Non stare alla finestra /2
Simone Budini e Giulia Quinzi
(NPG 2018-04-68)
In un clima segnato dai risultati delle convocazioni elettorali nazionali, peraltro sempre più disertate dai giovani negli ultimi anni, è opportuno interrogarsi sull’origine e il significato della partecipazione politica nella vita democratica. A livello globale, sempre più giovani sembrano preferire un governo delegato a “esperti” (tecnocrazia), piuttosto che a rappresentanti “eletti” dal popolo (democrazia). [1] Guardando all’Italia, in uno studio incluso nell’edizione 2018 del “Rapporto giovani” dell’Istituto Toniolo, sono stati analizzati in modo approfondito i dati di un’indagine condotta ad ottobre 2017 sull’atteggiamento delle nuove generazioni (campione di 3034 persone di età 20-34 anni rappresentativo su scala nazionale) verso la politica e sul loro orientamento al voto. In una delle domande chiave dell’indagine veniva chiesto di assegnare un giudizio da 1 a 10 a ciascuna delle forze politiche italiane. Oltre il 40 percento degli intervistati le ha bocciate tutte, evidenziando una disaffezione verso tutta l’offerta politica, mentre il rimanente 60 per cento ha trovato almeno una forza politica a cui dare la sufficienza (giudizio da 6 in su). Può la Pastorale Giovanile rimanere indifferente a tutto questo? Da dove partire per recuperare il senso della partecipazione politica, andando però oltre le ideologie degli ultimi secoli? Dalle cattedrali gotiche, ad esempio. Ma anche da una serie di riflessioni che condividiamo in queste pagine e approfondiamo nello spazio dedicato alla Rubrica “Non stare alla finestra!” sul sito web di Note di Pastorale Giovanile.
La partecipazione politica
“Le costituzioni delle moderne democrazie di massa riconoscono a tutti i cittadini il diritto di partecipare alla vita politica in varie forme: esprimendo i loro punti di vista, associandosi con altri in organizzazioni politiche o politicamente rilevanti, partecipando alle consultazioni elettorali, cercando di influenzare in un senso o nell'altro le élites politiche e quindi le decisioni del sistema politico, e in altri modi ancora.”[2]
È questa l’introduzione alla definizione di “partecipazione politica” nel dizionario Treccani. Quella che segue, invece, è la definizione di “partecipazione” data dal Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa (Compendio DSC): "una serie di attività mediante le quali il cittadino, come singolo o in associazione con altri… contribuisce alla vita culturale, economica, sociale e politica della comunità civile cui appartiene. [...] Essa non può essere delimitata o ristretta a qualche contenuto particolare della vita sociale" (Compendio DSC, n. 189).
Il lemma più importante della definizione precedente è certamente quel “e”: “e politica”, non “o politica”. Spieghiamoci: il cittadino è chiamato a contribuire alla vita pubblica non solo alla vita culturale, economica e sociale della comunità cui appartiene, ma anche a quella politica. La partecipazione politica non è semplicemente una possibilità, un’opzione tra le altre. Come dice il Pericle di Tucidide: “Un uomo che non si interessa allo Stato noi non lo consideriamo innocuo, ma inutile” [3]!
Infatti, la democrazia, come forma di governo in cui il cratos (il potere) appartiene al demos, e dunque al popolo (dall’etimologia greca della parola) necessita, per la sua sopravvivenza, della partecipazione dei cittadini. Il consenso deriva dall’espediente del principio di rappresentanza, secondo cui il potere non è esercitato direttamente dal popolo, ma esso delega appunto dei rappresentanti il cui compito è governare tutelando interessi legittimi e diritti inalienabili. La partecipazione, invece, si rende necessaria per evitare il fenomeno di scollamento tra società civile e società politica, di modo che il regime democratico risulti essere veramente tale e non si risolva, in ultima istanza, in una oligarchia della classe politica eletta.
Come appunto affermato dalle definizioni suddette, il principio di partecipazione prevede diverse modalità di estrinsecazione a seconda dell’ideologia politica di riferimento.
Sin dal sorgere dei primi stati democratici moderni, si è verificata una contrapposizione dialettica tra due sistemi di pensiero dominanti e assolutizzanti: il liberalismo e il socialismo, i quali, in netta antitesi dal punto di vista antropologico, etico, filosofico, economico, e appunto politico, hanno delineato due forme di partecipazione all’attività politica decisamente opposte.
