si impone, silenzioso ma attendendo una voce, bisognoso di un suono per non rimanere nel silenzio.
    C’è bisogno oggi di restituire al vangelo il suo legame con l’evento. C’è bisogno, nella pratica ecclesiale, di restituirgli, prima di tutto, la sua forza di ispirazione. Il vangelo ispira umanità vera, apre percorsi di vera umanità. Ed è mentre ispira che va detto e che lo si può comprendere per quello che è. Talvolta un semplice sussurro di vangelo o una proclamazione debole, se sostenuti da una forte ispirazione, smuovono le montagne, molto più di proclamazioni sguaiate e conclamate [7]. La logica dell’ispirazione restituisce il primato all’appello iscritto nella vita, quindi alla presenza di Dio nella vita. Dio, che pure è altro, che pure resiste a ogni tentativo di presa dell’uomo, parla dall’interno stesso della vita, a partire dalla tracce della sua presenza (del suo passaggio nella storia, nell’umanità di ciascuno). Il primo problema dell’uomo di oggi è quello di non chiudersi all’appello, al dono, alla presenza di Dio, iscritti nel proprio sé; in quel sé che fa la differenza, rispetto alla pretesa dell’io di gestirsi, magari fuggendo da sé. Il primo problema è la fuga da sé, che diviene anche fuga da Dio [8]. La secolarizzazione, a dispetto delle letture sociologiche e anche pastorali, è prima di tutto questione di fuga da sé. E il primo problema, da un punto di vista pastorale ed educativo, è aiutare a non fuggire da sé o, detto positivamente, a riconciliarsi con sé o con l’alterità (fatta di appello e promessa) del sé. Questo è decisivo; è la condizione di verità e il senso stesso dell’interessarsi al vangelo e dell’accoglierlo.

