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    «Lasciate che i fanciulli vengano a me». I bambini e il Maestro



    I giovani nella Bibbia /8

    Raffaele Mantegazza

    (NPG 2018-07-65)

    Gesù amava i bambini? Oppure il suo messaggio era unicamente rivolto agli adulti e i fanciulli gli servivano unicamente come metafora?
    Partiamo dal brano nel quale compare il rapporto fisico di tenerezza che Gesù intratteneva con i piccoli: “gli presentavano dei bambini perché li accarezzasse, ma i discepoli li sgridavano. Gesù, al vedere questo, s'indignò e disse loro: «Lasciate che i bambini vengano a me e non glielo impedite, perché a chi è come loro appartiene il regno di Dio. In verità vi dico: Chi non accoglie il regno di Dio come un bambino, non entrerà in esso». E prendendoli fra le braccia e ponendo le mani sopra di loro li benediceva[1]”. Cominciamo con il sottolineare che la metafora d’infanzia è utilizzata dopo un contatto fisico con i bambini, cosa del tutto non consueta nell’Israele del tempo. Gesù non sta tenendo una lezione sull’infanzia ma, come sempre, parte da un situazione concreta e fisica che gli sta accadendo per trarne materiale per un mashal o un insegnamento. Dunque il bambino della metafora è quel bambino, quel singolo fanciullo che il maestro di Galilea sta accarezzando e che gli sta seduto in braccio; lo sguardo di Gesù sui bambini è uno sguardo individualizzante e personalizzato, quello sguardo che piace tanto ai bambini quando capiscono che l’adulto si sta rivolgendo a loro e proprio a ciascuno di loro. Ma cosa significa che il Regno è di quelli che sono “come” quel bambino? Anzitutto che il Regno non appartiene propriamente ai bambini ma a quelli che assomigliano a loro, a quegli adulti che considerano i bambini come esseri ignoranti. I bambini sono nominati perché sono piccoli, perché da loro non ci si aspetta un comportamento maturo; e questa idea di infanzia è condivisa da Gesù.
    Il noto brano dal salmo 8 “con la bocca dei bimbi e dei lattanti/affermi la tua potenza contro i tuoi avversari,/per ridurre al silenzio nemici e ribelli”[2]; richiama un altro brano evangelico: “in quel tempo Gesù disse: Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli”[3]. Notiamo anzitutto che qui non siamo affatto di fronte a un elogio dell’ignoranza (del tutto impossibile in un maestro ebreo): Dio rivela il suo messaggio, dunque chiede all’uomo di imparare, di crescere in sapienza. Solo che la sua rivelazione non riguarda gli arroganti o coloro che usano la sapienza per sottolineare differenze di status, ma i piccoli, coloro cioè che sono consapevoli della propria ignoranza.
    Ma c’è anche dell’altro nel rapporto di Gesù con i fanciulli, e lo si nota in un altro passo famoso: “frattanto sorse una discussione tra loro, chi di essi fosse il più grande. Allora Gesù, conoscendo il pensiero del loro cuore, prese un fanciullo, se lo mise vicino e disse: ‘Chi accoglie questo fanciullo nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, accoglie colui che mi ha mandato. Poiché chi è il più piccolo tra tutti voi, questi è grande" [4].
    È del tutto ovvio che stiamo parlando di una questione di potere. I discepoli di Gesù stanno lanciandosi in una discussione che fraintende il messaggio del maestro, probabilmente stanno cercando di capire quale sarà il ruolo di ciascuno nel rinato stato di Israele, quando il Messia avrà riunificato le dodici tribù e cacciato i Romani. Gesù risponde a questa pericolosa deviazione, che rischia di riproporre all’interno del gruppo dei suoi discepoli le stesse dinamiche di potere che egli sta radicalmente contestando, anzitutto compiendo una azione, ovvero prendendo un bambino e mettendolo in mezzo a loro. I commenti spesso sottovalutano questo aspetto fisico della risposta di Gesù[5]: in una disputa tra adulti era inaudito coinvolgere un bambino, che al massimo poteva origliare i discorsi dei grandi standosene in disparte a giocare. Gesù prende in braccio fisicamente un bambino e lo mette al centro del semicerchio formato dai discepoli. Il messaggio del Maestro è ulteriormente approfondito dalla versione matteana dell’episodio: “in quel momento i