La liturgia:

vangelo celebrato

Goffredo Boselli

Un caro saluto a tutte a tutti, in primo luogo al vescovo Corrado che ringrazio per l’invito che mi ha rivolto. Da diversi anni, ormai, faccio conferenze ed interventi nelle diocesi italiane sul tema della liturgia, ma vi devo confessare che questa sera sono particolarmente contento di offrirvi il mio modesto contributo nel cammino di riflessione e confronto che come diocesi state facendo sulla celebrazione eucaristica alla luce dell’esportazione Evangelii gaudium di papa Francesco.
Il vostro vescovo mi ha inviato il materiale con il quale state lavorando e ho apprezzato la qualità e la serietà del vostro lavoro. Ho letto con attenzione e interesse questo materiale e spero di riuscire a entrare in sintonia con il senso ecclesiale, con l’intenzione pastorale e più a fondo con il sentire di fede che vi sta guidando in questo cammino.
Riflettere come diocesi sulla celebrazione eucaristica attraverso le chiavi di lettura di Evangelii gaudium significa comprendere che il futuro del cristianesimo dipenderà molto anche da ciò che noi faremo delle nostre assemblee eucaristiche domenicali. La celebrazione eucaristica è il centro vitale della Chiesa e della vita cristiana, per questo l’assemblea liturgica è il volto di una comunità cristiana, e a noi spetta decidere che volto vogliamo darle.
Il mio intento non sarà quello semplicemente di ripresentare o commentare il contenuto del vostro materiale di lavoro, quanto piuttosto cercare di interpretarlo. A partire da questa prospettiva di fondo, porrò alla vostra attenzione e al vostro giudizio la comprensione della liturgia come celebrazione del Vangelo di Gesù Cristo, appunto come “Vangelo celebrato”. E cercherò di farlo indicandovi quelle che sono, a mio parere, le tre necessità principali che riguardano la celebrazione eucaristica oggi, più esattamente il compiuto che l’assemblea eucaristica domenicale sarà chiamata ad avere nel cristianesimo che ci attende nei prossimi decenni. Perché la liturgia sia effettivamente la celebrazione del Vangelo, cercherò di individuare quali sono i bisogni e le attese che non solo i credenti abituali come quelli saltuari hanno nei confronti dell’assemblea eucaristica, ma anche il ruolo che l’eucaristia domenicale sarà chiamata ad avere nei confronti dei quegli uomini e di quelle donne che hanno un cammino di ricerca spirituale, di vita interiore, di ricerca di senso e che possono trovare nella comunità eucaristica un luogo spirituale anche per loro, un tempo di preghiera anche per loro.

La prima necessità: Far vivere l’assemblea eucaristica domenicale come luogo di incontro con l’umanità di Gesù Cristo