    La centralità della persona e dell’educazione

    Come si vede, le questioni vanno ben oltre l’impegno educativo e pastorale per i giovani. Ma non si potrebbe affrontare seriamente la questione giovanile a prescindere da queste questioni più ampie e di fondamento. Significherebbe mancare il tiro. D’altra parte, la prassi ecclesiale coi giovani è connessa con altre prassi ed è, allo stesso tempo, luogo privilegiato per praticare, nella Chiesa, un rinnovamento di mentalità nel senso di ridare centralità all’umano. I giovani, infatti, sono particolarmente allergici a proposte che scavalcano l’umano, ad annunci unilaterali, a offerte di senso che sanno di sovrastruttura rispetto alla vita. Essi vanno aiutati a riconciliarsi con la verità della propria vita, della propria soggettività, che è nel segno della differenza; vanno aiutati a riconciliarsi col proprio sé, che è, in certo modo, im-proprio, perché è altro-che-io, o, per dirlo col titolo di un’opera di Ricoeur, è sé-come-altro [9]. Tale aiuto - aiuto squisitamente educativo - potrà essere misteriosamente e inconsapevolmente ricambiato dal dono, che i giovani possono fare alla Chiesa, di riscoprire un impegno educativo e pastorale più gratuito e una evangelizzazione centrata davvero sulla persona, sull’altro, sulla verità della persona, e non su una preoccupazione solo ecclesiale, quale è percepita (ed è davvero, tante volte) l’evangelizzazione attuale [10].
    Perché il cammino vada in questo senso, è importante che l’impegno ecclesiale per e con i giovani si ponga decisamente dalla prospettiva dell’umano e dell’educazione: la preoccupazione per l’umano, prima che la preoccupazione di far accogliere il vangelo; l’educazione, prima che la pastorale. Ciò implica un movimento controcorrente rispetto alle tendenze degli ultimi decenni. Bisogna abitare con più gusto e serenità gli ambienti squisitamente educativi: la scuola, i centri giovanili, i centri di formazione professionale, l’insegnamento della religione e le altre iniziative di educazione religiosa, e tutti i luoghi dove è in gioco la crescita in umanità, l’abilitazione a inserirsi degnamente in questa società, a diventare onesti cittadini, come si diceva una volta. Bisogna tornare indietro? Per alcuni aspetti, sì. In alcune tradizioni educative, per es. quelle di alcune Congregazioni religiose, è stato molto forte il senso dell’educare, insieme, a essere onesti cittadini e buoni cristiani. Si abitava l’umano, il sociale, il terreno di tutti, forse con più serenità. Perché il contesto era più cristiano, non ancora così fortemente secolarizzato? Perché esso permetteva delle incursioni dei cristiani (nella scuola e nel sociale, in genere) che oggi non permette più? Forse sì. Ma la resistenza di oggi è forse soprattutto verso le incursioni troppo clericali, o troppo animate dalla consapevolezza che soltanto col sopraggiungere della fede le realtà umane prendono senso. Bisognerebbe, a partire dall’ispirazione evangelica, ingaggiare una battaglia comune contro tutte le mortificazioni o decurtazioni dell’umano, contro tutte le disumanità, mostrando come il vangelo è risorsa preziosa di vera umanità, manifestando che la Chiesa si fa esperta in umanità; perché questa è la sua vocazione, e perché lo va imparando nell’interazione con tutti.
    Va rilanciata quindi l’educazione cristiana, e va qualificata dall’interno stesso della logica educativa. Ciò significa che, a partire da reali interessi umani (il lavoro, lo sport, la cultura) e a partire da reali dimensioni della vita umana (il bisogno di incontrarsi, di vita sociale, di misurarsi col mistero di sé e della vita, di sentirsi importanti per qualcuno e per tutti), senza alcuna strumentalità, bisogna aiutare una crescita vera, con l’attenzione a tener vivi i dilemmi, la differenza, la presenza di Dio. È un cammino di accoglienza e provocazione continui, sempre nel nome della verità dell’umano. In tale cammino educativo si inserisce anche il confronto con il vangelo e con le risorse ecclesiali; tale confronto è richiesto dalla verità stessa del cammino. Lo sforzo degli educatori cristiani sarà di tener vive tutte queste attenzioni mantenendosi sempre sul terreno dell’umano, che implica necessariamente degli atteggiamenti di vera condivisione; si cresce sempre insieme, e ci si mette sempre insieme di fronte al dono e all’appello. La preoccupazione pastorale dovrà inserirsi, dunque, dentro una prospettiva squisitamente educativa; non viceversa. Il guadagno è che si abita il terreno di tutti, degli interessi e dei veri bisogni di tutti, e che la proposta della fede trova il terreno di cui ha bisogno per sprigionare la sua forza.
    Ci sono dei segni di recupero o di riscoperta dell’educazione. La Chiesa italiana, a partire dall’intuizione, già richiamata, che la persona va messa al centro e che il sì a Dio implica un sì all’uomo [11], è intervenuta sulla questione (o emergenza) educativa, con l’impegno a ripensare tutta la pastorale in termini educativi; essa vuol farsi percepire impegnata nei problemi di tutti, capace di abitare il terreno di tutti. Il documento orientativo della pastorale del decennio 2010-2020, Educare alla vita buona del vangelo, tenta questa operazione. Certo, rimangono forti oscillazioni: tra la considerazione dell’educazione come semplice dimensione della pastorale e una vera ricomprensione della pastorale nella prospettiva dell’educazione, magari lasciandosi ispirare dall’operare pedagogico di Dio; tra il cercare alleanze educative a partire dalla parrocchia o dalla comunità cristiana, che tiene la regia delle collaborazioni, e l’entrare in alleanze gestite da altri, nel territorio, magari lasciandosi ispirare dal modo di fare alleanza di Dio [12]. Sicuramente, c’è bisogno nella Chiesa di tante esperienze e proposte, e di attenzioni anche diverse. Certo è, però, senza cedere a tentazioni unilaterali, che l’orizzonte dell’umano, della crescita in umanità, cioè l’orizzonte educativo, va tenuto vivo come sito della pastorale. È curioso, e credo anche carico di implicazioni, che il documento Educare alla vita buona del Vangelo, che pure manifesta un grande interesse per i giovani, non utilizzi mai le espressioni pastorale giovanile o pastorale dei giovani. È un segno, anche questo, forse non voluto ma non per questo meno significativo, dell’esigenza di recuperare più decisamente la prospettiva (e il linguaggio) dell’educazione. È per questo che ho preferito collocarmi dalla parte dell’educazione cristiana dei giovani più che della pastorale giovanile [13].