discepoli si avvicinarono a Gesù dicendo: «Chi dunque è il più grande nel regno dei cieli?». Allora Gesù chiamò a sé un bambino, lo pose in mezzo a loro e disse: ‘In verità vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli. Perciò chiunque diventerà piccolo come questo bambino, sarà il più grande nel regno dei cieli e chi accoglie anche uno solo di questi bambini in nome mio, accoglie me. Chi invece scandalizza anche uno solo di questi piccoli che credono in me, sarebbe meglio per lui che gli fosse appesa al collo una macina girata da asino, e fosse gettato negli abissi del mare”[6]. Dunque non si tratta solamente di essere come bambini, nel senso di essere sottostimati e poco considerati. Tutto questo è vero, ma si tratta anche di non scandalizzare i piccoli, e per Gesù è proprio l’amore per il potere, la corruzione, il desiderio di prevaricare o anche solo di prevalere sull’altro il comportamento che scandalizza (non possiamo ignorare che le parole di Gesù sono provocate da una disputa tra discepoli a proposito del potere). Dunque se i bambini simboleggiano l’amore di Dio per tutto ciò che è piccolo e disprezzato, essi vengono anche a richiamare l’adulto che vuole seguire Gesù a un comportamento adeguato proprio davanti a loro. Gesù vuole che la sequela, che pretende dai suoi amici, sia tale soprattutto davanti agli ultimi, agli umili e ai bambini, perché sarà proprio a seconda del comportamento che avremo tenuto di fronte a queste persone che saremo giudicati: “ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me”[7].
    Dunque è solo in parte vero quello che afferma Oporto: “l’insegnamento di Gesù si concentra su questioni che hanno a che vedere con la casa: il rapporto tra marito e moglie (Mc 10, 2-12), il comportamento verso i bambini (Mc 10, 13-16) e l’uso dei possedimento famigliari (Mc 10, 17-31). In esse viene proposto un tipo di rapporto diverso da quello che troviamo nei codici domestici dell’epoca”[8]; ci sembra che questa prospettiva da un lato insista un po’ troppo su una frattura di Gesù con le usanze ebraiche che invece ci sembra minima, dall’altro non veda il carattere specifico e radicale delle metafore d’infanzia in Gesù, ovvero il fatto che proprio condividendo l’immagine di infanzia propria della sua epoca egli ribalta il comportamento adulto nei confronti non solo dei bambini ma di tutto il mondo. Esaltare l’infanzia come regno della sapienza, dell’intelligenza e della perfezione avrebbe certo costituito una frattura, ma probabilmente avrebbe avuto meno efficacia rispetto alla chiamata ad azioni che affrettassero il Regno; partire dall’infanzia come regno dell’ignoranza e dell’umiltà e fare di queste caratteristiche non solo momenti dello sviluppo da superare (Gesù non contesta mai il fatto che i bambini vanno istruiti!) ma elementi da assumere polemicamente come propri da parte dell’adulto in contrapposizione all’arroganza del potere: questa è la vera radicalità dell’uso dell’infanzia come metafora da parte del Nazareno. Un uso che non permane a livello retorico (questo non accade mai in Gesù) ma richiede una immediata teshuvà, una conversione a “U” nei comportamenti. Amare il potere, essere arroganti, prevaricare il povero, l’orfano e la vedova sono comportamenti sempre negativi; tenerli di fronte a un bambino, scandalizzandolo, significa oltretutto tradire il mandato pedagogico così proprio della tradizione ebraica, e porre la vera discriminante tra gli esseri umani, che passa tra coloro che insegnano ai bambini la giustizia, praticandola, e coloro che li scandalizzano praticando l’ingiustizia: “e se ne andranno, questi al supplizio eterno, e i giusti alla vita eterna”[9].


    NOTE

    [1] Mc 10, 13-16.
    [2] Sal 8, 3.
    [3] Mt 11, 25.
    [4] Lc 9, 46-48.
    [5] La gestualità di Gesù spesso viene sottovalutata se non ignorata da molti commenti.
    [6] Mt 18, 1-6.
    [7] Mt 25, 40 cfr anche il versetto 46.
    [8] S. Gujarro Oporto, Fedeltà in conflitto, La rottura con la famiglia a motivo del discepolato e della missione nella tradizione sinottica, Cinisello Balsamo, S. Paolo, 2010, pag. 218.
    [9] Mt 25, 46.


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