Si può ancora
parlare di «natura»?
Considerazioni antropologico-etiche
Giannino Piana
Il concetto di «natura» (e di «legge naturale»), con il quale si è teso in passato a definire l’esistenza di un ordine originario presente nel cosmo e nell’uomo e al quale l’agire umano doveva conformarsi, non gode oggi di ottima reputazione. Frequenti (e non del tutto ingiustificati) sono gli attacchi che a tale concetto si muovono, reagendo nei confronti di posizioni della Chiesa (passate e recenti) nelle quali ci si richiama a esso per condannare comportamenti (soprattutto in ambito sessuale) definiti «devianti».
Allo stesso tempo, le possibilità di intervento sul mondo e sull’uomo fornite dalle nuove tecnologie, con i rischi che ne derivano, fanno emergere la necessità di individuare criteri che consentano di discernere ciò che è eticamente legittimo (perché umanizzante) e ciò che non lo è (perché alienante) e rinviano per questo a uno statuto originario dell’umano che è stato per tanto tempo identificato con l’idea di «natura».
1. Inattualità e attualità di una questione
Il declino del concetto di «natura» è legato all’affermarsi, a partire dalla fine del Medioevo, di una concezione fisicista del dato naturale che appare in aperta contraddizione con le istanze più significative della modernità. L’accento posto, nel pensiero filosofico moderno, sul «soggetto» come essere unico e radicalmente irripetibile rende vano ogni discorso sull’esistenza di una natura comune tra gli uomini; mentre, a sua volta, l’importanza attribuita alla «cultura» dalle diverse scienze umane, in particolare da quelle psicologiche e antropologico-sociali, dando esclusivo risalto alla dimensione della storicità, destituisce di credibilità ogni riferimento a un dato ontologico (quale è il concetto di «natura») concepito come immutabile. Le ragioni di fondo della crisi attuale vanno tuttavia ricercate nel vasto processo culturale che ha avuto luogo con il passaggio dalla civiltà preindustriale, caratterizzata dai «cicli naturali» del mondo contadino, a quella industriale e postindustriale, contrassegnata da una concezione sempre più «artificiale» della vita. Grazie all’avanzare della tecnica i determinismi naturali vengono gradualmente sostituiti dall’intervento umano sulla realtà, al punto che si assiste a una progressiva trasformazione della «natura» in «cultura». D’altra parte, a seguito del successo della teoria dell’evoluzione, la «natura» non risulta più espressione di un processo razionale guidato nel suo divenire da un’intelligenza, ma appare piuttosto come una realtà in costante mutamento, in cui affiorano deficienze e disfunzioni, spiegabili soltanto come effetto di aggiustamenti operati dalla selezione naturale.[1] Il che rende evidentemente poco plausibile il ricorso a essa quale paradigma per l’agire morale.
All’inattualità del concetto di «natura» fa, d’altronde, riscontro la sempre maggiore attualità dell’istanza ad esso soggiacente. Il processo manipolativo di vaste proporzioni attualmente in corso evidenzia la necessità di stabilire un limite invalicabile all’intervento umano - in gioco non vi è infatti soltanto il destino del singolo, ma anche quello della specie -; mentre la presenza di culture diverse sullo stesso territorio, quale effetto della globalizzazione, spinge all’individuazione di un terreno comune - un dato transculturale attorno a cui convergere - quale presupposto per la loro integrazione.[2]
L’odierno scenario tecnologico origina inoltre una nuova visione antropologica che condiziona la percezione che il soggetto ha di sé e dei rapporti con gli altri. La tecnica, che estende la sua interferenza a tutti gli ambiti dell’esistenza e che assume le sembianze di un potere sempre più stratificato,[3] determina l’insorgenza della «razionalità strumentale», la quale riduce i significati della realtà ai criteri di operabilità e di utile, con la diminuzione dei livelli di umanità.