    2. DALL’ANTROPOLOGIA DELL’IO ALL’ANTROPOLOGIA DEL SÉ

    Il problema antropologico dell’educazione e della pastorale

    Lo spostamento, verificatosi in questi anni e sopra descritto, dall’educazione alla pastorale, a cui corrisponde uno spostamento dalla differenza iscritta nel cuore dell’uomo alla differenza di rapporto col vangelo (cioè differenza tra credente e non credente), apre, come si è già intuito e in parte visto, sulla questione antropologica. In effetti, l’impegno educativo e pastorale, soprattutto in rapporto ai giovani, ha manifestato (e manifesta) la sua fragilità proprio su questo piano. Detto in modo brutale: l’orizzonte antropologico (e con ciò intendo: la visione dell’uomo esplicitamente o implicitamente richiamata, il senso dell’umano che fa da contesto, da aria che si respira) delle esperienze educative e pastorali non è alla misura della Rivelazione cristiana e, allo stesso tempo, non è alla misura della verità dell’umano. D’altra parte la Rivelazione ha a che fare con la verità dell’umano e la verità dell’umano è via della Rivelazione cristiana. Dio, in Cristo, si è fatto uomo. Cristo è pienezza di umanità, via, verità e vita. Il problema, sul piano dell’evangelizzazione, non è tanto di mediare (fare da ponte, far entrare in rapporto) il divino e l’umano. Essi si sono già incontrati; anzi e più esattamente, l’umano porta già in sé le tracce della creazione e della redenzione. Il problema pastorale è di tener vive tali tracce, di aiutare a riconciliarsi con esse, di evitare che siano coperte dalla polvere dell’egoismo e del peccato, di sollecitare il non-ancora a partire da un riconoscimento del già; su queste basi, si sollecita un cammino di vita con Cristo.
    Si tratta allora di percorrere tutto l’umano, con fedeltà, fino a far emergere le tracce del divino; e si tratta di percorrere tutto il vangelo, nella fedeltà totale a Cristo, fino a misurarsi con coraggio con ciò che, di primo acchito, sembra quasi disumano, ma che in realtà si manifesta come ciò che risveglia la nostra vera umanità. Più che la confusione o l’integrazione tra l’umano e il divino, serve la distinzione: l’umano va accostato senza sovrastrutture, in una fedeltà laica (atea, potremmo quasi dire) a se stesso, facendolo parlare in verità; Cristo va accostato senza eccessive preoccupazioni di senso, in una sana distanza che si rivela paradossalmente più umana e vicina di quanto poteva sembrare. In questo senso, c’è da recuperare il senso della differenza nelle azioni ecclesiali: c’è il momento pastorale e c’è il momento educativo, c’è il momento dell’analisi dell’esperienza, c’è il momento della conoscenza del Cristo. La logica del c’è tempo per ogni cosa libera dagli appiattimenti e tiene viva la trascendenza. Invece, la mentalità dell’eccessiva mediazione, dell’integrazione, della duplice (contemporanea) fedeltà, che ha attraversato tanta pastorale, in realtà porta al riconducimento della trascendenza (dell’alterità del Cristo e dell’alterità dell’umano) a immanenza; al riconducimento di Dio all’io, dell’appello o del dono iscritti nel sé alla presunzione dell’io di dominare sé. La partita educativa e pastorale si gioca, essenzialmente, nello spartiacque tra l’io e il sé [14].

