a cura dell’Ufficio PG-ILE – Giancarlo De Nicolò – Cristiana Freni
(Npg 2010-09-10)
Il percorso
Il cammino proposto in queste pagine e in questa rubrica ai giovani, sia nel loro percorso esistenziale che in quello di ragione, si avvia al suo compimento, che non può mai essere considerato un definitivo approdo, perché costringe sempre a ripartire, a purificare, a dichiararsi, a mettersi in gioco… proprio come S. Agostino definiva la tensione dell’uomo verso Dio, la ragione dell’inquietudine del suo cuore. La prossima e ultima tappa metterà a fuoco la figura di Gesù, che non è soltanto una delle tante tipologie di esperienza religiosa, ma la sua personificazione stessa, incarnando Egli in un’unica «Persona» (esperienza esistenziale) il volto dell’uomo e il volto di Dio, la ricerca (o meglio l’incontro) di Dio liberante da ogni limite «troppo umano», pur nella sua assoluta verità umana, e insieme la sua unità con il Padre che lo ha mandato e a cui Egli presta l’obbedienza della vita e dell’amore. Il percorso dell’uomo è meno lineare, ovviamente, ma sempre in tensione tra due grandi dinamismi: il bisogno (la ricerca, il desiderio, la ragione, il cuore… il cosmo) che passa attraverso la sua libertà (e la sua volontà), e il volto e nome di Dio così come si fa conoscere da chi lo cerca (o – in altri contesti – come si rivela nella storia di un popolo, nella Parola scritta, nell’Incarnazione del Figlio): volto e nome sempre possibili di mistificazione, inquinamento, asservimento, strumentalizzazione, manipolazione. Questi due percorsi sono stati analizzati a fondo nel corso della rubrica, diremmo quasi in alternanza, perché in effetti entrambi si richiamano e cercano la loro sintesi di verità nell’uomo che ricerca. Essi hanno portato all’esame approfondito di quella relazione che si instaura tra il finito e l’infinito, tra ciò che la ragione esige e il cuore indica, e la Realtà sottesa e immaginata-sentita come termine di ragione-cuore. Ma la relazione tra uomo e Dio resta pur sempre una relazione umana, sottomessa ai limiti dell’umano e alla potenza disturbatrice del desiderio che al fondo possiede logiche tendenzialmente «egoistiche», portanti all’affermazione del sé rispetto a qualunque altro o Altro. Questa relazione deve dunque essere difesa e purificata, non essendo tra due eguali. Prendere coscienza dei rischi soggettivi e oggettivi rende possibile cogliere l’aldilà di Dio rispetto all’uomo e al suo bisogno-desiderio di Lui: Dio è e sarà sempre oltre, oltre il compimento del desiderio, oltre il suo utilizzo per il «benessere» dell’uomo, assolutamente oltre pur assolutamente vicino. Un oltre che è garanzia delle dimensioni della verità e dell’amore: dell’uomo e di Dio.
L’INSIDIA DELLA MAGIA
La sequenza di canzoni, brani di letteratura e poesia qui riportati offre uno spunto per approfondire il ragionamento suscitato dall’affermazione di Zini: «L’incompatibilità tra religione e magia è radicale: se nella religione l’uomo riconosce in Dio il principio del proprio essere e dell’essere del mondo e ne rispetta la libertà e l’intangibilità, nella magia l’uomo cerca, con esiti fallimentari, di disporre di forze che lo superano». É possibile condurre la riflessione utilizzando le tracce che seguono.
1. Credere «per non rischiare»
Dio… averlo dalla nostra parte! Silenzio. Il vicario guarda attraverso la gobba delle ginocchia il gibboso corpo di Vecchio Compagno per un tempo così lungo che penso che si sia dimenticato di me, o che l’eternità sia incominciata senza che io me ne sia accorto. Ma poi si scuote, guarda in su e dice: Senti, ehm... Nik? Per che cos’è tutta ‘sta storia? Stai pensando di cresimarti? Gli spiego. Lui ride. Piuttosto ravvivato, pare, per un momento. (Vecchio Compagno alza la testa al suono della risata del vicario, scocca uno sguardo con occhi velati e si affloscia, di nuovo in stato comatoso. Il tempo in cui Cristo regnerà sulla Terra non è ancora giunto.) Il vicario: Ma splendido! Un Gesù riluttante in cerca di fede in se stesso! Davvero affascinante, devo dire! Rido anch’io, perché in effetti è piuttosto divertente. Non prendertela, dice, non sto ridendo di te, caro ragazzo. (Caro ragazzo non è male.) Dico: Non c’è problema. Penso anch’io che sia un’idea piuttosto stupida. Niente affatto, no, no, dice lui. Poi, rianimandosi ancora di più: Non è che per caso tu giochi a golf? Scusi?, faccio io. Peccato, dice lui. Sai... Nik?... quello che farei io se Nostro Signore entrasse da quella porta in questo istante? Dopo i convenevoli del caso, naturalmente. Scrollo la testa. Il vicario dice: Direi Mio Signore, mi farebbe l’onore di una partita? E sai, Nik, ho sempre pensato che Egli risponderebbe Mio caro vicario, ne sarei felice. O qualcosa del genere. Io dico: Forse potremmo farne una scena del nostro film. (Sto solo scherzando, in realtà, me ne accorgo nel momento stesso in cui lo dico.) Non