La tendenza a ritenere tutto ciò che è tecnicamente possibile come eticamente legittimo si scontra con l’emergere di nuovi (e pesanti) rischi che rendono evidente l’ambivalenza dei processi in corso e fanno crescere la coscienza dello scarto esistente tra progresso tecnico e sviluppo umano. A sua volta, il conflitto tra le culture mette in luce come la possibilità di un confronto arricchente è strettamente dipendente dalla disponibilità di ciascuna cultura a riconoscere la propria parzialità e dalla capacità di ricuperare un referente, che sta oltre la «cultura» (e oltre la tecnica), quale criterio valutativo della realtà e quale condizione per la sua crescita.
Appare pertanto ineludibile la necessità di ricorrere allo statuto ontologico della realtà, alla sua infrastruttura originaria, non solo per evitare ricadute devastanti, ma anche (e soprattutto) per dare vita a processi positivi di liberazione umana.
2. L’evoluzione dei modelli in Occidente
Le oscillazioni cui si è accennato non rappresentano, del resto, un fenomeno nuovo. Il pensiero occidentale ha elaborato, nel corso del tempo, definizioni diverse della «natura» con prospettive non sempre tra loro conciliabili.
a) La filosofia greca
In questo ambito si sono intrecciate, fin dall’inizio, due tradizioni. La prima «cosmocentrica», inaugurata dai presocratici, riconduce la natura umana a quella cosmica - l’uomo, in quanto microcosmo è soggetto alle leggi proprie del macrocosmo -; la seconda «antropocentrica», iniziata da Socrate (si pensi al suo «conosci te stesso»), pone al centro l’uomo, e concepisce la natura umana come una realtà nettamente distinta dall’ordine del cosmo, con leggi proprie che la regolano e che hanno la loro sorgente nella «ragione», la quale conferisce all’uomo la possibilità di conoscere se stesso e il mondo circostante e di intervenire su di essi.
La tradizione «cosmocentrica» è stata in particolare sviluppata sul terreno etico dallo stoicismo, per il quale il perseguimento della felicità (eudaimonía), che costituisce l’obiettivo della vita morale, è connesso all’attuazione di una vita virtuosa, consistente nell’adeguamento delle azioni umane alla legge del cosmos, del cui ordine anche l’uomo partecipa insieme agli altri esseri.[4] Il pensiero stoico, dopo una prima fase in cui ha elaborato una concezione della «natura» riferita totalmente all’ordine cosmico, si è successivamente aperto a una dimensione antropologica. Il «vivere secondo natura» in questo caso, lungi dall’essere equiparato alla mera adesione a una cieca istintualità, è inteso piuttosto come un «vivere secondo ragione», essendo presente nella natura il logos divino quale principio animatore e ordinatore. La differenza qualitativa tra natura cosmica e natura umana è tuttavia anche in questo caso assente: la convergenza nel logos di «natura» e «ragione» istituisce tra le due una continuità che non salvaguarda la specificità del dato umano.
La prospettiva «antropocentrica» è, invece, chiaramente delineata nel pensiero di Aristotele, che fa coincidere la natura umana con l’essere razionale dell’uomo. La legge naturale umana è, di conseguenza, messa in stretto rapporto con l’attività della ragione che ordina le inclinazioni e gli istinti verso gli obiettivi più alti. Il «vivere secondo natura» non significa dunque adeguamento alle inclinazioni di livello inferiore, ma capacità, attraverso la ragione, di attingere il vero fine dell’agire umano, che è anche per Aristotele l’eudaimonía. Radicata entro un quadro universale, la natura umana assicura la permanenza di alcuni valori comuni a tutti gli uomini e consente perciò una risposta insieme omogenea e diversificata alla realizzazione umana.
b) La tradizione cristiana
Anche qui è presente un’analoga differenziazione. Il pensiero dei Padri - sotto l’influsso dello stoicismo - è ancora legato a una visione «cosmica» della realtà che non consente loro di distinguere nettamente il «secondo ragione» dalle dinamiche proprie della «natura» intesa come l’insieme dei processi e delle leggi che si sviluppano nell’ambito del mondo infraumano. Tuttavia - e qui sta la novità rispetto agli Stoici - «natura» e «legge naturale » sono dai Padri della Chiesa inseriti nel contesto storico-salvifico mediante il riferimento alle categorie di «creazione» e di «escatologia»: la «legge naturale» non è dunque più, per il cristiano, l’unico riferimento cui fare appello nell’agire, ma va integrata dalla legge evangelica.