La prima necessità mi trova pienamente in sintonia con il primo dei sei punti da voi avvertiti come appelli prioritari per un’autentica fedeltà al volto della Chiesa delineato da papa Francesco: L’incontro con Gesù. Sì, la prima necessità è che l’assemblea eucaristica domenicale sia luogo di incontro con Gesù Cristo, ma in modo del tutto particolare con l’umanità di Gesù Cristo. La liturgia è Vangelo celebrato solo quando essa è incontro reale con Gesù Cristo, perché il Vangelo è Gesù Cristo e Gesù Cristo è il Vangelo.
Noi credenti dobbiamo sempre ricordarci che prima della liturgia cristiana c’è stata la vita di Cristo, e se questa vita non fosse stata vissuta la nostra liturgia sarebbe priva del suo centro vitale, del suo cuore, della sua anima. La nuda e semplice liturgia della prima generazione di cristiani non ha avuto altra fonte che non fosse la vita di Gesù di Nazaret. Solo dopo la Pasqua, quando Gesù non era più fisicamente tra loro, i suoi discepoli hanno cominciato a celebrare lui, Gesù, confessandolo come il loro Signore vivente, celebrando la sua vita (e non un’astratta idea di Dio), facendo memoria delle sue parole e dei suoi gesti alla luce dei testi delle sante Scritture d’Israele. Così, celebrando l’umanità di Cristo la liturgia dei cristiani ne ha assunto i tratti, le caratteristiche, gli elementi distintivi, appunto la sua grammatica umana. Le sue parole sono diventate il nostro Vangelo, i suoi gesti sono diventati i nostri sacramenti.
Ma i gesti di Gesù non sono stati gesti rituali o sacrali e tanto meno sacerdotali, non essendo lui sacerdote, ma i gesti che un Rabbi d’Israele come lui compiva nel corso della sua vita. Al tempo stesso, le parole di Gesù non erano espressioni rituali o formule dottrinali, ma insegnamenti di un maestro ai suoi discepoli e soprattutto parole rivolte a persone concrete in situazioni precise. Non è possibile una grammatica della liturgia se non alla luce della grammatica della vita umana vissuta da Gesù di Nazaret. Tutta la nostra liturgia deve essere un’incontro con l’umanità di Gesù Cristo. Le nostre liturgie sono chiamate ad essere esperienza di incontro con l’umanità salvifica di Cristo. In questo modo riconosciamo che Gesù è vivo perché la sua umanità mi raggiunge, la sua parola è eloquente per me, i suoi gesti mi toccano ancora oggi, la sua compassione.
Solo l’umanità di Gesù Cristo che i vangeli ci narrano può rendere più umana, la nostra liturgia, e dunque meno formale, ritualistica, ripetitiva, a volte perfino monotona e superficiale. Incamminare le nostre comunità cristiane, le nostre parrocchie, verso la ricerca di una sempre maggiore umanità della loro liturgia significa far si che i credenti assidui come quelli occasionali, attraverso l’umanità della parola e del gesto liturgico, l’umanità dell’ambiente e dello stile liturgico, entrino in contatto e facciano esperienza dell’umanità di Dio rivelata nell’umanità di Gesù Cristo. Dobbiamo essere abitati dalla certezza che quell’umanità di Gesù diventata narrazione evangelica può anche diventare ritualità liturgica. I sacramenti della Chiesa sono infatti rivelazione dell’umanità di Dio e narrazione dell’umanità di Cristo.
La vita liturgica della comunità sarà davvero via di umanizzazione nella misura in cui la liturgia sarà celebrata e vissuta come ricettacolo dalla vita Jesu, dell’humanitas Christi. Gesù Cristo ha rivelato Dio attraverso la sua umanissima vita: comunicava con un linguaggio comprensibile da tutti, dai dotti farisei alla gente più semplice e incolta, con parole chiare che non avevano bisogno di ulteriori spiegazione e per questo riconosciute autorevoli. Faceva gesti molto semplici e quotidiani e li rendeva eloquenti, capaci di dire la sua compassione, la prossimità all’umano in tutte le sue condizioni. Gesti capaci di rispondere alle attese e alle domande della gente che andava a lui e, al tempo stesso, capaci di esprime il suo desidero profondo nei loro confronti. Gesti umanissimi attraverso i quali ha rivelato l’amore di Dio e la venuta del suo Regno. Cos’altro è la liturgia cristiana se non la parola e il gesto di Cristo nella parola nel gesto del suo corpo che è la Chiesa? Il Cardinal Martini, in un uno dei suoi rari interventi sulla liturgia, ha affermato:

“Se nei vangeli si parla poco o nulla di liturgia, ciò avviene perché essi sono di fatto una liturgia vissuta con Gesù in mezzo ai suoi … E’ questa la liturgia dei vangeli: essere attorno a Gesù nella sua vita e nella sua morte … La liturgia è stare oggi intorno alla persona del Signore, ascoltarlo, parlargli, pregarlo, lasciarlo pregare per noi. Tutto ciò che i vangeli riferiscono di Gesù tra la gente è un’anticipazione della liturgia e, a sua volta, la liturgia è una continuazione dei vangeli”. [1]