sarebbe una cattiva idea, dice il vicario del tutto serio. Meglio che fingere di fargli fare dei miracoli. Più verosimile. Più reale. Qualcosa che ha più a che fare con la fede, in effetti. Ma, dico io, come farebbe a sapere che è Cristo? Ah! fa lui, ecco, è proprio questo il punto, vedi. Questo è ciò che si chiama credere. Lo saprei grazie al mio credere. Il credere non si fa sentire. C’è e basta, come un dato di fatto, nella vita di uno. Adesso tocca a me fissare Vecchio Compagno mentre cerco di farmi venire in mente una perla di saggezza. Poi: Mi scusi, vicario, ma non lo trovo molto facile da capire. Il vicario sprofonda ancora di più in se stesso e nell’imbottitura della sua poltrona, con aria molto delusa. Dice: Non lo trovi convincente, vuoi dire. Voglio dire questo? chiedo io. Annuisce, sospira: Non sono molto bravo, temo... Non intendevo... dico, imbarazzato. Il vicario scrolla una mano: Lo so, lo so. Ma non lo sono. Bisogna avere il coraggio di riconoscere i propri limiti. E io devo ammettere che non sono molto bravo a parlare di Dio. Non lo sono mai stato veramente. Ogni settimana faccio lezioni di catechismo. Perlopiù ragazzi di tredici, quattordici anni che si preparano alla cresima, e perlopiù presenti perché lo vogliono i genitori. Come il battesimo, sai. I genitori vogliono che i figli lo facciano giusto per star sicuri. Per non rischiare. Se Dio esiste, averlo fatto potrebbe essere utile per averlo dalla propria parte. Se non esiste, chi se ne importa? Ride. Una risatina amichevole, ovattata, un po’ catarrosa. Be’, dice il vicario, io parlo a questi ragazzi. Gli racconto meglio che posso della chiesa e della preghiera, e di Dio. Loro ascoltano – abbastanza attenti, devo ammettere, e compunti. Troppo compunti, penso, a volte. Sarebbe quasi meglio se discutessero. Fanno, sì, delle domande strane ogni tanto, ma solo per mostrarsi gentili, sono sicuro. Sorride, ma tristemente, e continua: Alcuni lasciano. Ma perlopiù rimangono per tutto il corso e poi vanno di fronte al vescovo nei loro begli abiti nuovi per l’imposizione delle mani. Tutti molto carini e devoti, con le loro mamme e i loro babbi orgogliosi. Ma quando mi trovo lì di fianco al vescovo ad assistere a questo sacro rito, so che entro sei mesi al massimo si scrolleranno di dosso qualunque pretesa di essere mi- nimamente interessati a Dio o alla chiesa o a qualunque cosa religiosa. E mi chiedo quanta parte di questo abbandono sia da considerare come un fallimento mio. Si tira un po’ su, nella sua poltrona, senza guardarmi. Io sono lì, rigido. Non sono sicuro che stia parlando con me, adesso. Potrebbe anche non ricordarsi che sono nella stanza. Sta solo parlando tra sé ad alta voce? Mi sento un po’ in colpa, come se stessi spiando una confessione privata. Parla a voce così bassa che faccio fatica a sentire: Naturalmente, se gli fai notare che non sono più cristiani, si indignano, quasi si sentono insultati e saprebbero dirti in modo tagliente, non più così cortese, comunque, che essere cristiani non coincide con l’andare in chiesa e che se è per quello la chiesa ha tradito Cristo, interessata com’è agli edifici monumentali e a una serie di pratiche fuori moda assai più che alle persone e ai loro bisogni, e che la chiesa poi appoggia i cattivi governi e accumula ricchezze, mentre la gente muore di oppressione, di fame e di tremenda povertà. E francamente, Nik... Ah, si ricorda che ci sono, allora! ... non so cosa rispondere a queste accuse. Sono piuttosto inadatto al compito di spiegare che ciò di cui stiamo davvero parlando è l’Essere che per definizione è così onnicomprensivo – comprende noi, il mondo, e l’intero universo, così come anche ogni altra meraviglia al di fuori della nostra immaginazione – che è impossibile riuscire a dire qualcosa di minimamente sensato di lui. Dio è un essere che sta oltre l’essere. Come si possono trovare le parole per una simile... Alza le braccia, scrolla la testa, si stringe nelle spalle. Io annuisco, comprensivo: Capisco la difficoltà. Sospira di nuovo. Dice: E ora tu vieni qui, e mi domandi che cos’è credere. Chi sono io per dirlo? (A. Chambers, Ora che so, Fabbri Editori, 2008)
Dalla scheda del libro Ora che so: «Un romanzo sui dubbi della crescita. Un uomo scopre mentre fa jogging un corpo appeso a una gru, a testa in giù. Quando arriva la polizia, il corpo non c’è più. Tom, giovane detective, indaga. Nik, diciassette anni, sta lavorando con un gruppo di amici a un film sulla vita di un Gesù contemporaneo e per questo s’interroga sulla natura della fede. Incontra Julia, una ragazza profondamente cristiana. Si innamora di lei, lei è molto attratta da lui e il loro legame è uno scambio intensissimo, un’esperienza che li trasforma a fondo. Nel frattempo, Tom viene a capo della sua indagine. E un incidente terribile è il corto circuito che cambierà per sempre la vita di Nik e Julie...».