Il pensiero liberale prevede una società politica costituita da un’élite che detiene il potere. L’accesso alla politica deve essere complicato, tortuoso, di modo che le difficoltà scremino e valorizzino i più bravi e i più motivati, affinché al vertice delle cariche giungano i più meritevoli (principio della meritocrazia). Dunque il partito, secondo il modello liberal democratico, prende la forma di un club esclusivo, i cui membri ruotano attorno ad un capo, leader indiscusso e indiscutibile. La società civile, d’altra parte, risulta essere delegante per le questioni politiche e la partecipazione si limita ad un giuramento di piena fiducia e autorizzazione all’attività del partito (partecipazione minima), così che gli individui possano invece dedicarsi completamente all’esercizio della libertà individuale di seguire i propri interessi privatistici, dogma etico del liberalismo.
Il pensiero socialista edifica invece il concetto di partecipazione a partire dal principio di uguaglianza come valore fondante e come obiettivo ultimo; in base a tale principio, l’opinione politica di ciascuno è assolutamente paritetica: perciò ognuno deve avere la possibilità di esprimere il proprio punto di vista. L’accesso alla politica risulta così essere facile, diretto, immediato, approssimandosi il più possibile al modello di democrazia diretta. Il partito prende la forma di una struttura enorme e radicata all’interno della società civile; al vertice dello stesso non troviamo più un leader singolo, ma una segreteria enorme e spesso inamovibile. Il popolo, infine, deve partecipare, più partiticamente che politicamente, ad ogni attività ed evento promossi dal partito, immergendosi totalmente all’interno della vita dello stesso.
Tuttavia, entrambe le ideologie, la socialista e liberale, peccano di irrealistica astrattezza. Sorgono da ragionamenti basati sostanzialmente su idee che non tengono conto della concretezza, della realtà. Tanto la libertà quanto l’uguaglianza sono infatti valori astratti, perfetti nel loro formalismo razionale, ma assolutamente distanti dall’esistenza concreta, storica e sociale delle persone. Nessuno nasce mai completamente libero (crescendo all’interno di un contesto socio-politico-culturale di riferimento con precomprensioni ineludibili), né tanto meno è dato trovare nella realtà due soggetti uguali l’uno all’altro: la sostanza ontologica (dignità) è la stessa per tutti gli uomini, l’esistenza effettiva risulta invece essere personale e unica.
Segue che le costruzioni politiche sorte da queste basi non possono che essere inadatte per il loro carattere di inconsistenza pratica. È necessario fondare il concetto di partecipazione politica a partire da una strada diversa, ulteriore, che prenda le mosse da un confronto efficace con la realtà.
Questa terza via, il Popolarismo, o Personalismo politico, in realtà non è affatto terza; essa sorge infatti prima delle suddette ideologie (creature dell’età moderna), erede della secolare tradizione classica e cristiana raccolta e interiorizzata dall’Umanesimo cristiano.[4] Come suggerisce il nome stesso, il Personalismo si sviluppa attorno al concetto di persona (primo pilastro della Dottrina Sociale della Chiesa); essa è intesa come imago Dei, dalla dignità ontologica intrinseca e inestimabile, a causa della sua unicità e irripetibilità. Ciò, in primo luogo, rende ognuno atto ad esprimere questa attitudine divina intrinseca attraverso il proprio agire responsabile e retto, diretto ad un perfezionamento che ha come meta Dio stesso; e in secondo luogo, lega ogni persona alle altre in un rapporto di fraternità derivante dalla comune figliolanza nei confronti della divinità.
Di conseguenza, la società non viene più concepita come un contenitore di atomi individuali e in conflitto o identici e ammassati. Essa, invece, assume la conformazione di un organismo, un essere vivente composto da cellule tutte differenti le quali cooperano per il benessere dello stesso. Ogni persona svolge, all’interno del corpo sociale, un ruolo vivo, dignitoso, fondamentale e partecipante, esprimendo il suo contributo di soggetto unico e irripetibile; ciascun compito risulta esser complementare e in armonia con gli altri, secondo un ordine che non prevede controllo o concorrenza, ma cooperazione. Ciascuno è al servizio del prossimo, del vicino, in un’ottica comunitaria che instaura un circolo virtuoso in cui la crescita spirituale del soggetto genera e a sua volta risulta dal perseguimento costante del bene comune.
Stimolare l'affezione politica e la partecipazione
Ma perché è importante stimolare l’affezione politica e l’idea di partecipazione all’interno delle società democratiche? Esistono due motivazioni fondamentali che si riferiscono l’una alla sfera personale, l’altra a quella pubblica.
