Lettere dal futuro interiore /1
Mariella Mentasti
(NPG 2013-03-59)
In un mondo che comprendo di rado,
i venti del destino soffiano quando meno
ce l’aspettiamo.
A volte hanno la furia di un uragano, a volte sono lievi come brezze. Ma non si possono negare, perché spesso portano un futuro impossibile da ignorare.
Tu sei il vento che non mi aspettavo, il vento che ha soffiato più forte di quanto potessi immaginare.
Tu sei il mio destino
(Nicholas Sparks, Le parole che non ti ho detto)
Oggi è il giorno di Helene.
Una partita a scacchi. Sarà come al solito lunga e impegnativa. Quella ha la stoffa della campionessa. Ormai mi batte sempre più sovente.
Helene ha dodici anni, una guerra negli occhi, una mina nel corpo.
Lei dice: «Il bianco risalta con il nero e il nero con il bianco», così dev’essere e così si appropria inevitabilmente dei piccoli scacchi bianchi. Io non ho scelta: a me, bianca come la neve, rimangono gli scacchi neri.
Mi accomodo: un cuscino per lato e uno dietro, per sostenermi la schiena stanca, dolorante e ribelle. Lei è a suo agio, coi cuscini tra le gambe, piccole gambette monche ma graziose, dritte e ben tornite, a ricordare un futuro di modella.
Le sue mani scivolano leggere su quei minuscoli omini di legno e io li vedo vibrare alle sue carezze, alla magia di un mondo morbido e delicato che conoscono solo nel tocco di quelle piccole dita nere.
La scacchiera attende paziente le prime mosse delle sentinelle; un mondo medievale in bianco e nero, una favola da rinarrare a ogni partita dove re e regina vanno sempre d’accordo, le torri si muovono per incanto, gli alfieri si battono orgogliosi e i cavalli galoppano a piccoli passi, senza fare rumore. Una guerra silenziosa, una storia a quadri bianchi e neri, neri e bianchi, le regole definite, dove chi non ci sta è fuori dal gioco; non può – che so – mangiare un pedone a piacimento o comandare alla torre di abbattere la regina. Ognuno ha le sue mosse: i tradimenti non sono ammessi. Lo scacco matto è una svista, non un tradimento. Il rosso non c’è. La mossa sbagliata non tinge di rosso i piccoli omini, il nero resta nero, il bianco, bianco; la scacchiera è immutabile, con i suoi quadretti dai contorni precisi, non una sbavatura, non una scheggia. I percorsi sono guidati, gli incidenti errori responsabili. Nulla che non si possa prevedere.
Helene conosce tutto questo, tuttavia si rifiuta ancora di giocare con gli scacchi neri: è come se temesse un’improvvisa rianimazione del gioco. Ti guarda seria ed è come se dicesse: «Scelgo il bianco, perché io so che se l’alfiere impazzisce, se il re si trasforma in dittatore e il rosso avanza come il soffio di un tradimento bisbigliato, è il nero che salta. Anche se è stato alle regole, anche se è troppo piccolo, anche se sogna mani morbide che lo accarezzano, è lui che ricorderà il fragore delle ossa, il rosso del peccato, il futuro reciso. Scelgo il bianco, lui non rischia».
Nei suoi occhi c’è lo schianto di una mina; nel suo sguardo il silenzio del dolore.
Quella corsa spensierata nel campo del nonno per rincorrere un sogno, per arrivare all’istituto dove un incontro le avrebbe regalato un futuro in una famiglia, mamma, papà e due sorelle di poco più grandi di lei. Era veloce nella corsa, Helene: batteva di gran lunga tutti i bambini del villaggio. Le piaceva correre: vedere il mondo che scorreva veloce come preso dalla voglia di anticipare il futuro, dove lunghe piste di atletica sarebbero state pronte ad accarezzare il rapido e leggero tocco dei suoi piedini. Le avrebbero dato gloria, quelle sue lunghe gambette da corsa, in una pista nuova e moderna della saggia e ricca Europa. Tutti lo dicevano: l’adozione le avrebbe cambiato la vita, moltiplicato le possibilità, regalato un futuro splendido. Così correva, Helene, per non perdersi nemmeno un secondo di quell’abbraccio che avrebbe segnato il confine tra un passato breve ma saturo di dolore e una vita nascente, fatta di volti e parole nuove, di corse e di sorrisi. Ma il confine è passaggio, prova, insidia. È punto d’incontro e di separazione ove l’imprevedibile può colpire alla cieca facendo saltare le gambe e le speranze, in una sorta di errore programmato dove tutto il male è possibile.