• «La relazione religiosa non è al riparo da rischi e da perversioni. Se l’essere annodata tra l’uomo e Dio la liberasse da ogni rischio, non sarebbe una relazione umanamente credibile». Quali parole, secondo te, potrebbe spiegare la relazione tra l’uomo e Dio? Tu come faresti?
• Pratica religiosa, sacramenti, appartenenza, fede… «per non rischiare». Non è anche questa una forma di «magia», di strumentalizzazione di Dio a nostro uso e consumo?
• Cosa può essere invece il «rischio della fede»?
• Certo, Dio è anche fonte e principio di benessere personale, di rassicurazione della vita, di «protezione» rispetto al male e al non-senso. Ma può bastare?
• Una bella definizione di Dio: «Un essere che sta oltre l’essere». Che ne dici?
2. Un Dio che legittima potere e rivoluzione?
Io me ne rimasi mordicchiando il già corto bocchino della pipa aspettando che il vecchio Antonio continuasse, però egli non sembrava affatto intenzionato a farlo. Con il timore di interrompere qualcosa di molto serio domandai: «E Zapata?». Il vecchio Antonio sorrise: «Hai già imparato che per sapere e per camminare bisogna domandare...». Tossì e accese un’altra sigaretta che non sapevo quando se la fosse fatta e dal fumo che usciva dalle sue labbra cadevano le parole come semi al suolo: «Questo Zapata apparve qua sulle montagne. Non nacque, si dice; solamente apparve. Si dice che furono Ik’al e Votàn [gli dèi della montagna] che giunsero fino a qui per fermare il loro lungo cammino e che, per non spaventare la povera gente, si fecero uno. Perché dopo tanto camminare insieme Ik’al e Votàn capirono di essere la stessa cosa e che potevano farsi uno, nel giorno e nella notte, e così quando giunsero qui si fecero uno e si misero il nome di Zapata. E disse Zapata che fin qui era giunto e che qui avrebbe trovato la risposta su dove conducesse il lungo cammino e disse che a volte sarebbe stato luce e a volte sarebbe stato oscurità, ma che era lo stesso, il Votàn Zapata e l’Ik’al Zapata, lo Zapata bianco e lo Zapata nero, e che entrambi erano lo stesso cammino per gli uomini e le donne veritieri». Il vecchio Antonio tirò fuori dalla sua bisaccia una bustina di nylon. Dentro c’era una fotografia molto vecchia, del 1910, di Emiliano Zapata. Con la mano sinistra Zapata impugnava la sciabola, all’altezza della cintura. Con la destra reggeva una carabina; due cartuccere gli si incrociavano sul petto; una fascia di due colori, bianco e nero, lo cingeva da sinistra a destra. Teneva i piedi come uno che se ne sta immobile ma sembrava anche che camminasse e nello sguardo pareva dire «sono qui» ma anche «vado là». Erano raffigurate due scale: su di una, che pareva uscire dall’oscurità, si vedevano degli zapatisti dal volto bruno, quasi che affiorassero dal fondo di qualcosa; sull’altra scala, illuminata, non c’era niente e non si vedeva dove portasse né da dove venisse. Mentirei se sostenessi che mi ero subito reso conto di tutti questi particolari. Fu il vecchio Antonio che richiamò la mia attenzione su di essi. Dietro la foto si leggeva: Gral. Emiliano Zapata, Jefe del Ejército Suriano. Gen. Emiliano Zapata, Commander in Chief of the Southern Army. Le Général Emiliano Zapata, Chef de l’Armée du Sud. C. 1910. Photo by: Agustìn V. Casasola. Il vecchio Antonio mi disse: «Io a questa foto ho fatto molte domande. È stato cosi che sono arrivato fin qui». Tossì e gettò il mozzicone della sigaretta. Mi dette la foto. «Prendila, mi disse, perché tu impari a domandare e a camminare... ». «È meglio congedarsi all’arrivo. Così è meno triste andarsene», mi disse il vecchio Antonio tendendomi la mano per dirmi che se ne andava, cioè che stava arrivando. Da allora il vecchio Antonio quando arriva saluta con un «addio» e si congeda alzando la mano e allontanandosi con un «salve». (Subcomandante Marcos, I racconti del vecchio Antonio, Moretti & Vitali Editori, 1997.)
NB: Il Subcomandande Marcos, oltre ad essere il comandante e il portavoce dell’Esercito zapatista di liberazione nazionale, è anche la voce delle popolazioni indigene dello stato messicano del Chiapas. Nonostante l’identità di Marcos sia ignota, un buon lettore può comunque intuirne la personalità attraverso i suoi scritti, gli stessi a cui dà voce al popolo indigeno che rischia di essere eliminato dalla globalizzazione, descrivendo con attenzione il Messico, il conflitto in Chiapas, la lotta indigena per i diritti umani, ed evidenziando le minacce che il neoliberismo rivolge a tutti noi.