Dal punto di vista soggettivo la partecipazione è aspirazione […] ad esercitare liberamente e responsabilmente il proprio ruolo civico con e per gli altri (Compendio DSC, n. 190) per realizzare il proprio perfezionamento personale e spirituale sopra il senso comune, all’interno della dimensione sociale-politica. È infatti all’interno della stessa che la persona umana, integralmente intesa, realizza la sua natura più propria e più piena, in una tensione etica orientata verso la felicità che si rincorre e si persegue solamente con la prassi (“felicità è agire”, diceva Socrate). I giovani devono essere rieducati alla partecipazione politica proprio perché essa fa parte della loro natura umana, essenzialmente civile. Oggi siamo abituati a vivere in termini privatistici, ma l’assenza dell’impegno pubblico comporta una mancanza di senso profonda nella vita dell’uomo contemporaneo. Nell’antica Grecia colui che non partecipava all’attività della polis, per ritirarsi nella sfera degli interessi privati, era definito idiotes, aggettivo che nel nostro linguaggio indica colui che è affetto da stupidità, scarsità di intelligenza e di istruzione, e dunque manchevole, imperfetto. D’altra parte la partecipazione non è un dogma imponibile dall’alto. Non è possibile varare una legge che obblighi i cittadini a prender parte alla vita politica dello Stato. Essa può essere solo stimolata, incoraggiata, ma soprattutto, educata. È fondamentale ripartire dalle generazioni più giovani, quelle ancora fertili e feconde al livello assiologico e razionale perché prive di un’opinione pubblica già definita e difficile da mutare, per piantare il seme e generare il cambiamento, cambiamento che sia allo stesso tempo personale e sociale, perché condiviso da ognuno.
Dal punto di vista pubblico, la partecipazione è indispensabile in quanto pilastro e garanzia di stabilità dell’ordinamento stesso. Il governo democratico è infatti l’esercizio di potere di rappresentanti a nome, per conto e a favore del popolo, e dunque necessita di essere partecipativo. La partecipazione politica è indispensabile per evitare il disamore rispetto alla sfera pubblica, comunitaria, dove le persone sono cittadini, cooperanti e facenti parte di un tutto unito che chiamiamo Società, e non individui agenti separati e in concorrenza l’uno rispetto all’altro. È solo attraverso la partecipazione che un regime democratico risulta essere propriamente tale, in quanto derivante dal ruolo attivo di tutto il demos.
Quindi da dove cominciare per stimolare la partecipazione?
La democrazia è anch’essa non imponibile dall’alto. I tentativi fatti nella storia di imporre un sistema democratico si sono rivelati fallimentari.[5] Essa, infatti, è un ordinamento che sorge in conseguenza ad una determinata cultura, e deve essere pertanto educata attraverso un processo continuo e mai terminabile. E non è mai definitiva. Si rincorre attraverso l’impegno personale e interessato di ciascuno, ognuno votato al miglioramento pubblico nell’affrontare concretamente i problemi dell’ambiente di cui fa parte. Non è data la possibilità di espedienti tecnici o giurisprudenziali risolutivi una volta per tutte. È educando sin da piccoli i cittadini all’attaccamento per la cosa pubblica che essi da grandi penseranno allo Stato non come a qualcosa di estraneo alle loro vite, ma come a un bene di cui loro stessi sono proprietari, perché detentori della sovranità (la res è pubblica proprio perché appartenente a tutti). Nei confronti dello Stato, allora, non proveranno più un senso di indifferenza qualunquista, ma saranno portati a prendersene cura, scoprendo il piacere di occuparsi e di rendere migliore qualcosa di cui sono autori e che intimamente li coinvolge.
I criteri per orientare la partecipazione
Con quali criteri orientare la propria partecipazione politica?
La Dottrina Sociale della Chiesa, abbiamo detto, definisce la partecipazione come:
Una serie di attività mediante le quali il cittadino, come singolo o in associazione con altri, direttamente o a mezzo di propri rappresentanti, contribuisce alla vita culturale, economica, sociale e politica della comunità civile cui appartiene. La partecipazione è un dovere da esercitare consapevolmente da parte di tutti, in modo responsabile e in vista del bene comune (Compendio DSC, n. 189).
Da questa definizione possiamo trarre importanti spunti. In primo luogo la partecipazione viene definita come impegno non solo esercitato all’interno della dimensione politica (come invece viene intesa dalle ideologie liberale e socialista), ma in ogni latitudine derivante dall’unione consociativa; non può essere infatti delimitata entro qualche settore ristretto della vita sociale data la sua importanza capitale per la crescita e lo sviluppo dell’uomo.
Possiamo poi considerare l’utilizzo degli aggettivi “consapevole” e “responsabile” attribuiti al termine “dovere”. Come è stato detto, l’impegno politico è un servizio compiuto per il prossimo la cui necessità è data però primariamente dall’obbligo morale di realizzare quella tensione migliorativa di sé specifica della natura umana stessa; tale impegno deve essere perciò perseguito con responsabilità, rettitudine, consapevolezza; è un percorso ascetico e ascensionale verso il perseguimento di un bene colto come giusto e perciò sentito come felice.