L’abbandono dell’impostazione cosmica e fisicista ha luogo con il pensiero di Tommaso d’Aquino, direttamente dipendente da quello aristotelico, che fa decisamente propria una concezione «antropologica».[5] Definendo la natura umana «natura come ragione» (natura ut ratio) l’Aquinate le conferisce uno statuto dinamico, che giustifica la possibilità dell’intervento trasformativo del- l’uomo: la ragione consente infatti all’uomo non solo di conoscere ma anche di modificare le dinamiche biofisiche del proprio essere come quelle della natura circostante. La legge naturale umana assume un significato nuovo: essa è qualitativamente diversa dalla legge della natura infraumana, caratterizzata dal determinismo fisico e biologico, al punto che Tommaso giunge ad affermare che si può, nel caso dell’uomo, parlare di «legge naturale» solo «per analogia». Essa è, da un lato, ancorata alla «legge eterna» (lex aeterna), che coincide con il piano provvidenziale attraverso il quale Dio regge il mondo e, dall’altro, alla «ragione» (ratio) che definisce il modo proprio dell’uomo di partecipare alla «legge eterna», facendo proprio un atteggiamento libero e responsabile.[6] La legge naturale umana riveste, a tutti gli effetti, il carattere di «legge», potendo venire definita in senso pieno come «ordinamento di ragione» (ordinatio rationis), i cui contenuti sono, in parte, percepiti come principi primi della stessa ragione (e in questo caso rivestono carattere di universalità), in parte come frutto della mediazione di tali principi con una serie di fattori derivanti dalla storia (e in questo caso non sono universalizzabili).[7] Prende corpo così un concetto di natura umana (e di legge naturale umana) dinamico, fondato su un’infrastruttura ontologica aperta (legata all’essere corporeo e spirituale e alla dimensione sociale dell’uomo), che non comporta soltanto la conservazione della realtà, ma anche la possibilità (anzi la necessità) di un costante intervento su di essa. La «natura» è perciò «datità» e «possibilità»: ha cioè i connotati di realtà intangibile e insieme soggetta a un processo di continua trasformazione.
c) La modernità
La rottura con la visione di cui sopra, lontana tanto dal fissismo naturalistico quanto dal riduzionismo culturale, ha inizio agli albori dell’epoca moderna, la quale è contrassegnata dalla centralità assegnata al soggetto in quanto individuo, considerato cioè nella sua unicità, al di fuori di qualsiasi orizzonte cosmo-ontologico. A dare inizio a questo processo è stato il Nominalismo, che, riducendo i concetti a «nomi» (cioè a etichette esterne che non definiscono ciò che le cose sono), introduceva una visione individualistica della realtà, concepita come l’insieme di tanti piccoli mondi tra loro non comunicanti. Il che implica la negazione di qualsiasi riferimento ontologico, vanificando la possibilità stessa di parlare di «natura». L’idea di «natura», che formalmente persiste, è perciò ricondotta al solo aspetto «biologico», e il supporto esterno con cui si tende a conferirle autorevolezza è costituito dall’appello immediato alla «volontà» di Dio: la «natura» è come Dio la vuole.
In seguito, il graduale distacco della realtà dall’orizzonte religioso come esito della secolarizzazione fa perdere alla «natura» il carattere di rispecchia- mento della sapienza divina; mentre l’affermarsi di un modo di pensare antropocentrico e pragmatico riduce la «natura» a semplice campo dell’intervento libero e creativo dell’uomo.[8]
La dottrina del diritto naturale elaborata in questo contesto - quella giusnaturalistica - è caratterizzata dal prevalere dei connotati giuridici. La perdita della dimensione ontologica e la necessità di un dato sicuro cui riferirsi nell’agire fa sì che la «natura» venga identificata con il fattore biologico e venga pertanto interpretata in termini fissisti, ricorrendo come sostegno al principio di autorità del volere divino. Il rifiuto del concetto di «natura» (e di «legge naturale ») che si è sviluppato in epoca recente è una forma di reazione a tale modello, privo di ogni attenzione alla dimensione storica dell’esperienza umana.