Da lontano fecero appena in tempo per vedere le sue piccole braccia protese all’incontro della nuova vita poi il botto, il salto mortale, le ossa, il sangue.
«No!», disse Maria, «Il tuo futuro non sarà interrotto, il mio, il nostro sì era incondizionato, era apertura e risposta a una chiamata. Tu sarai con noi e tra noi, nonostante la mutilazione, il terrore stampato negli occhi, l’angoscia dentro al cuore. Hai oltrepassato il confine del tempo, Helene, non si può tornare indietro; si va avanti, a casa, a costruire un altro futuro, tutto tuo, col nostro aiuto, se lo vorrai. Eri tu nel disegno di Dio sulla nostra famiglia, non le tue gambe. Ti aiuteremo a correre per la libertà».
La battaglia sul tavolo della vita
Ogni lunedì vengo a casa tua. Non ci crede la gente che vengo da te. Mi hanno conosciuto nei tempi d’oro delle mie vittorie: campionessa italiana di scacchi. Facile, dicevate, sono ben poche le donne che si appassionano agli scacchi: ci vuole freddezza di pensiero, razionalità, calcolo, capacità di previsione, pazienza. Le donne sono emotive, istintive, poco adatte per questo genere di sport. Sì, perché gli scacchi sono uno sport. Si sta immobili ma il movimento è interiore: rapidi e furtivi passi, studio dell’avversario, calma, posizionamento, calcolo, concentrazione.
A me non bastava il titolo femminile; essere donna significava per me saper leggere negli occhi, saper sperare oltre l’insperabile, saper accettare l’imprevisto, accogliere il nuovo, trovare strategie inesplorate. Lottai per essere ammessa a un campionato misto ma l’incidente, le fratture, il busto, il dolore mi fermarono. Un’altra lotta assorbì tutte le mie forze, quella contro il male di vivere. La battaglia era ora sul tavolo della vita, tra un no urlato al vento e un sì sussurrato nella preghiera.
Finché un giorno ti conobbi e riconobbi la vita.
Passeggiavo nei corridoi del reparto di fisioterapia col mio girello quando ti vidi sulla tua super sedia a rotelle. Avevo sottobraccio la scacchiera, compagna e consolazione di quei mesi che bruciavano a fuoco lento la mia speranza. Mi bastò vedere il tuo sguardo, il brillio dei tuoi grandi occhi, il collo sottile proteso innaturalmente in avanti spinto da una curiosità che era già conoscenza, scienza e successo. Io, bianca come la neve, mi specchiavo in te, nera come la notte; rivedevo il fascino e lo stupore che quel mondo da favola risvegliava in me ad ogni partita, riconoscevo l’ardore e la passione che ti avrebbero inchiodato per ore davanti a quell’incanto programmato.
«Sono un’atleta, ti presentasti, diventerò campionessa». Ti fissai incredula e riposi: «Anch’io sono un’atleta e una campionessa; quando vuoi possiamo iniziare gli allenamenti».
Da tre anni ci alleniamo tutti i lunedì pomeriggio.
Tu hai imparato, assorbito, divorato le mie istruzioni. Con la rapidità di chi corre nella vita da campione, con la convinzione che quel «sì» incondizionato pronunciato da mamma Maria era la tua porta per il futuro, un futuro non scelto né programmato ma liberante.
E quel casuale e inatteso incontro tra un corpicino mutilato e un’anima persa, quell’incrocio tra due destini dolorosi ha generato un’alleanza nuova che nella cura reciproca ha trovato il suo compimento.
A lunedì prossimo, campionessa!