Parlare di liturgia umana significa questo: la liturgia come continuazione dei Vangeli, come Vangelo in atto, come Vangelo che avviene. La liturgia della Chiesa sempre più simile all’umanissima liturgia dei Vangeli, in una sempre maggiore trasparenza cristologica. Una liturgia capace di essere sacramento dell’umanità di Cristo, capace di accogliere e trasfigurare tutta l’umanità di chi la celebra. Così l’umanità della liturgia sarà, nell’oggi della Chiesa, l’espressione più eloquente del mistero dell’incarnazione del Verbo. La liturgia è umana quando è fedele all’umanità di Gesù Cristo: solo così sarà fedele all’uomo e alla donna di oggi. E quanto più sarà evangelicamente umana, tanto più sarà autenticamente cristiana.
Papa Francesco sta cercando di riportare la Chiesa al sua centro che è il Vangelo e portarla ad annunciare all’umanità la gioia del Vangelo. Per questo noi tutti credenti, noi pastori, noi che abbiamo responsabilità nella pastorale ordinaria delle nostre chiese dobbiamo essere abitati dalla convinzione del ruolo decisivo e non accessorio della liturgia nell’evangelizzazione. Questo nasce dalla consapevolezza che non ci può essere vangelo annunciato e creduto senza che ci sia al contempo il vangelo celebrato. La liturgia è vangelo celebrato nell’oggi della Chiesa, e da qui deve nascere un preciso modo di concepire la liturgia e anche di realizzarla concretamente. La liturgia è nient’altro che vangelo in atto, e questo significa che ciò che avviene all’interno della liturgia deve essere interamente giustificato nel vangelo. Nel cristianesimo ciò che non è evangelico non può essere neppure liturgico! Per questo, la liturgia è vangelo per i nostri sensi. Parole, gesti, posture, comportamenti, atteggiamenti interiori ed esteriori, abiti ed espressioni artistiche devono avere un fondamento evangelico, uno spessore, una qualità evangelica. Il che significa che devono essere attraversati e segnati da un principio evangelico. La liturgia per dirsi cristiana, infatti, deve essere conforme al vangelo, deve avere la forma del vangelo, anzi si direbbe perfino le forme del vangelo di Cristo. Perché il vangelo non è solo parola, messaggio, contenuto, ma è anche forma, c’è infatti una forma Evangelii. La bellezza della liturgia è anzitutto il suo essere evangelica, da questo tutto il resto discende.

Seconda necessità. L’assemblea eucaristica domenicale come spazio di santità ospitale

Ecco quella che è, a mio parere, la seconda necessità, quella di vivere e far vivere la liturgia come spazio di santità ospitale. In breve, il bisogno oggi che le nostre liturgie siano più ospitali, sia un luogo inclusivo e non che esclude. Un luogo di riconoscimento reciproco, di comunione, di 6 misericordia. Uno spazio aperto capace di accogliere i tanti cammini spirituali, di riconoscere il valore dei diversi itinerari personali di ricerca che l’uomo e le donna di oggi vivono, di accoglienza delle situazioni esistenziali oggi così diverse, complesse, spesso difficili da vivere.
I vangeli ci raccontano che l’ospitalità è un’attitudine dell’essere di Gesù di Nazaret, una sua postura, il suo modo di stare al mondo e di entrare in relazione. La sua è una “santità ospitale”, come l’ha definita il teologo Christoph Theobald, [2] che si sottrae per creare attorno a sé uno spazio di libertà, di riconoscimento, comunicando, con la sua semplice presenza, una prossimità benevola nei confronti di coloro che lo incontrano. E’ dunque sempre più urgente che le nostre liturgie siano capaci di ricreare quel tipo di relazione che Gesù di Nazaret sapeva creare con le persone che incontrava. L’intera esistenza di Gesù è stata una liturgia ospitale, e anche le nostre liturgie sono chiamate a esserlo oggi più che mai. Per questo, negli anni che ci stanno davanti la santità della liturgia sarà chiamata a declinarsi come santità ospitale; non una santità di distanza ma di prossimità. Una liturgia ospitale non è una moda o uno stratagemma pastorale ma è la postura stessa di Cristo che anche Risorto si fa cammino, presenza, prossimità benevola, ascolto, parola, pane spezzato.
Per questo, se le nostre liturgie, e in particolar modo le eucaristie domenicali, vorranno essere luoghi di misericordia, non potranno ignorare le profonde trasformazioni sociali, culturali e antropologiche in corso, i cui esiti sono difficilmente prevedibili. La liturgia, così come la nostra pastorale sacramentale, non può non lasciarsi interrogare da quel fenomeno che sempre più osservatori definiscono “disturbo nella definizione dell’umano”. L’umano non è il destinatario passivo delle nostre liturgie ma è la materia stessa di cui sono fatte. Ignorare queste trasformazioni significherebbe non sapere più di quale umanità sono formate le nostre assemblee liturgiche. Questa è una liturgia in uscita, per quella “Chiesa in uscita” di cui spesso parla papa Francesco.