• «Quando Dio si riduce ad un idolo stretto nelle mani di un uomo incapace di vivere in pienezza la propria libertà, allora la religione conosce le sue peggiori adulterazioni». Quando ti accorgi che la religione ha ceduto il posto ad una delle sue «adulterazioni» (magia, superstizione, ecc…)?
• Senza entrare nel merito della politica e delle sue scelte e mediazioni, non c’è dubbio che Dio viene «utilizzato» per legittimare ogni potere o contropotere, per dare forza quasi messianica, per richiedere obbedienza cieca, per offrire con gioia la propria vita. Ogni potere tenta di legittimarsi «teologicamente» e di costruire le sue «chiese» e liturgie. La storia ne è piena. Riuscite a discutere qualche esempio… fino al nazismo? D’altra parte il «Gott mit uns» non è una formula magica per giustificare la violenza delle armi e delle guerre e incitare alla vittoria? Come in tutti i fanatismi religiosi… O il potere economico del «In God we trust» stampigliato sul dollaro?
3. Un Dio buono per i miracoli?
Il «miracolo» della traslazione del «Giardino dell’Eden» Padre Malachia fu l’ultimo ad arrivare. Entrò fregandosi vigorosamente le mani e con gli occhi scintillanti di quella gioia che, in questa bassa terra, sembra sia stata riservata a coloro che sono pazzi per amore di Cristo. «Bene, reverendi padri», disse a guisa di saluto, «è una notte piuttosto fredda per un miracolo». Gli altri preti, in piedi vicino al lato più lungo del tavolo a formare una specie di semicerchio irregolare, si scambiarono rapidi sguardi di sottecchi, e il canonico Collins, dopo essersi schiarito la voce, pronunciò un discorsetto che evidentemente si era preparato per l’occasione: «Mio caro padre», disse, «non credo sia necessario dirvi che, durante il vostro breve soggiorno tra noi, vi siete conquistato il nostro affetto per la vostra carità, la vostra saggezza e, soprattutto, per il vostro grande amore verso Nostro Signore. Noi tutti, e parlo, mio caro padre, a nome di padre Neary e di padre O’Flaherty non meno che a nome mio, noi tutti abbiamo visto in voi un amico reale perché vero sacerdote. Ma noi pensiamo, parlo di nuovo a nome di padre Neary e di padre O’Flaherty non meno che a nome mio, noi pensiamo che vi siate forse lasciato indurre da un eccesso di zelo a questo contratto che è motivo del nostro incontro di stasera. Vi prego, padre, cercate di non fraintendere ciò che sto per dirvi. Credetemi, vi parlo per il profondo affetto che porto alle verità della nostra santa religione, e non per desiderio di offendervi o di ritardare l’opera di Dio. In breve, ecco quello che voglio dirvi: se voi sentite, mio caro padre, di essere stato troppo zelante e di chiedere troppo all’Onnipotente domandandogli di compiere questo particolare miracolo a questa particolare ora, ebbene, allora noi ci recheremo a vostro nome dal signor Humphrey Hamilton per informarlo che (e l’espressione, padre, è di padre Neary, non mia) che il miracolo è stato annullato; se invece ritenete ancora di agire sotto la guida divina, allora chiediamo soltanto di poter fare tutto ciò che è in nostro potere per aiutarvi in una impresa che si tradurrà in una grande vittoria del soprannaturale e nella rimozione di un grande ostacolo spirituale dalla parrocchia di Santa Margherita di Scozia». Gli occhi di padre Malachia si inumidirono alle parole del canonico Collins, poiché egli comprendeva che esse erano animate non da un sottile intento speculativo, ma da un autentico amore per la verità e la dignità della religione. «Vogliamo sederci, reverendi padri?», domandò. «Quando ce ne stiamo in piedi così assomigliamo incredibilmente a un gruppo di preti ospiti di una casa laica. Sorrisi a non finire per la padrona di casa, sapete, ma col pensiero segreto che sua figlia farebbe bene a non mettersi tutto quel belletto sulla faccia». E quando si furono seduti intorno al tavolo che poco prima li aveva riuniti per la cena, padre Malachia riprese: «Reverendi padri, non so come ringraziarvi per le parole veramente cortesi che i vostri cuori mi hanno rivolto per bocca del canonico Collins. Per un vecchio che tra poco dovrà presentarsi davanti al suo Signore, è molto consolante sapere che i suoi ultimi atti e le sue ultime parole sono riusciti graditi ai più degni dei suoi fratelli. E anche per la vostra offerta di aggiustare le cose col signor Humphrey Hamilton io debbo ringraziarvi, ben sapendo che è stata fatta in uno spirito di cortesia e di generosità. Per questa offerta, reverendi padri, io debbo ringraziarvi, dico, ma non debbo accettarla, non debbo. Desidero che abbiate fiducia in me», si voltò a dare un’occhiata all’orologio, «per altri venticinque minuti. Altri venticinque minuti, reverendi padri, e