    L’antropologia dell’io e le sue categorie

    L’impegno educativo e pastorale si è lasciato impigliare nella cultura dell’io. Era, ed è tuttora, inevitabile misurarsi con il senso dell’essere soggetti, e del volerlo essere; con il senso del partire da sé, del filtrare soggettivamente tutte le proposte, compresa quella cristiana. Il senso della soggettività segna radicalmente la cultura attuale, moderna o post-moderna che sia, e la cultura giovanile in particolare. A fronte di ciò si è reagito prevalentemente muovendosi all’interno della polarità soggettivo-oggettivo, cercando di conciliare, o integrare (ritorna la prospettiva dell’integrazione), le istanze soggettive della persona e le istanze oggettive, trascendenti, di verità (di una trascendenza e verità pensate come oggettività), del vangelo. In ambito pastorale si sono alternate, in modo altalenante, la pastorale del senso e quella che potremmo chiamare dell'istanza veritativa; la prima preoccupata di mostrare che il vangelo ha un senso, una significatività, in rapporto alla vita (alla soggettività), la seconda preoccupata di salvaguardare l’interezza (la completezza e l’oggettività) della proposta cristiana. La prima prospettiva sembra attenta all’antropologico, la seconda sembra temerlo. In realtà, l’antropologia, promossa da una parte e combattuta dall’altra, esplicita da una parte e implicita dall’altra, è la stessa; ed è una antropologia dell’io, del soggetto pensato come io. La stessa antropologia ha segnato, in genere, anche le esperienze marcatamente educative; esse, pur centrate sulla maturazione umana, hanno inteso tale maturazione come maturazione dell’io che, per quanto si apra, rimane in fondo chiuso nel suo mondo.
    Ma quali sono i tratti di questa antropologia o cultura dell’io? Basta soffermarsi sulle categorie antropologiche privilegiate sia nelle esperienze pastorali (del senso e dell’istanza veritativa) sia in quelle educative. Sono le categorie della ricerca (di senso, di verità, di vita piena, di Dio), del progetto di vita (costruzione di sé, scoperta graduale dei valori umani e religiosi, cammino di integrazione della fede nella propria vita), della libertà o autenticità (capacità di riconoscere ciò che è importante per la vita). Queste categorie sono ormai così presenti e indiscusse da essere divenute una sorta di dogma antropologico che attraversa la pastorale e l’educazione ecclesiali. A guardarle da vicino, sono categorie che dicono l’attività del soggetto più che la sua passività. Anche se contemplano l’apertura, la disponibilità, il servizio all’altro, l’ascolto, queste attenzioni sono pensate a partire dall’attività dell’io; meglio: a partire da una sorta di presa di posizione dell’io, di diritto dell’io, di affermazione di sé, prima di tutto. A pensarci bene, esse non esprimono la passività radicale del soggetto: il suo bisogno di essere amato, condizione della stessa sopravvivenza; il suo dipendere dagli altri, che è anche l’impossibilità di disinteressarsi degli altri; il suo essere legato agli altri e ai propri limiti, che precede qualsiasi libertà; la sua creaturalità. Tali categorie, poi, che sembrano attraversate da fiducia nel soggetto, in realtà lo pensano sempre mancante, come se fosse sempre vuoto e bisognoso di qualcosa (di valori, di fede, degli altri), pronto a ricevere e a prendere; come se non avesse innanzitutto da dare. Esse non aiutano a sentirsi compiuti, pur con i propri limiti; non aiutano a sentirsi dono; non aprono a rapporti con gli altri per il traboccare di una pienezza, di un dono incontenibile, ma per un bisogno che sembra come compromettere sempre la gratuità. Nascondono un sottile senso di sfiducia in sé, di rifiuto delle proprie fragilità, una percezione di sé sempre come mancante.
    Sono categorie centrate sull’io più che sul sé. Il sé si confonde con l’affermazione di sé o con l’autenticità, che sono la pretesa dell’io del controllo e del dominio di sé, l’annullamento della differenza, dello scarto. Esse, poi, non rendono conto del paradosso della vita, che pure attraversa l’identità, che in certi momenti si impone e che l’ispirazione evangelica ci fa vedere ancora più chiaramente: la vita la si guadagna quando la si perde; è nel coraggio del dono di sé che si riceve in dono il sé. L’identità è nel segno del dono, della gratuità e della grazia. Quelle categorie non esprimono né il paradosso né la grazia. Eppure l’essere soggetto si articola in questa paradossale dinamica del prendere l’iniziativa per perdere l’iniziativa, dell’affermazione di sé per perdere sé e per ritrovarsi per dono, dell’essere soggetto-di (in senso attivo) per divenire soggetto-di (in senso passivo) e per ritrovarsi donato a se stesso.