Dobbiamo sempre più convincerci che la Chiesa che celebra la liturgia è la stessa che va verso le periferie esistenziali, per la semplice ragione che oggi, per un numero sempre più grande di persone, la liturgia è soglia al mistero di Dio. Negheremmo l’evidenza dei fatti se non ammettessimo che la pastorale dei sacramenti è oggi chiaramente una pastorale missionaria. La domanda del battesimo per i figli e le tappe della loro iniziazione, la richiesta del matrimonio cristiano, l’esperienza del male e della colpa, le dolorose prove della malattia e della morte, anche queste sono le periferie esistenziali verso le quali la Chiesa è impegnata a uscire. Uscire, leggiamo in Evangelii gaudium, significa non stare in attesa ma prendere l’iniziativa, coinvolgersi, accompagnando l’umanità. Chi ha esperienza dell’umano sa che bene che nell’ordinaria pastorale dei sacramenti la Chiesa è condotta agli incroci delle strade, la dove si incontra l’umanità reale. Sì, la pastorale dei sacramenti è l’odierna Galilea delle genti.
Per questo, le nostre liturgie non potranno non confrontarsi con la progressiva mutazione e frammentazione dei modi di credere che l’avanzare della secolarizzazione produce, specie tra i giovani e in particolare le giovani donne. Dobbiamo costatare che le nostre liturgie sono impostate su un modo di credere che, con il tempo, sarà sempre più diverso rispetto a quello che abbiamo conosciuto fino ad oggi.
Nel preciso contesto antropologico, culturale e sociale nel quale viviamo, noi tutti dobbiamo arrivare a comprendere che le nostre comunità eucaristiche domenicali, e più in generale le celebrazioni dei sacramenti, sono oggi chiamate ad ospitare un modo di vivere la fede, anche tra i credenti più assidui, che non è più, come un tempo, la somma di certezze incrollabili ma è l’espressione di un desiderio di qualcosa e di qualcuno in cui poter sperare, così che credere significa aggrapparsi a una speranza. Oggi la fede è, infatti, perlopiù esperimentata come l’apertura a una speranza, così che lo sperare di credere è già un credere alla maniera nascente. La liturgia è realtà evangelizzante quando è in grado di interpretare la situazione di quelle persone che credono solo perché sperano di credere. La liturgia è realtà evangelizzante quando è capace di raggiungere il credente nella sua fatica di camminare nella fede. Occorre, appunto per questo, essere consapevoli che, il più delle volte, la presenza all’eucaristia domenicale rappresenta quel sottile filo che tiene il credente e la comunità cristiana ancora uniti e comunicanti, talvolta in modo precario. Per questo, oggi è necessaria una liturgia che non si limiti a celebrare verità e proclamare certezze ma sappia anche prendere in contro chi vive l’inquietudine del credere fino a conoscere anche il dubbio e l’oscurità. Una liturgia che va loro incontro fino a portare la fatica di chi fatica a credere. Questa è l’umanità della liturgia che rende umani coloro che la celebrano!