poi, penso, ciascuno di voi si renderà conto che, in questa piccola faccenda della traslazione del Giardino dell’Eden, sono stato sorretto da una fede così certa da essere quasi conoscenza». Ancora una volta i tre preti secolari si guardarono con aria desolata. I miracoli erano la loro occupazione quotidiana, o per meglio dire, giacché non era la stessa cosa, la raison d’étre delle loro occupazioni quotidiane. Essi credevano che Gesù Cristo fosse nato dalla Vergine Maria per virtù dello Spirito Santo, e questo era un miracolo; credevano che Egli fosse risorto dal sepolcro e asceso al cielo, e questo era un altro miracolo; credevano che lo Spirito Santo fosse disceso sugli apostoli e, emanando dalle loro mani, avesse consacrato vescovi e sacerdoti giù giù per i secoli, e questa era tutta una successione di miracoli; credevano che la Beata Vergine fosse apparsa a certi santi privilegiati e che guarigioni miracolose fossero state operate per sua intercessione a Lourdes. Ma, sebbene tutta la loro religione si fondasse sul soprannaturale e ne fosse permeata, essi avevano l’impressione che sarebbe stato davvero troppo bello se il Giardino dell’Eden, sottraendosi all’ordinaria legge divina della conservazione, si fosse messo a volare per l’aria come un aeroplano. La loro esitazione si espresse per un momento attraverso i loro occhi, per poi ritrarsi negli angoli segreti delle loro anime; poiché essi avevano dato a padre Malachia la loro parola che, qualora avesse ritenuto nonostante tutto di dover tentare il miracolo, lo avrebbero aiutato fino al limite estremo delle loro possibilità. (B. Marshall, Il miracolo di Padre Malachia, Jaca Book, 2008.)
Malachia Murdoch, simpatico e schietto monaco benedettino scozzese, si lancia in una sfida temeraria e singolare con un ministro della Chiesa riformata, il reverendo Hamilton, e arriva a sco- modare il buon Dio per compiere il prodigio di trasferire la scandalosa sala da ballo Giardino dell’Eden, con i suoi avventori e le sue ballerine, dal centro di Edimburgo fin sulla cima di una roccia in riva al mare, allo scopo di riportare la città alla fede perduta. Con strisciante umorismo e acuto realismo Marshall smaschera l’esito fallimentare di una ragione che delimita presuntuosamente il regno del possibile e del reale.
• «Queste adulterazioni sono di fatto espressioni della tentazione magica, con il suo egoismo di fondo, la sua ossessione manipolatoria nei confronti degli altri e di Dio, con la sua deriva settaria e il suo delirio intollerante e fanatico». Tu che ne pensi? Perché abbiamo bisogni dei maghi e delle loro «magie»?
• A parte la simpatica scena del «miracolo dell’Eden», un po’ di riflessione sul pensiero e comportamento religioso deve essere condotto: quale la «ragione» ultima della nostra preghiera, fede, sentimento, pratica religiosa? Ottenere-pretendere-obbligare Dio, magari anche con miracoli ad uso e consumo nostro? Dove sta allora il senso della preghiera, della domanda di «petizione»? Si può pregare, chiedere a Dio «per noi»? E che cosa significa imparare a «fare la volontà di Dio»? Qui da discutere ce n’è abbastanza, a quanto sembra…
4. Dio, come stai?
Uno di noi
E se Dio fosse uno di noi
Solo e perso come noi
E se Lui fosse qui
Seduto in fronte a te
Diresti sempre sì
O chiederesti:
Perché mai ci hai messo qui
Con tutte queste illusioni
E tentazioni e delusioni
E, e, poi perché
E, se, se Dio c’è
E, se, e se c’è
E se Dio fosse uno di noi
Solo e perso come noi
Anche Lui con i Suoi guai
Nessuno che Lo chiama mai...
Io so cosa farei
Lo guarderei dritto negli occhi
E chiederei
Se c’era almeno una ragione
O se è una punizione
Oppure è stato solo un caso
O una disattenzione
E dai, se ci sei
E dai, come mai
E dai, se lo sai
E se Dio fosse uno di noi
Solo e perso come noi
Anche Lui con i suoi guai
Nessuno che lo chiama mai
Solo per dire: «Come stai?»
E invece chiedono attenzioni
Di far miracoli e perdoni
Oppure dare assoluzioni
Nessuno che Lo chiama mai
Solo per dire: «Come stai?»
(da E. Finardi, Occhi, WEA, 1996)
• «La relazione con Dio costituisce l’antidoto fondamentale alla tentazione egoistica della coscienza umana, tentazione incrementata dalla durezza del vivere e dalle evenienze storiche e mondane.»: ricorriamo a Dio solo e unicamente quando ne abbiamo bisogno? Quando non sappiamo più «dove sbattere la testa»? Perché?
• Chiamare Dio per chiederGli anche solo «Come stai?»: che bella modalità di rapporto, di amicizia, di gratuità. Non difficile da comprendere, visto che è anche uno degli atteggiamenti più giusti nei rapporti umani… Non è forse vero che tanti amici si chiamano solo «quando serve» e non per chiedergli davvero – disinteressatamente o meglio affettuosamente – «come sta»?