    Il discutibile primato del conoscere e i diritti del corpo

    Le categorie della ricerca, del progetto, dell’autenticità, e simili, non solo consacrano un diritto dell’io o una sorta di posizione di diritto nell’esistenza (mancando il senso del dono), ma consacrano anche la pretesa di conoscenza dell’io. L’io prima di tutto conosce e si sente chiamato a conoscere, per quanto tale conoscere non sia sempre una conoscenza chiara e distinta, ma abbia tante volte il carattere di una presa di coscienza, prima confusa e poi più chiara, o di un presagio del senso delle cose. Egli deve, prima di tutto, prendere coscienza che la sua vita è apertura di senso, ricerca; deve cogliere che alcuni valori hanno un senso per la sua vita; deve capire che è meglio amare gli altri che odiarli; deve comprendere che Dio può essere importante per la sua vita. Questo io è un soggetto che deve prendere coscienza, cogliere, capire, comprendere; e pure queste categorie sono prevalentemente attive, non rendono conto né della passività né di tutta la concretezza e verità della vita. Per quanto siano pensate in senso esistenziale (la conoscenza è pensata come esperienza), esse privilegiano un rapporto con la vita che è già di dominio e sminuiscono (o tacitano) la posizione del contatto, o la de-posizione dell’essere in contatto, perché il contatto è alterità sensibile, di prossimità. Qualcosa di essenziale avviene su un piano meta- o pre- intenzionale, che è piano corporeo, sensibile, affettivo. E il corpo, l’affettività, la sensibilità non sono solo in vista della comprensione o di una posizione di dominio; hanno una loro logica, che è illogica, perché non entra in una comprensione. Il sé che sfugge all’io, segnando una differenza mai colmabile, è il sé corporeo, il sé sensibile all’altro, il sé legato all’altro prima che l’io decida di amare l’altro, il sé amato da Dio e raggiunto da Cristo prima che l’io se ne accorga.
    La recente prassi educativa ecclesiale tenta di assumere le dimensioni dell’affettività, delle emozioni, della corporeità. Lo fa a partire da una visione unitaria e integrale della persona [15], che vuole superare il tradizionale dualismo di anima e corpo e la connessa svalutazione del corpo; ma lo fa, in fondo, nell’ottica di un primato (di controllo) della ragione. Si tratta di dare orientamento ai sensi e alle emozioni, di governare l’affettività, di favorire l’integrazione tra l’intelligenza, le emozioni e l’azione [16]. Tale orientamento educativo dell’integrazione e dell’unità della persona, che pure ha un senso, non rende conto di tutta la verità della persona; non rende conto dell’alterità del sé corporeo rispetto all’intelligenza, cioè rispetto allo sforzo dell’io di coscienza di sé e di dominio di sé. In realtà il soggetto, che pure deve dominare e orientare il corpo e i suoi moti sensibili e affettivi, deve anche ascoltarlo, rispettarlo, accoglierlo. Il corpo ha le sue leggi; non solo, ha le sue ingiunzioni. Il sé corporeo, poi, si porta come una scrittura che si impone; che chiede di essere interpretata, ma a partire da una ingiunzione all’accoglienza. Il corpo del soggetto parla (al soggetto stesso, aprendo un’alterità) dei suoi genitori, della sua creaturalità, di un passato che magari si fa fatica ad accettare, del legame con la terra. Parla dell’impossibilità di chiudersi agli altri, perché, se ci si può sottrarre alla responsabilità per gli altri con la ragione, forse col cuore (coi sensi) non ci si riesce: le ragioni del cuore sono più forti di quelle della ragione. Il corpo invita alla riconciliazione piena con sé, anche con ciò che si fa più fatica ad accettare. E il parlare del corpo (il genitivo è soggettivo) non è un’autoriflessione dell’io, ma è un parlare all’io; è in una presa di distanza, in un movimento di alterità.

    È il sé che incontra Cristo

    È in questa presa di distanza, o in questo mantenimento della distanza, che l’io mantiene vigile la sua coscienza, tenendosi aperto agli appelli della vita e capace di vero discernimento. La pratica educativa, in ambito ecclesiale, è sensibile all’educazione all’interiorità e al discernimento, ma lo fa, tutto sommato, in un orizzonte antropologico di solitudine. Mette l’io di fronte ai valori o di fronte a delle mete da perseguire, ma non lo mette di fronte all’appello che è iscritto nella sua stessa carne. È certamente un appello silenzioso, che chiede parola, da interpretare; ma è appello ineliminabile, scrittura indelebile. L’educazione talvolta alimenta, senza accorgersene, la fuga da sé. Orientata com’è verso i valori da proporre e verso la fede a cui interessare, distoglie talvolta dalle scritture del sé e dall’appello. La presa di distanza, lo scarto, la differenza, tra l’io e il sé (corporeo, sensibile, affettivo) va mantenuta, perché questa distanza è il senso della trascendenza e il luogo dove può insinuarsi la venuta salvifica del Cristo; di un Cristo altro rispetto ai propri progetti, anzi che li sconvolge, ma che sa leggere le scritture, quelle del sé.
    L’incontro col Cristo si fa sul piano del sé prima che dell’io. La Scrittura (la Sacra Scrittura) lo attesta. Spesso l’incontro con Cristo, nei vangeli, si gioca sul piano del corpo, più che (o prima che) della mente; è desiderio di toccare, più che di capire. È questione di coraggio di fare (di muoversi, de-posizionarsi, andare, uscire, fare un gesto di ringraziamento), magari senza capire, più che di capire per poi fare. E questo fare corporeo che precede il capire non è in vista del capire; è un fare che dice fiducia, fede, accoglienza, che spesso non si fa consapevolezza, o che non si fa tutto consapevolezza. La possibilità della fede sembra giocarsi, prima di tutto e in modo decisivo, su un piano pre- o meta-intenzionale (perlomeno dell’intenzionalità cosciente). In realtà, è come se l’intenzionalità fosse prima di tutto corporea, affettiva, sensibile. Ciò non significa svalutazione dell’intenzionalità cosciente, ma semplicemente la sua detronizzazione; essa vive già d’altro: di fiducia e dell’accoglienza di un dono, che la sovrastano e le danno senso.