3. Il contributo della tradizione ebraico-cristiana
Non si possono ricercare nella rivelazione ebraico-cristiana riferimenti precisi alla questione della «natura» (e della «legge naturale»). Non solo i termini «natura» e «naturale», di origine greca, sono ignorati dalla Bibbia; ma la stessa idea a essi soggiacente le è estranea.[9] Esistono tuttavia nella Bibbia importanti dati che rinviano ai contenuti di questa idea, e sono soprattutto presenti interessanti elementi di interpretazione della realtà, che fanno, in qualche misura, proprie le istanze che da essa scaturiscono.[10]
a) Creazione e alleanza
Creazione e alleanza sono due fondamentali categorie della storia della salvezza, che ne delineano i contorni e ne orientano il percorso. La prima definisce la struttura propria della realtà del mondo e dell’uomo rinviando all’atto originario con cui Dio l’ha plasmata; la seconda mette a fuoco la relazione comunionale che lega la realtà a Dio, e che sta pertanto alla radice dei vari legami che in essa si intrecciano.
La novità che il racconto biblico della creazione (in particolare quello di Genesi 1) presenta rispetto alle cosmogonie del vicino Oriente consiste nel presentare l’atto creazionale come l’inizio di un processo che si svilupperà successivamente nella storia. Il concetto di creazione ha un carattere dinamico: esso rinvia a un dato originario, che è tuttavia l’inizio di un cammino in cui è in gioco la responsabilità umana. Usciti dalle mani di Dio, umanità e mondo vengono rimessi alle mani dell’uomo, che ha il compito di salvaguardarne l’identità originaria e di condurli a compimento mediante la sua attività trasformatrice.
La «natura» - quella cosmica e quella umana nel legame che le unisce[11] - è una realtà, che va rispettata nella sua struttura profonda, ma che deve essere anche fatta oggetto dell’intervento umano. I verbi «dominare» (Genesi 1, 28) e «custodire» (Genesi 2, 15) con i quali viene designato il compito del- l’uomo nei confronti del mondo circostante (e di riflesso anche nei confronti di se stesso) definiscono il senso del rapporto che l’uomo deve intrattenere con l’intera realtà. Il mandato di «soggiogare» la terra indica la partecipazione dell’uomo al potere creativo divino, l’affidamento del compito di «prendere possesso» della natura e di «guidarne» lo sviluppo verso la pienezza. Il giardino dell’Eden è assegnato al «lavoro» e alla «custodia» dell’uomo; in una parola, all’esercizio di una signoria che ha il suo limite in quella di Dio, come ci ricorda (con grande efficacia simbolica) il precetto di «non mangiare dell’albero della conoscenza del bene e del male» (Genesi 2, 17).
La categoria di creazione è dunque lontana tanto da una sacralizzazione della «natura», che nega la possibilità di qualsiasi intervento su di essa, quanto da una riduzione di tutto a «cultura», che impedisce si parli di «natura» e apre la porta a un radicale relativismo. Il concetto di «natura» è inteso secondo un’accezione finalistica; esso rinvia all’esistenza di un dato originario, che va, nel contempo, rispettato e fatto oggetto di una continua trasformazione. La «natura» è aperta a un futuro di pienezza: non è una realtà confezionata una volta per tutte, ma una realtà in divenire. L’ordine che la costituisce è posto sotto l’ordine della storia salvifica; il che non significa che essa sia pura cornice. In quanto base permanente di tale storia, la natura possiede una propria struttura, che l’uomo deve riconoscere e preservare perché gli appartiene. L’impegno umano non può perciò esercitarsi come un potere assoluto; deve tendere a trasformare il mondo e la storia in dimora abitabile per l’intera famiglia umana.