• Discuti sul «Dio, uno di noi», in quale senso e perché… e la figura di Gesù… e insieme il senso dell’infinita distanza che salvaguarda l’amore e il rispetto, la verità di Lui e di noi…
5. Miracoli e peccati
I vaporetti a ruota strisciavano ancora sul mare liscio, portando gitanti al lato opposto della baia. Don Arturo e il cappellano del vescovo inglese li osservavano dalla finestra. II vescovo inglese non aveva potuto venire personalmente a presenziare ai festeggiamenti e aveva mandato in sua vece il giovane prete. Quel mattino, la grande messa pontificale celebrata nella cattedrale davanti alla reliquia esposta aveva avuto enorme successo: erano stati usati i paramenti indossati un tempo dal cardinale Cisneros e i canonici avevano fatto soltanto sei errori nella liturgia. Si era poi svolta un’imponente processione per le vie della città con il nuovo vescovo in piviale e a testa nuda che aveva portato la reliquia sotto un baldacchino. Pur non avendo alcuna intenzione di ispirare la propria vita a quella di san Giovanni della Croce, la popolazione non aveva avuto nulla in contrario ad onorarne il dito con qualche fuoco artificiale. Le autorità civili e militari si erano trascinate dietro al clero e tutti erano stati felici, sbagliando allegramente il passo. Le ragazze del Buen Amor avevano gettato rose: facevano buoni affari in quei giorni, malgrado l’aumentato costo della vita. Ci voleva una peseta per fare acqua al Maria Cristina e ben dieci duros per un palco al Buen Amor con due ragazze insieme. Ora le strade erano deserte poiché tutti si erano recati alla corrida, nonostante l’aumento del biglietto, per assistere alla tortura degli animali. Don Arturo trovava difficile intavolare la conversazione. «E come sta Sua Eccellenza?», chiese. «Il vecchio Trottola? Morto dal collo in su, come al solito. Lo faranno certo cardinale al prossimo concistoro». «Forse il guaio è dovuto al fatto che la gente sbagliata si fa paladina della giusta causa e viceversa». Don Arturo non credeva completamente a ciò che aveva detto, ma ci teneva a fare impressione sul cappellano. Aveva già dimenticato che il vescovo inglese era stato più coraggioso di lui. Il campanello sopra una porta trillò. «Scusatemi», disse don Arturo. «Il vescovo mi chiama». «Cortese davvero. Il vecchio Willie Winton si limita ad urlare». Il nuovo vescovo sedeva esattamente dove era stato seduto il vecchio vescovo, nello stesso raggio di sole azzurrino. La sola differenza nella stanza era costituita dal nuovo ritratto: accanto a Luìs, il saggio e buon prelato che aveva sofferto di emorroidi, stava Miguel, il saggio e buon prelato che era stato punto dalle api fino a morirne. Il vescovo era un uomo vivace e attivo, con uno zucchetto nuovo di zecca; venne subito al punto. «Si tratta di un avviso che voglio far apporre all’entrata della cattedrale», disse. «Vogliate essere tanto gentile da tradurmelo in inglese». Porse a don Arturo un foglio di carta su cui stava scritto: «Mujeres, no entreis en la casa de Dios con escotes, brazos descubiertos o sin medias». Don Arturo rimase troppo sbalordito per protestare. Sotto il testo spagnolo, scrisse la traduzione in bella calligrafia: «Donne, non entrate nella casa di Dio con vestiti scollati, braccia nude e senza calze». «Che cosa voleva il vecchio?», gli chiese il cappellano inglese quando ritornò. Don Arturo glielo disse. «Perché stupirsene?», disse il cappellano inglese. «Non c’è ormai più alcun dubbio. La Chiesa militante è inefficiente per il novantanove per cento. Ma se lavoreremo tutti sodo per un centinaio d’anni, allora sarà inefficiente solo per il novantotto per cento, purché naturalmente i vescovi tengano la bocca chiusa». Ma don Arturo era troppo triste per aver voglia di scherzare. «II fatto è che non abbiamo convertito nessuno», disse. «Questo non è vero. Abbiamo convertito il clero: parte di esso, per lo meno». «E la democrazia non serve. Per il momento, non è che un gesto, come il dare un fiammifero a un uomo travolto da una tempesta di neve affinché si riscaldi». Il prete inglese annuì, ma il suo volto era sereno sotto la maschera preoccupata. «Terribile, vero?». «Forse è perché non abbiamo ancora sofferto abbastanza. La sofferenza santifica persino gli animali, ma forse ciò accade perché sono muti e impotenti. Abbiamo vinto questa guerra per i fini di Dio, lo so, ma dobbiamo ancora imparare a comprenderli giustamente». «Il guaio dei vostri santi latini è che continuano a compiere dei miracoli che non servono. Beh, Padre, vado a sgranchirmi un po’ le gambe. Voglio dare un’occhiata alla città prima di partire». Quando il cappellano inglese se ne fu andato, don Arturo ritornò alla finestra. Uno dei vaporetti a ruota imboccava l’estuario; era sempre coperto degli stessi cartelloni pubblicitari. Sul ponte, le coppie sedevano abbracciate: non sembravano preoccuparsi affatto della forma e dello spirito. Il prete cadde in ginocchio e pregò disperatamente per l’apatica congregazione di Cristo. (B. Marshall, La sposa bella, Jaca Book, 1997)
«Questo romanzo urterà probabilmente due generi di lettori: quei progressisti che immaginano di essere i soli saggi e virtuosi e quei tradizionalisti che non si rendono conto delle responsabilità a cui li obbligano le tradizioni ereditate. Devo quindi dichiarare che, mentre tutti i personaggi, la reliquia, la città sono frutto dell’immaginazione, il comportamento dei sacerdoti e le atrocità commesse dai loro oppositori corrispondono a verità» (Bruce Marshall). Ancora una volta sacerdoti, santi e peccatori, virtuosi e deboli, ma tutti chiamati a testimoniare Cristo di fronte a un mondo che lo rifiuta. «Che cos’era dunque la realtà? si chiese. Un mondo che si è fatto da solo è più ragionevole di un mondo creato da un Dio che ha creato se stesso? Non vi erano né parenti né preti. Nessuna speranza, nessuna disperazione, nessun mistero. Tutto era semplice e chiaro: la vita aveva un significato solo in quanto non significava nulla. Quasi tutti pensano che i loro peccati li abbiano privati del diritto di credere. Ma questa è stupidità metafisica ed equivale a dire che la rivelazione cristiana è vera in maniera inversamente proporzionale ai propri vizi. Nel Medioevo, la gente era cristiana anche nel peccato: il timore di essere accusato di ipocrisia non la faceva cadere nell’errore di credere nella propria virtù».