    Tra intelligenza e corporeità (la centralità del corpo nella tradizione cristiana)

    Ciò contrasta decisamente con l’enfasi sull’intelligenza e sulla coscienza intenzionale che attraversa tanta educazione religiosa. Contrasta di meno con un’esigenza della nostra cultura, a volte sotterranea a volte manifesta, di restituire al corpo i suoi diritti. Bisognerebbe misurarsi con questa esigenza, pur ambigua e contraddittoria, di ridimensionamento della pretesa di comprensione e di dominio dell’io. Essa è segno di un tentativo di prendere le distanze dal primato del capire, della libertà e del potere dell’io, di matrice cartesiana e illuminista, che ha segnato la modernità. L’educazione religiosa, invece, spesso a partire da un superficiale e illusorio dialogo con la cultura contemporanea, enfatizza il primato del capire e dell’io. La formazione cristiana fa perno sul capire, sulla conoscenza della dottrina, del messaggio di Gesù, sul comprendere che Gesù Cristo può dare senso alla vita. Tanto rinnovamento catechistico, pur rilevante, segnato dal passaggio da una catechesi dottrinale a una catechesi biblica, esistenziale, liturgica, e attraversato dal desiderio di assumere tutta la ricchezza e le dimensioni della vita, è rimasto all’interno del primato del comprendere. Semplicemente, il comprendere è divenuto un prendere coscienza, cioè un comprendere esistenziale, con tutta la vita, un imparare facendo. Il recupero di tutte le dimensioni della vita è troppo dominato dalla mentalità (moderna, non biblica, né postmoderna) che ciò che è decisivo avviene sul piano del comprendere.
    Nella prassi pastorale, un’azione liturgica o un’azione di carità hanno senso quando e nella misura in cui se ne comprende il senso. Pregare senza capire, partecipare a un’azione liturgica senza che ci siano delle spiegazioni, fare un gesto di carità senza la coscienza di una motivazione cristiana, sono ritenuti gesti incompleti, immaturi, provvisori, da far maturare attraverso una presa di coscienza. La liturgia e la carità, che sono prima di tutto gesti corporei, della sensibilità, dell’affettività, sono troppo subordinati alla comprensione e in fondo consequenziali ad essa. Eppure la liturgia e la carità cristiana hanno tradizionalmente un linguaggio molto corporeo, legato all’agire, all’abitudine, al guarire, all’entrare in contatto, al gustare, mangiare, odorare. Forse c’è da riscoprire che il contatto col Cristo è prima di tutto fisico, sacramentale; e anche quando è attraverso parole, queste, prima che rinviare a un significato, sono suono, richiamo, appello, convocazione, moto d’amore, di fiducia. E quando la parola è mediazione della Parola, essa, prima che rivolgersi alla capacità di comprensione dell’io, si indirizza al cuore; è parola che tocca; ha carattere quasi sacramentale [17].
    C’è anche da riscoprire il ruolo del corpo nella nostra tradizione cristiana. Il cristianesimo è religione dell’incarnazione. Dio ci ha redenti, in Cristo, assumendo la nostra carne, raggiungendoci fin nelle profondità abissali del nostro sé; ha assunto tutto, tranne il peccato. Siamo stati già toccati dalla grazia, nel nostro sé corporeo, anche se non ancora consapevoli [18]. Va riscoperta anche la dottrina tradizionale, di matrice bonaventuriana, della conversione della carne o dei sensi, prima che dell’intelligenza [19]. Il mettere in primo piano il corpo e i sensi può suscitare la preoccupazione di emotivismo; può suscitare anche il timore di un ritorno indietro, rispetto a quell’evangelizzazione dell’immediato post-Concilio, orientata a far prendere coscienza delle pratiche cristiane (quelle sacramentali, in particolare), giacché queste erano vissute spesso in modo ritualistico e abitudinario. Tali preoccupazioni o timori sono legittimi e dicono l’importanza di far intervenire, nella pastorale e nell’educazione, la ragione. Ma la questione decisiva non è questione di ragione, né di riconducimento dell’emozione all’oggettività o alla verità (intesa come oggettività); è, piuttosto, quella di educare alla trascendenza, tenendo viva la differenza e l’alterità. La trascendenza o alterità di Dio si mantiene per la differenza tra l'io e il sé; solo così Dio non viene ricondotto al nostro mondo e alle nostre logiche di dominio. La verità cristiana non è scindibile dalla sincerità dell’io; dal suo esporsi in quanto sé. Tale verità ha al suo centro la pasqua di Gesù e, allo stesso tempo, un dinamismo pasquale o esodale che attraversa il cuore dell’uomo e che non è riconducibile a una qualche presa di coscienza. È in definitiva un dinamismo di amore, di donazione di vita.