Questa visione è ulteriormente approfondita dalla categoria di «alleanza», che, conferendo alla realtà lo statuto di un «tessuto relazionale», assegna all’agire umano la funzione di «conservare» e di «approfondire» (dilatandone la sfera dei significati) tale relazionalità. L’attività dell’uomo deve avere di mira la promozione delle relazioni, nel rispetto dell’ordine intrinseco alla realtà e nella prospettiva di un costante ampliamento della sfera della comunione, escludendo perciò ogni comportamento ispirato a una logica meramente «strumentale» incapace di tutelare la struttura intima delle cose. La «natura» è, in questa prospettiva, il background relazionale, che definisce il senso della crescita del mondo sia infraumano sia (soprattutto) umano, e che l’uomo deve promuovere, incrementando l’armonia tra i diversi ordini della realtà e piegando le leggi fisiche e biologiche al perseguimento del bene globalmente inteso.
b) La prospettiva cristologica
Creazione e alleanza raggiungono la loro più alta espressione nel mistero di Cristo. Facendosi «carne» (sarx) il Verbo non si è fatto soltanto «storia» ma anche «natura», entrando pienamente nel mondo e divenendo parte di esso. In Gesù di Nazaret Dio ha accettato di limitare la sua presenza entro un «tempo» e uno «spazio» circoscritti, che si trasformano in tempo e spazio di salvezza: al kairós temporale (il momento opportuno per la salvezza, nel linguaggio neo-testamentario) si affianca un habitat spaziale, che è segnato dall’essere-nel-mondo del Verbo e che si estende, a partire da esso, all’intero universo.
Il coinvolgimento della «natura» (cosmica e umana) nella prospettiva salvifica inaugurata da Cristo si rende soprattutto evidente nel mistero pasquale. La risurrezione di Gesù, in cui la creazione ha il suo compimento, inaugura il processo della risurrezione dai morti e, più in generale, della ricreazione del mondo. L’azione liberatrice di Gesù, assumendo la realtà dell’esistenza corporea dell’uomo — la verità della risurrezione della carne fa parte del nucleo fondamentale della fede cristiana —, consolida la speranza dell’intera creazione di essere liberata dalla caducità. Uomo e cosmo hanno, ciascuno secondo il proprio livello, un loro destino; ma, sul terreno dell’asservimento e della liberazione, si muovono entro una storia comune. Si può, in un certo senso, dire che la creazione è iniziata con il cosmo e si è conclusa con l’uomo, mentre la ri-creazione escatologica ha avuto inizio con la liberazione dell’uomo e culminerà con il riscatto del cosmo.
La «natura» partecipa della «novità» originata dalla forza della risurrezione di Cristo. Lo Spirito, che abita tutta la realtà, sia umana sia cosmica, diviene il principio che differenzia e armonizza, che individua e compenetra. Umanità e mondo sono ricondotti alle loro radici: la comunione che li lega è fondata sulla riconciliazione che Dio ha istituito con loro; riconciliazione che, ridando coesione all’universo, lo pone immediatamente in rapporto di cooperazione con l’uomo. I due ordini naturali tuttavia non si identificano: tra natura cosmica e natura umana si dà una differenza qualitativa che giustifica l’intervento trasformatore dell’uomo a patto di non stravolgere l’identità delle «cose».
4. Dalla «natura» alla humanitas
L’attuale esigenza di ricupero dell’istanza che il concetto di «natura» ha sempre custodito non vanifica gli aspetti di ambiguità che lo contraddistinguono, specialmente quando viene applicato all’uomo e al suo agire morale. Il termine stesso «natura» (e ancor più «legge naturale»), nella connotazione che ha storicamente acquisito, è fonte di equivoci fuorvianti, e perciò difficilmente utilizzabile come «cifra» sotto cui ricomprendere le istanze che esso in passato tutelava.[12]
È dunque opportuno introdurre (anche sul terreno terminologico) la distinzione (peraltro classica) tra l’ambito cosmico (e più in generale infraumano), riservando a esso l’uso del termine «natura», e l’ambito umano, dove è forse più corretto parlare di «umanità» (humanitas), termine che meglio definisce la specificità dell’umano e che consente di orientare in modo più appropriato la condotta dell’uomo.