Per questo, occorre fare attenzione a liturgie troppo festanti al limite del superficiale, eccessive nei toni e negli accenti, quasi che si debba sempre e a ogni costo far festa. Domandiamoci: si è altrettanto capaci di offrire ai credenti liturgie capaci di suscitare la speranza, di nutrirla. Liturgie capaci di dare ragioni per sperare a cuori stanchi e affaticati, capaci di risollevare quanti, come i discepoli di Emmaus, si fermano “con il volto triste”. Lo sappiamo, la fatica a credere ad avere fiducia negli altri, nella vita, nel futuro, è uno dei tratti che caratterizzano l’uomo e la donna occidentali dei nostri giorni e questo non può non segnare anche la fede del credente contemporaneo. È oltremodo necessario domandarsi se le nostre assemblee eucaristiche domenicali non suppongano come destinatari unicamente uomini e donne dalla fede salda, per le quali tutto è evidente, certo, definito. Oggi la liturgia deve saper essere realtà evangelizzante per una generazione di credenti con poca capacità di fede, che non è l’apistía (mancanza di fede) e neppure la oligopistía (la poca fede) ma la asthéneia tes písteos, la debolezza nella fede (cf. Rm 4,19; 14,1). Solo una liturgia che sa accogliere la fragilità della fede sarà una liturgia evangelizzante perché saprà, come Gesù ascoltare, e interpretare l’appello che il padre del ragazzo epilettico gli rivolse: “Credo; aiutami nella mia incredulità” (Mc 9,24).
Di fronte a tutto questo, le nostre liturgie e in particolare le nostre eucaristie domenicali, per essere cammini di misericordia e di speranza, saranno chiamate a diventare sempre più spazi di santità ospitale. E 9 l’ospitalità è accoglienza, ristoro, riposo, sosta, riconoscimento. Liturgie dove le persone possano trovare conforto, consolazione e sollievo. La liturgia che ci attende, sarà la figura del Cristo che proclama: “Venite a me voi tutti affaticati e oppressi e io vi darò riposo” (Mt 11,28). Misericordia non solo per i peccati intesi come singoli atti, ma misericordia nei confronti delle condizioni di vita, delle situazione esistenziali segnate spesso da fragilità, debolezza, fatica. Misericordia di fronte a risposte sbagliate date a giuste domande di senso, di fronte a evidenti fallimenti esiti di un autentico desiderio di felicità.
Dunque, una liturgia che sia credibile agli occhi di cristiani e di cristiane sempre più secolarizzati, cioè sempre più disincantanti che cercano di essere credenti e non creduli, non semplici praticanti di una religione ma discepoli del Vangelo. Una liturgia credibile è quella guidata e animata da persone credibili, la cui autorevolezza, nella cultura contemporanea, non è più data dalla funzione o dall’ufficio ma dalla coerenza tra ciò che dicono e ciò che sono. Sarà spazio di misericordia una liturgia dove le parole sono portatrici di senso e non formule recitate e dove i segni sono testimoni di una rivelazione. Tutti i segni liturgici, infatti – siano essi riti, gesti ma anche gli abiti, canti, musiche e opere d’arte – sono i segni di una verità consegnata alla fede dei credenti. 2.