    Il paradosso nel cuore dell’umano e della Rivelazione

    La rivisitazione antropologica dell’educazione e della pastorale ecclesiale conduce, in definitiva, a mettere al centro il dinamismo pasquale e paradossale della vita. L’identità è, paradossalmente, nel segno della perdita dell’identità: chi pensa troppo a sé, come se dovesse salvare sé, in realtà si perde; chi, con coraggio e fiducia, si dona, si lascia raggiungere dall’altro e dall’appello a rispondergli e prendersi cura, si ritrova, in dono e per dono. Chi rimane nella logica del dominio di sé, in realtà fugge da sé; chi si lascia raggiungere dalla scrittura del sé, dall’altro-che-io, si avverte come dono, anzi si riceve in dono. Chi cerca troppo Dio a partire da un senso negativo di sé, a partire quindi da un bisogno di riempimento, in realtà non lo trova, o forse si costruisce un Dio a sua immagine; chi si pone dinanzi a Dio a partire dalla pienezza di dono che è la sua vita, nella disponibilità a offrirla, si mette nella condizione di lasciarsi incontrare da Lui. Chi è sufficientemente capace di contatto e di alterità può incontrare il Cristo, che rimane altro e allo stesso tempo compagno di cammino; e può sentirsi in cammino con lui nel difficile compito di attraversare con verità la vita.
    Tali dinamismi o paradossi hanno un significato umano e cristiano allo stesso tempo, ma non nel senso della confusione o della forzata conciliazione o integrazione. L’umano si incontra con Dio quando è sinceramente fedele a se stesso; in certo senso quando non cerca Dio, o quando non lo cerca solo e prima di tutto a partire dall’intelligenza, da un bisogno, da una affermazione di sé. Il Dio di Gesù Cristo, dal canto suo, incontra l’uomo per i sentieri della verità della vita. Un’antropologia esodale o pasquale, che rimette al centro il paradosso dell’umano, è un’antropologia davvero umana e, insieme, all’altezza della Rivelazione. Certo, essa risente già dell’ispirazione della Rivelazione. Ma la connessione con la Rivelazione è appunto di ispirazione, e non per interferenze metodologiche o per elementi sovrastrutturali che, di fatto, impedirebbero di lasciarsi raggiungere dalla parola che la vita si porta dentro. D’altra parte, la Rivelazione cristiana ha un significato in rapporto all’umano e al suo cammino in verità. Se così non fosse, sarebbe assolutamente insignificante.