Questa distinzione è implicitamente presente in varie posizioni filosofiche, che possono essere ricondotte, in linea di massima, a una concezione «personalista». Reagendo a una visione rigidamente «biologica» della «natura », che ha la pretesa di desumere prevalentemente dalle dinamiche biofisiche i criteri dell’agire umano, numerosi autori (appartenenti a diverse scuole) fanno appello all’idea di «persona» come realtà in grado di conferire alla natura umana caratteri specifici, che ne fondano l’assoluta dignità e conferiscono alla dimensione relazionale che la qualifica il valore di elemento costitutivo. L’impossibilità di ridurre la natura dell’uomo al semplice livello dei dati empirici (e l’agire morale a mero adeguamento a essi) appare evidente: questo porterebbe a perdere di vista «il fatto che l’uomo, in base alla sua razionalità, deve svolgere un compito di ordinamento della natura, umanizzandola e imprimendole un progetto antropologico, certamente ai fini di una simbiosi controllata dal pensiero, e non di una sottomissione cieca. La natura è come un primo abbozzo da completare in base a criteri che trascendono quelli semplicemente empirici».[13]
L’idea personalista di «natura» è complessa, articolata su diversi livelli che vanno tra loro integrati; essa obbliga, laddove emergono conflitti tra le istanze che a tali livelli si riferiscono, a un rigoroso discernimento, che può avvenire soltanto mediante il ricorso a una precisa tavola di valori. La natura umana si presenta infatti come una realtà a più stratificazioni, costituita da uno strato biologico originario - il quale non è tutto, ma non è nemmeno totalmente irrilevante per l’agire morale - e da strati superiori (personalità, socialità e capacità culturale).[14]
A dover essere correttamente definito è il giusto equilibrio tra le due dimensioni costitutive dell’uomo, quella corporea e quella spirituale, superando la tentazione tanto di ridurre la «legge naturale» a pura intenzionalità quanto di identificarla con il semplice prodotto del dato biologico, ed evitando perciò che l’umano venga concepito o come «pura libertà» o, inversamente, come «puro determinismo».
«Alla luce di queste premesse forse sarà possibile comprendere meglio come la natura umana si presenti fondamentalmente strutturata secondo un’unità bipolare che attinge allo stesso tempo al piano materiale e a quello dello spirito, senza nessuna opposizione, subordinazione o alternativa. Tuttavia è proprio l’elemento spirituale, quello cioè della libertà, che introduce all’interno dell’unità della natura umana un possibile principio di dissociazione interiore. Questo va inteso nel senso che lo statuto interno alla libertà comporta il rischio che l’uomo contraddica, sul piano dell’agire morale, la sua natura fatta per il vero e per il bene».[15]
Il nodo fondamentale è, in definitiva, costituito dal legame tra natura e persona o, più precisamente, dalla disponibilità che la persona può avere sulla natura umana, considerando l’importanza del rispetto di alcune strutture significative del dato biologico - il ricupero del «corpo» come elemento costitutivo della soggettività umana esige che non lo si tratti in modo puramente strumentale - e l’attenzione privilegiata alla «cultura», in quanto dato specifico della natura umana, il cui contenuto non può essere definito senza riferimento alla dimensione culturale della persona.[16]
In questo contesto, grande rilievo assume la questione del rapporto tra immutabilità e storicità; rapporto che va elaborato evitando di assolutizzare l’una o l’altra, con il pericolo di incorrere in un «fisicismo» destituito di ogni valenza storica, o di cadere in una forma di «positivismo storicista», che ha come esito il relativismo perché non riconosce niente di permanente. La grande rilevanza assegnata al fattore culturale, che destina ampio spazio all’esercizio della libertà, spiega l’indeterminatezza della natura umana, la sua stretta connessione con la storia al punto che la si può identificare con essa.[17] L’immutabilità della natura umana (e della legge naturale umana) ha pertanto senso solo a livello formale; a determinarne l’orientamento deve essere infatti la persona, in quanto terreno in cui la natura si radica e fine verso cui tende, il che comporta che l’obiettivo dell’agire morale è la progressiva personalizzazione della natura, cioè la sua umanizzazione.