Terza necessità. L’assemblea eucaristica domenicale come luogo di missione

Nel formulare questa terza necessità sono stato molto spronato e da quanto ho letto nelle vostre linee di riflessione, nelle quali emerge con insistenza la volontà di una celebrazione rinnovata missionariamente. L’eucaristia domenicale della comunità cristiana è il grembo e al tempo steso il cuore della missione della Chiesa. La missione non è anzitutto un fare della Chiesa, ma un suo modo di essere, di vivere nell’oggi, in mezzo agli uomini e alle donne di oggi. La Chiesa è missionaria anche quando 10 celebra il suo Signore, lo loda, lo benedice. La Chiesa è in missione anche quando è riunita in ascolto della parola di Dio è in preghiera.
Per giungere al rinnovamento missionario delle nostre celebrazioni liturgiche è per noi oggi necessario fermarsi a riflettere sul il rapporto tra liturgia e ricerca spirituale contemporanea. A mettere a fuoco le trasformazioni del credere oggi, che non possono non condizionare anche il nostro modo di celebrare. È ormai un’evidenza rilevare, infatti, che il credere in Dio non è scomparso ma sono mutate le forme del credere, conseguenza del fatto che il rapporto con la religione non è venuto meno ma ha cambiato forma. Questo è uno dei principali punti fermi che, al di là di posizioni e accenti diversi, i sociologi della religione da tempo ormai ci consegnano in modo sostanzialmente convergente. In altre parole, l’evidenza è che la secolarizzazione ormai da anni ha segnato anche in Italia la fine del cattolicesimo per inerzia, anche nel vostro amato Veneto. La “terra di mezzo del credere” è l’immagine, particolarmente efficace, formulata dal sociologo Alessandro Castegnaro per descrivere il mutamento in corso delle forme del credere. [3]

C’è uno vasto spazio, probabilmente maggioritario secondo Castegnaro, in cui prendono vita stadi e forme del credere quanto mai diseguali e frastagliate tra loro. La maggior parte delle persone sembra abitare questo territorio intermedio segnato, da una parte, da chi si riconosce convintamente credente e, dalla parte opposta, da chi si dichiara non credente. L’esistenza di questa estesa “terra di mezzo del credere” invita a riconsiderare a fondo le categorie tradizionali e fondamentali di “credente” e “non credente”, immediatamente riconducibili a “praticante” o “ateo”.
Credere, lo abbiamo già visto, non è più associato e direttamente associabile all’idea di certezza come fino ad ora si pensava. Credere oggi significa piuttosto credere di credere, cioè non avere certezze o averne poche. Significa non essere sicuri di poter credere ma neppure di non poter credere. È una situazione di stallo più che di incredulità. Credere è sempre stato associato a un’idea di pienezza o di vuoto, di sì o di no. Questo modo consueto di intendere la fede non corrisponde all’esperienza spirituale di un numero oggi tendenzialmente crescente di persone anche in Italia, i giovani soprattutto ma non solo, anche gli adulti nati negli anni Settanta.
Dunque, quello maggioritario non è il territorio dell’indifferenza o del disinteresse nei confronti del credere, oppure della poca fede, quanto piuttosto di chi vorrebbe credere, di chi si trova all’interno di una dinamica, di chi vive un processo e per questo ha bisogno di tempo. Chi permane in questo territorio mediano non è disponibile a dire con certezza “io non credo”, perché percepisce un movimento oscillatorio interiore ed esperimenta il paradosso di credere e non crede contemporaneamente. Quello che oggi può scioccare è il dover prendere atto che il cristianesimo che ci attende dovrà essere in grado di accettare persone giunte all’età adulta che, sebbene battezzate, non avranno definito appieno la loro identità religiosa.
La “terra di mezzo del credere” è la terra di chi non sente nessuna pregiudiziale avversa al credere ma, al contrario, percepisce una sincera attrazione alla dimensione spirituale della vita e tuttavia non la identifica pienamente nelle espressione tradizionali della religione, vale a dire le sue istituzioni, le dottrine, i precetti e anche riti.
Di fronte a questo vero e proprio passaggio epocale, la domanda da porsi non è tanto cosa rappresenti la liturgia per i numerosi abitanti della “terra di mezzo del credere”, quanto piuttosto come la liturgia può rispondere alla sfida che oggi si pone alla Chiesa e al cristianesimo contemporaneo occidentale. Quali potranno e dovranno essere i criteri e le modalità attraverso le quali la liturgia può rispondere alle sfaccettate forme del credere oggi e negli anni futuri, alla loro condizione spirituale, alle loro attese interiori, alle domande di senso, ai bisogni umani e spirituali?
Per tentare, non senza insicurezza e fatica, una risposta a queste domande, mi limito a un semplice abbozzo di quattro possibili metafore con le quali provo ad esprime ciò che, a mio avviso, la liturgia sarà chiamata ad essere negli anni che ci stanno davanti.