    NOTE

    [1] Cf. l’invito di Giovanni Paolo II nella Novo Millennio ineunte, Lettera apostolica al termine del grande giubileo dell’anno duemila, 6 gennaio 2001, n. 31.
    [2] È la critica, di sapore nietzschiano, che U. Galimberti rivolge a coloro che spingono i giovani a «una ricerca esasperata» di senso e fanno proposte di offerta di senso (il riferimento primo è alla «tradizione giudaico-cristiana»). Ciò, secondo Galimberti, non fa che alimentare «la sottile percezione dell’insensatezza del proprio esistere», cioè il nichilismo (L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani, Feltrinelli, Milano, 2008, 14).
    [3] Per un approfondimento del senso dell’abitare, si veda PAGAZZI G. C., Sentirsi a casa. Abitare il mondo da figli, EDB, Bologna, 2010.
    [4] Per uno sguardo sintetico alla storia della pastorale giovanile in Italia, rimando al mio libro Il senso umano del credere. Pastorale dei giovani e sfida antropologica, Elledici, Leumann, 2011, 46 ss.
    [5] Si veda PAOLO VI, Evangelii Nuntiandi, Esortazione apostolica, 8 dicembre 1975, nn. 17-24.
    [6] Nell’ultima espressione, il testo latino è molto più pregnante: «Nihilque vere humanum invenitur, quod in corde eorum non resonet». Si potrebbe rendere così: «Non si troverà niente che sia davvero umano e che non risuoni nel cuore dei discepoli di Gesù».
    [7] Si dice in Is 42, 2, del Servo del Signore: «Non griderà né alzerà il tono, non farà udire in piazza la sua voce».
    [8] L’immagine di Giona potrebbe essere emblematica della fuga dell’uomo contemporaneo. Giona fugge, allo stesso tempo, da se stesso, dagli altri e da Dio. Cf. l’omonimo libro della Bibbia.
    [9] RICOEUR P., Sé come un altro, a cura di D. Iannotta, Jaca Book, Milano, 1993.
    [10] In modo particolare a partire dal Convegno ecclesiale di Verona del 2006, la Chiesa italiana avverte, sia pur tra incertezze e contraddizioni, la necessità di una pastorale nella prospettiva della centralità della persona (v. CEI, “Rigenerati per una speranza viva” (1 Pt 1,3): Testimoni del grande “sì” di Dio all’uomo, Nota pastorale dell’Episcopato italiano dopo il 4° Convegno Ecclesiale Nazionale, 29 giugno 2007, in particolare il cap. 3°, nn. 10 ss.). La prospettiva è ripresa anche in CEI, Educare alla vita buona del Vangelo, Orientamenti pastorali dell’Episcopato italiano per il decennio 2010-2020, 4 ottobre 2010 (si veda l’Introduzione, nn. 1-6, e anche la Presentazione di A. Bagnasco). Ma cosa voglia dire una pastorale della centralità della persona va, in buona parte, ancora scoperto.
    [11] V. CEI, “Rigenerati per una speranza viva”, cit., in particolare i nn. 4, 10, 21, 22; si veda anche BENEDETTO XVI, Discorso ai partecipanti al IV Convegno nazionale della Chiesa italiana, Verona, 19 ottobre, 2006.
    [12] Sul tema delle alleanze educative, v. CEI, Educare alla vita buona del Vangelo, cit., n. 35. Per una interpretazione più approfondita del documento, rinvio al mio libro Il senso umano del credere, cit., 7 ss. («In che senso c’è una sfida antropologica nella pastorale dei giovani? In dialogo con gli Orientamenti pastorali della Chiesa italiana sull’educazione»).
    [13] È questo un passo in avanti rispetto al pensare la pastorale dei giovani in modo più aperto, cosa che ho tentato di fare in Il senso umano del credere, cit. (v. la definizione di pastorale dei giovani, proposta a p. 103). Fermo restando, che non è prima di tutto questione di termini o di linguaggio.
    [14] C’è una riflessione fenomenologica che si muove proprio tra l’io e il sé, e che cerca di pensare il soggetto come sé, prima che come io. Il soggetto risulta, così, prima di tutto, colui che risponde (per es. nella riflessione di E. Levinas), oppure lo straniero a se stesso (J. Derrida), colui che si riceve in dono o l’adonato (J.-L. Marion). È sulla base di queste riflessioni che tento di abbozzare, nel seguito, un’antropologia del sé, che possa fare da fondamento per la pastorale. Si tratta solo di un abbozzo. Per un approfondimento di questa antropologia, rinvio al mio libro Il dono e l’altro. In dialogo con Derrida, Levinas e Marion, LAS, Roma, 2005. Ho provato anche a verificarne il significato biblico-teologico in Decidersi per il dono. Su una traccia biblica: Elia e la vedova di Zarepta, Pazzini, Villa Verucchio, 2006, e in Dire Dio deponendo le pietre. Sul linguaggio religioso, Pazzini, Villa Verucchio, 2008.
    [15] V. ad es. CEI, Educare alla vita buona del Vangelo, cit., n. 15.
    [16] In questa prospettiva si muove anche MENEGHETTI A., I sensi e le emozioni incontrano Dio. Liturgia ed educazione, LAS, Roma, 2012.
    [17] Cf. BENEDETTO XVI, Verbum Domini, Esortazione apostolica postsinodale sulla Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa, 30 settembre 2010, n. 56 (su «La sacramentalità della Parola»).
    [18] Per una ripresa, a partire dalle problematiche attuali e con sensibilità fenomenologica, del senso della carne e dell’incarnazione nella tradizione cristiana, v. FALQUE E., Dieu, la chair et l’autre. D’Irénée à Duns Scot, PUF, Paris, 2008 (in particolare la seconda parte su «La carne», pp. 201ss., che contiene una rilettura di Ireneo, Tertulliano e Bonaventura).
    [19] V. ibid., 289-345, il capitolo su «La conversione della carne (Bonaventura)».


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