Il fatto che il termine «natura» evochi immediatamente la natura del cosmo e che la sua applicazione alla natura umana sia pregiudicata dal retaggio storico giusnaturalistico, che la riduce al dato «biologico», rende di fatto impraticabile il ricorso a esso. L’istanza che soggiace a tale termine (e che conserva ancor oggi grande attualità) può essere meglio espressa ricorrendo — come si è detto — a un termine quale «umanità» (humanitas), che mette bene a fuoco la specificità della natura umana, cioè la dimensione personalista che la differenzia qualitativamente da ogni ordine infraumano. A questo allude Tugendhat, il quale ritiene (senza parlare di «natura») che «c’è qualcosa nei rapporti umani che si offre come valido per tutti; e che questo consiste in un dato anteriore ad ogni discorso e che appare nell’autorapporto […] con se stessi e con gli altri».[18]
L’idea di fondo che viene infatti evidenziata con il termine «umanità» (humanitas), scorporato dal concetto di «natura», è l’esistenza di «qualcosa» che appartiene costitutivamente all’umano (e che deve essere rispettato se non si vuole incorrere nel pericolo di perdere l’identità) e la sua riconduzione al riconoscimento che ogni uomo è investito di una dignità derivante dal suo essere persona; dignità che si fa pienamente percepibile soltanto in un contesto di reciprocità.
5. Conclusioni
I concetti di «natura» e di «umanità», nel senso con cui sono stati definiti, forniscono orientamenti preziosi per uno sviluppo corretto delle relazioni sia a livello umano che ambientale.
a) Se concepiamo l’uomo come essere-nel-mondo, perciò in diretta continuità con il cosmo (che va pertanto trattato come habitat e non come semplice contenitore di risorse), il ricorso al concetto di «natura» diventa necessario non solo per fissare un limite al dominio dell’uomo, ma (soprattutto) per determinare la consistenza di tale limite a partire da uno sguardo sulla realtà non basato sull’uso delle cose nel quadro di una logica economicista, ma sulla ricerca del senso (le risorse dell’ambiente rinviano a fondamentali significati spirituali) e sul ricupero della dimensione contemplativa della vita.
b) L’appello alla «umanità» (humanitas) consente, d’altra parte, di affrontare questioni di grande portata — quelle connesse, in primo luogo, agli interventi sul patrimonio genetico umano — tenendo in seria considerazione non solo il bene dei singoli, ma anche quello della specie. Hans Jonas giustamente ci ricorda che il famoso principio kantiano «tratta ogni uomo come fine, e non come mezzo» va esteso all’intera specie umana, la cui identità, oggi minacciata, deve essere salvaguardata da ogni pericolosa forma di contraffazione.[19]
c) Infine, il rimando a una comune «umanità» (humanitas), nel contesto attuale caratterizzato da una sempre maggiore interdipendenza tra le culture, è condizione essenziale perché possa verificarsi il passaggio dalla multiculturalità all’interculturalità, cioè da una prossimità geofisica tra culture diverse che porta con sé il rischio di uno stato di conflitto permanente a una situazione di vero interscambio. L’ammissione che, al di là delle «culture», vi è l’ánthropos, cioè un dato «trans» o «meta» culturale, che sta oltre le (e prima delle) differenze costituisce il presupposto necessario per l’attuazione del confronto tra le diversità culturali: se infatti non si convergesse attorno a un elemento comune (riconosciuto come tale da tutti) non si darebbe tra le culture possibilità alcuna di interscambio e di reciproco arricchimento. D’altra parte - è un aspetto non meno rilevante - l’esistenza di tale dato è condizione imprescindibile per la definizione di un patrimonio etico universalmente condiviso, che diventi garanzia per sviluppare una convivenza partecipata e solidale.
(Aggiornamenti sociali 9-10/2006, pp. 679-689)
NOTE
[1] Per un approfondimento di questo aspetto cfr FRANCESCHELLI D., Dio e Darwin. Natura e uomo tra evoluzione e creazione, Donzelli, Roma 2005. Il testo è stato recensito in PIANA G., «Per un incontro tra darwinismo e fede», in Aggiornamenti Sociali, 5 (2006) 445-449. Lo stesso card. Ratzinger (oggi papa Benedetto XVI) in un confronto con il filosofo tedesco Jürgen Habermas ha ammesso che «con la vittoria della teoria dell’evoluzione […] che oggi in larga misura sembra incontrovertibile» il richiamo tradizionale al diritto naturale «purtroppo risulta spuntato», perché è ormai evidente che «la natura come tale […] non è razionale». (HABERMAS J. – RATZINGER J., «Etica, religione e Stato liberale», in Humanitas, 2 [2004] 256 s.).