Prima metafora: la liturgia approdo

In un tempo nel quale, come molti hanno già rilevato, la “ricerca” diviene la forma fondamentale della vita spirituale, tra coloro che abitano la “terra di mezzo del credere” vi è il credente viandante, ricercatore, nomade. [4] È il credente disincantato per il quale i sistemi di credenza espressi nelle forme tradizionali non sono convincenti e pienamente credibili. Il credente viandante vive una tensione interiore: da un lato sente di dover esperimentare nuovi percorsi, personalizzando valori e pratiche, in qualche modo rifondandole sulla base delle proprie conoscenze e delle esperienze fatte. Il suo mondo spirituale è il suo unico tempio, la sua esperienza interiore la sua unica liturgia. Tuttavia, nello stesso tempo, si trova abitato dal desiderio di trovare riposo in una credenza finalmente certa e stabile o in una esperienza religiosa alla quale aderire in modo definitivo.
La liturgia approdo è quella che si comprende e si offre come un porto al quale il credente viandante può talvolta attraccare nei suoi percorsi di esplorazione, con i ritmi e tempi che lui solo stabilisce: necessità interiori, passaggi importanti e momenti significativi della vita, feste religiose maggiori. L’attracco episodico e sporadico non è immediatamente riconducibile al cattolicesimo di socializzazione o di tradizione, ma risponde a una sorta di nostalgia dell’origine da cui il cammino ha avuto inizio. È nostalgia della casa dalla quale si è usciti ma senza averla mai del tutto abbandonata. La liturgia approdo risponde al bisogno e al desiderio di una ritualità conosciuta fatta di luoghi, simboli, gesti, canti, formule e preghiere interiorizzate e condivise con altri. Una liturgia conosciuta alla quale poter tornare come ad un approdo sicuro del quale si è certi dell’esistenza, sul quale si sa di poter contare e che può assolvere alla funzione di rifugio e riparo dalla fatica del cercare e di temporanea sosta nel tanto pellegrinare, pronti poi, mollati gli ormeggi, a riprendere la traversata.

Il nomade non chiede nulla di particolare alla liturgia se non di esserci, di accoglierlo, ospitarlo, riconoscerlo. Per questo è necessario che la liturgia della Chiesa con il suo stile e i suoi messaggi verbali e non verbali non crei barriere ed ostacoli. Nel suo modo di essere celebrata non respinga e non allontani nessuno. Per questo è decisivo l’ambiente, il clima che è immediatamente percepito, prima di ogni parola. Una liturgia diventa approdo se rinuncia ad essere solo per eletti, puri o anche solo per gli habitués, ma è capace di ospitare ogni forma di ricerca di Dio, è capace di empatia con il cercatore di Dio. Questa è una liturgia missionaria. Un celebrare da missionari.
La liturgia approdo è simile all’esperienza vissuta da quelle tante figure evangeliche che vengono a Gesù in modo quasi sempre anonimo e spesso furtivo, per chiedergli anche solo un segno, una parola, un gesto di guarigione, alle quali Gesù dichiara: “Coraggio, figlia, la tua fede ti ha salvata” (Mt 9,22). Persone di cui non si conosce neppure il nome, che sono venute a Gesù, hanno trovato in lui quello che cercavano e poi se sono andate e di loro nei racconti evangelici non c’è più traccia. A questi Gesù non ha chiesto nulla, ma in loro ha semplicemente trovato e riconosciuto la fede. Non ha verificato la frequenza e misurato l’appartenenza ma ha saputo interpretare il loro bisogno, rispondere al loro desiderio che è sempre desiderio di vita, di salute, di riconoscimento.
Questa è la liturgia approdo per il credente viandante.