Infine, è importante aver chiara l’idea di bene comune, la cui posizione conclusiva all’interno della definizione suddetta è indice dell’importanza stessa del concetto. Bene comune è un termine molto ricorrente all’interno di ogni discorso politico. Il suo utilizzo inflazionato ha determinato perciò una svalutazione del sintagma, consequenziale alla perdita dei suoi contenuti concreti e all’acquisizione di un senso di vaghezza e indeterminatezza. Se questo non bastasse, l’ideologia liberale e quella socialista lo hanno strumentalizzato per designare impropriamente la loro specifica concezione di bene, che nel caso liberale corrisponde alla somma matematica dei beni individuali, mentre in quello socialista alla limitazione dello spazio di intervento personale per assicurare l’uguaglianza di tutti gli individui all’interno dello stato.
Viceversa, la concezione personalista del bene comune intende lo stesso come “l'insieme di quelle condizioni (non solo materiali ma anche spirituali, nda) della vita sociale che permettono ai gruppi, come ai singoli membri, di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più speditamente” [6]; tale perfezionamento è però inteso in ottica relazionale e comunitaria (all’interno della quale, appunto, la persona trova la sua realizzazione più piena) e, soprattutto, non in senso individuale, solipsistico e liquido (nell’accezione “baumaniana” del termine [7]), ma come perfezionamento sostenuto da un’autorità. L’auctoritas, classicamente intesa, non è concepita come un potere che opprime, limita e coarta l’auto-determinazione libera, ma come una guida che la sostiene (da augeo, appunto, accrescere, alzare), perché essa si realizzi ancora più pienamente.
C’è un’immagine metaforica che vorremmo proporre, da una parte, per suscitare l’idea di una partecipazione solidale all’interno di un tessuto sociale strutturato organicamente, e, d’altra parte, per raffigurare l’idea dell’anelito tensivo proprio dell’uomo.
Bisogna pensare all’aspetto delle cattedrali gotiche come Notre-Dame a Parigi, il Duomo a Milano o Westminster a Londra. Per i principi dell’architettura gotica, ogni singolo elemento architettonico è funzionale alla composizione complessiva, secondo un rapporto per cui l’esito finale è immensamente superiore rispetto alla semplice combinazione delle singole parti; i pinnacoli e le guglie, il rosone, i trifori, le vetrate e i contrafforti sono tutti costituenti che assolvono ciascuno ad una funzione specifica, insostituibile ed efficiente all’armonia generale della combinazione. Le cattedrali, inoltre, presentano una forma decisamente slanciata, con uno sviluppo in altezza notevole, supportato da un corpo strutturale piuttosto leggero; per ottenere tale effetto i muri vengono ridotti all’essenziale e forati per creare grandi finestre con vetrate policrome. Il risultato conclusivo, conseguito attraverso gli espedienti della verticalità e della luce, è quello di suscitare un senso di energia dinamica ascensionale. In sintesi, le cattedrali gotiche sono un prodotto architettonico tutto finalizzato ad esprimere il senso di spiritualità, di tensione ascetica umana orientata verso una meta alta e irraggiungibile, ma non per questo meno perfetta e infinitamente desiderabile.
Così, le cattedrali gotiche rappresentano efficacemente l’immagine cui configurare e, allo stesso tempo, lo spirito con cui orientare la propria partecipazione politica: un percorso di crescita etica e spirituale. Una scelta consapevole, all’interno del paradigma classico dell’homo homini lupus atque deus, attraverso la quale l’uomo decide di abbandonare il suo stato di animalità per compiere invece la sua natura perfetta e divina, nel sacrificio di sé per il prossimo.
NOTE
[1] Si veda Wike R., Simmons K., Stokes B., Fetterolf J.., Globally, Broad Support for Representative and Direct Democracy, Pew Research Center, October 2017, p. 25.
[2] Sani G., in Enciclopedia delle scienze sociali, Treccani, 1996.
[3] Si veda il discorso di Pericle in Tucidide, Le guerre del Peloponneso, Libro II, Cap. 34–46.
[4] Cfr. Si vedano, ad esempio, i riferimenti all’insegnamento di san Tommaso D’Aquino nel personalismo politico di Jacques Maritain. Ciò non esclude il fatto che la Santa Sede abbia risolto ufficialmente “il problema democratico” per la prima volta solo con il Radiomessaggio di Pio XII del 24 dicembre 1944.
[5] Cfr. Huntigton S., La terza ondata. I processi di democratizzazione alla fine del XX secolo, Il Mulino, 1998.
[6] Costituzione Pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et Spes, n. 26.
[7] Cfr. Bauman Z., Modernità liquida, Laterza, 2011.