• «Il rapporto con Dio stretto nella libertà conduce l’uomo a riconoscere l’amore come verità del cosmo». Come possiamo diventare veri testimoni di questo amore generoso, che ci lascia liberi di scegliere il bene?
• Accettare la verità del proprio essere, dei propri limiti e del proprio peccato per mettersi di fronte in verità al Dio della salvezza e dell’amore: non è questo l’antidoto della «magia!», del rischio sempre presente in ogni azione religioso di «usare» Dio per i nostri scopi?
6. Un approccio dall’arte
Ci hai redenti, Mario Caffaro Rore (1910 – 2001), Collezione Privata, olio su tela, 1995
Ci hai redenti. Un titolo la cui esattezza sfida l’immagine pittorica prodotta dall’artista stesso in chiarezza e sinteticità. Mario Caffaro Rore, l’autore di questa tela, nasce a Torino nel 1910 e gode di una lunga vita e di una carriera molto prolifica. Pittore poco conosciuto a livello italiano, è noto invece nel torinese come un artista nettamente differente dai contemporanei in quanto spesso descritto da quest’ultimi come un autentico uomo di fede. Proprio questa sua ‘marcia in più’ gli procurò moltissime commissioni di carattere sacro. Ci hai redenti è una delle ultime tele del maestro, la sua attuale collocazione ci è ignota, ma ciò che importa è che in questa immagine sono condensati elementi interessantissimi d’un rapporto Padre-figlio che è quello caratteristico della fede cattolica. Come creature bisognose di protezione e quasi stremate di fatica, quasi assetate, le figure umane dal caldo incarnato si arrampicano sulle grandi mani che scendono dal cielo. Le grandi mani, da parte loro, si mostrano disponibili all’accoglienza di tutti, aperte al dono estremo fino a sanguinare, pienamente umane e un po’ troppo allungate di forma, tanto da riuscire a toccate la terra tramite il contatto con la colonna formata dai corpi. Mettendo fuori fuoco i soggetti, sfocando l’immagine dei singoli corpi, il soggetti pare essere una sorta di cattedrale umana, azzarderemmo, una chiesa, La Chiesa. Perché cos’è la Chiesa, ovvero il popolo di Dio, se non l’insieme dei fedeli, dei cercatori di Dio e l’alleanza con Dio stesso, il patto di sangue stretto con Lui? In questa chiarissima immagine le mani divine e gli umani hanno lo stesso incarnato, sono fatti della stessa molecola, perché l’uomo è creato a immagine di Dio, ha in sé la sete di ricongiungimento al creatore e allo stesso tempo il Dio dei cristiani si è fatto carne e si è sacrificato per amore dei suoi figli. La Chiesa poggia sulla terra, quasi su una collina, sembrerebbe dalla tela, ma guarda verso il Cielo, che è aperto, non è il cielo collerico e variabile delle divinità pagane, non è un cielo che chiede sacrifici per riappacificarsi, ma si sacrifica lui stesso e lascia anche liberi di scegliere. Eppure scegliere il cielo per un redento è come soddisfare una sete (o almeno così ci mostra Mario Caffaro Rore), perché davanti a Dio l’anima è spoglia, non può mentire, si presenta nuda e cruda, come i corpi dipinti. Infine, non tralasciabile è il fiotto di sangue perché è proprio attraverso la crocefissione di Cristo e attraverso la sua resurrezione che avviene la sconfitta della morte, il riscatto dal peccato, l’alleanza dell’uomo con Dio Padre. Un’alleanza, un legame che il pittore dipinge come passionale, supplice, quasi un anelito disperato, ma che dà forma a molto più che un legame personale, che è mattone di tutta la Chiesa.
• Cosa significa per me «essere un redento»?