[2] Habermas, affrontando il tema dell’ingegneria genetica, ha di recente invocato il ricorso all’idea di «natura» come criterio essenziale per la fissazione di un limite all’intervento umano. Cfr HABERMAS J., Il futuro della natura umana. I rischi di una genetica liberale, Einaudi, Torino 2002 (ed. or. 2001).
[3] Cfr LUHMANN N., Potere e complessità sociale, Il Saggiatore, Milano 1979 (ed. or. 1975).
[4] Cfr ARNTZ J., «La legge naturale e la sua storia», in BÖCKLE F. (ed.), Dibattito sul diritto naturale, Queriniana, Brescia 1973 (ed. or. 1966), 89-113.
[5] Cfr PIZZORNI R. N., Diritto – Morale – Religione. Il fondamento etico-religioso del diritto secondo S. Tommaso d’Aquino, Urbaniana University Press, Città del Vaticano 2001; VAN OVERBEKE P. M., «La loi naturelle et le droit naturel selon s. Thomas», in Revue Thomiste, 57 (1957) 53-78; 450-498.
[6] Cfr TOMMASO D’AQUINO, Summa theologiae, I-II, q. 91, aa. 2 e 3.
[7] Cfr PINKAERS S., «Esquisse d’une morale chrétienne. Ses bases: la loi évangélique et la loi naturelle», in Nova et Vetera, 2 (1980) 102-125; ID., Les sources de la morale chrétienne. Sa méthode, son contenu, son histoire, Editions Universitaires, Fribourg 1985; RIZZELLO R., «La legge morale per il bene della persona e per l’amicizia tra le persone», in Angelicum, 69 (1992) 369-388.
[8] Cfr FINNIS J., Natural Law and Natural Rights, Clarendon Press, Oxford 1980.
[9] Il termine «legge naturale» è presente nel NT nella Lettera ai Romani con un senso alquanto diverso rispetto al pensiero greco. Cfr SACCHI A., «La legge naturale nella Lettera ai Romani», in AA. VV., Fondamenti biblici della teologia morale, Paideia, Brescia 1973, 388.
[10] Cfr SACCHI A., «La legge naturale nella Bibbia», in AA. VV., La legge naturale, EDB, Bologna 1970, 17-59.
[11] «Uomo e cosmo sono sempre in relazione tra loro, ma come “eventi” che accadono sotto un’immancabile azione divina e non come semplici “pezzi” accostati di un meccanismo cosmico» (BONORA A., «L’uomo coltivatore e custode del suo mondo in Gen 1-11», in CAPRIOLI A. – VACCARO L. [edd.], Questione ecologica e coscienza cristiana, Morcelliana, Brescia 1988, 157).
[12] Cfr COLIN P., «Ambiguïté du mot “nature”», in Le Supplément, 81 (1967) 251-268.
[13] DEMMER K., Fondamenti di etica teologica, Cittadella, Assisi 2004 (ed. or. 1999), 149.
[14] Cfr DEMMER K., Interpretare e agire. Fondamenti della morale cristiana, San Paolo Edizioni, Cinisello Balsamo (MI) 1989 (ed. or. 1985), 136-141.
[15] ZUCCARO C., Morale fondamentale, EDB, Bologna 1993, 133.
[16] Cfr CHIAVACCI E., «Legge naturale», in COMPAGNONI F. – PIANA G. – PRIVITERA S. (edd.), Nuovo Dizionario di Teologia Morale, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo (MI) 1990, 634-647.
[17] Cfr STRAUSS L., Diritto naturale e storia, Neri Pozza, Venezia 1957 (ed. or. 1953).
[18] TUGENDHAT E., Problemi di etica, Einaudi, Torino 1987 (ed. or. 1984), 126. Tugendhat propone una etica intersoggettiva, la quale non si fonda semplicemente - come vuole Habermas (Cultura e critica, Einaudi, Torino 1980) - sull’accordo tra soggetti, ma su qualcosa di ulteriore, radicato nella struttura più profonda dell’umano.
[19] Cfr JONAS H., Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, Einaudi, Torino 1990 (ed. or. 1979).