• Posso dire di avere anche io «sete di Dio» ogni giorno? In che modo cerco contatto con Lui?
• L’alleanza tra me e Dio mi rende parte della Chiesa, come mi confronto con questo dono-responsabilità?
La cattedrale, Auguste Rodin (1840 – 1919), cm. 64x29,5x31,8, Meudon, Musée Rodin, pietra, 1908
Due mani che si sfiorano. Due mani umane. Due mani destre, di almeno due persone dunque, si sfiorano e formano una cattedrale. Alcuni leggono in questa scultura una splendida metafora del matrimonio: le due mani sono una maschile e una femminile, e il loro incontro è letto come promessa ed esperienza dell’Incontro con Dio, lettura simbolica tratta dal titolo dell’opera. Affascinante e delicata interpretazione. Altri preferiscono sottolineare la soggettivazione delle mani, come fossero una metonimia scultorea che le carica d’una intenzione propria dell’anima e del pensiero. Le mani, in quanto protagoniste di azioni, sarebbero simbolo di un pensiero che non rimane sterile o inattivo, ma trova la propria realizzazione attraverso un «agire responsabile e congiunto». Una ipotesi interpretativa facilmente avallabile. E proprio da qui parte, per approdare altrove, la riflessione che questa scultura ci offre. Scriveva Dietrich Bonhoeffer: «Abbiamo imparato un po’ troppo tardi che l’origine dell’azione non è il pensiero, ma la disponibilità alla responsabilità». Questo pare essere il motivo che ha spinto Rodin a modellare proprio due mani: la convinzione che è necessario fare delle nostre mani, e della loro capacità di fare, di obbedire alla nostra disci- plina interiore, il luogo del segreto che dà vita, il luogo della preghiera, la costruzione di una cattedrale per le nostre e le altrui vite. Il fare e il pregare sono dunque le azioni che Rodin attribuisce a queste mani. Di conseguenza bisogna sottolineare una incongruenza. Rodin, lo scultore del pensatore assorto, colui che fissò nella pietra l’atto creativo appena avvenuto, che fu studioso appassionato di Michelangelo, come il maestro si impegnò nei suoi soggetti a cogliere l’azione nel suo culmine. Di conseguenza, perché modellare uno sfioramento e non congiungere le mani in preghiera o piuttosto impiegarle in un’azione? La riposta potrebbe non esser così stravagante: la posa scelta allude esattamente e precisamente alla struttura architettonica d’una cattedrale. Immaginiamo che le due mani siano davvero l’edificio nel quale si raccoglie una comunità in preghiera, l’intreccio delle «dita architettoniche»nella posizione orante, avrebbe sì creato un tetto ai fedeli, ma gli avrebbe coperto l’orizzonte ultimo del loro pregare: il contatto diretto col Cielo, dunque con Dio. Un pericolo non sottovalutabile per un credente: staccare questo contatto necessariamente continuo spesso porta a costruirsi forme religiose «a dimensione umana», di concezione magica. In più, il chiudere la stretta delle mani, avrebbe ‘stritolato’ i fedeli al suo interno, ne avrebbe limitato la libertà e il movimento, li avrebbe pressati in una di quelle scatole per sardine contemporanee in cui ogni pendolare è uguale all’altro, ogni spettatore paga come il suo vicino, senza via di scampo, senza possibilità di sbagliare, senza strada da scegliere. Senza libero arbitrio. Ma la comprensione di Rodin dell’atto creativo ha fatto sì che egli modellasse un luogo di culto ‘a immagine e somiglianza dell’Amore di Dio’: spazioso anche se collettivo, di azione come di preghiera, di struttura pienamente umana sebbene sempre aperto alla Verità trascendente.
• Ed io, vivo le scelte di fede come una privazione del libero arbitrio?
• La pratica religiosa mi è d’impiccio o d’aiuto? Che legame ha con la mia interiorità? Anche a me capita di viverla come un rito magico?
• Cosa mi aspetto dalla mia pratica religiosa? Le mie buone azioni di cittadino e di cristiano praticante, come si inscrivono nel mio rapporto con Dio?
Per continuare (o materiali da sfruttare)…
Film (schede film scaricabili da www.acec.it)
* GESÙ DI MONTREAL, di Denys Arcand, Canada, Max Films Productions, Gerard Mital Productions, 1989.
* PRINCIPESSA MONONOKE, di Hayao Miyazaki, Giappone, Toshio Suzuki per Studio Ghibli, 2000.
* SIMON MAGUS, di Ben Hopkins, Gran Bretagna, Lucky Red Distribution, 2000.
Libri
* G. Gozzi, Superstizioni? Credenze, ubbie, incantesimi, magie, Editoriale Sometti, 2009.
* I.B. Singer, Il mago di Lublino, Longanesi, 2009.
* G.G. Márquez, La incredibile e triste storia della candida Eréndira e della sua nonna snaturata, Mondadori, 2000.
* P. Coelho, Il diavolo e la signorina Prym, Bompiani, 2000.
Musica
* Modena City Ramblers, TERRA E LIBERTÀ, Blackout Polygram, 1997.
* L. Ligabue, WALTER IL MAGO, da «Sopravvissuti e sopravviventi», WEA, 1993.