Seconda metafora: la liturgia pozzo

La liturgia pozzo si rende disponibile a quelle persone che, differenza dei viandanti in ricerca, vivono la difficile condizione di abitare sul crinale tra la sincera ricerca spirituale e l’avvertire ancora in sé resistenze nel credere interamente. Sono persone nelle quali è in atto un sorgivo e autentico cammino di conversione compiuto nelle forme e nei modi che solo loro conoscono. La liturgia, come un pozzo, ha qui la funzione di essere luogo al quale potersi recare per ascoltare l’annuncio della fede e, quando avviene, attingere ragioni per credere. Il pozzo attrae, mobilita a sé per quello che offre di vitale e che non si trova altrove. Restano insuperate le prime parole con le quali Jean Corbon inizia il suo capolavoro Liturgia alla sorgente: “L’uomo ha sete e cerca la sua acqua là dove pensa di trovarla. Nel corso del suo vagare senza meta né possibilità di evasione, scava un pozzo ogni volta che pianta la sua tenda. È meraviglioso che la storia della salvezza cominci sempre da lì”. [5]
La liturgia pozzo è vissuta come riserva di senso, luogo dell’incontro con la parola di Dio, con la predicazione del Vangelo, con coloro che si confessano credenti. La frequenza e la durata di queste soste sono scelte dalla persona sulla base del proprio bisogno interiore. La liturgia pozzo può essere identificata nelle liturgie ordinarie delle comunità parrocchiali, ma molto di più in quelle dei monasteri o delle comunità religiose dove la liturgia è all’interno di un contesto di vita comune, di spiritualità, e la persona che vi si reca si unisce a una comunità che prega e celebra e che accoglie chi lo domanda.
La liturgia pozzo è riflesso di un cristianesimo capace di attrazione (come ricorda spesso papa Francesco riprendendo una immagine di Benedetto XVI), capace di vincere le resistenze e le riserve maggiori.
La liturgia pozzo è quella che ispira a credere, è esperienza del già e non ancora della fede, più esattamente di una fede in itinere, che avanza perché guidata da nient’altro che da un desiderio.
Si rende sempre più necessaria una liturgia che sia eloquente per gli uomini e la donne di oggi, più credibile per essere all’altezza della sfida che oggi gli si impone. Per questo, nei decenni che stanno davanti, se la liturgia vorrà sopravvivere a sé stessa dovrà cercare e trovare un linguaggio diverso: le parole della liturgia devono poter diventare parole di salvezza, parole che umanizzano e che qui e oggi fanno bene alla vita. Sì a parole di salvezza ma a condizione che sia una salvezza incarnata non astratta, che ha a che fare con l’esistenza concreta delle persone. Attenzione a una liturgia che non solo non aiuta a credere e a vivre, ma per il suo stile e la sua grammatica a volte rappresenta un ostacolo a credere perché percepita come vecchia, stanca, abitudinaria, muta, paludata. Come alla fede così alla liturgia oggi si chiede una cosa sola: che aiuti a dare senso alla vita, che sostenga le prove e le fatiche del vivere, che aiuti a stare bene con sé stessi, gli altri e Dio. Una celebrazione rinnovata missionariamente è una celebrazione che aiuta a vivere, a dare senso alla vita.
La liturgia pozzo è quella che, come Gesù alla Samaritana al pozzo di Sicar, dona acqua che genera la fede. Ricordiamo che nel quarto vangelo il pozzo è il luogo dove Gesù compie la più alta rivelazione del nuovo culto “in spirito e verità” da lui iniziato perché da lui vissuto.

Terza metafora: la liturgia soglia

La liturgia soglia rappresenta il sottile confine tra i territori: dalla “terra di mezzo del credere” consente di accedere gradualmente all’esperienza di Dio aprendo all’adesione convinta alla fede e all’appartenenza comunitaria. È il momento più delicato e complesso nel quale la liturgia adempie il suo compito di levatrice, rivela la sua capacità maieutica. È la fase nella quale la ritualità liturgica, grazie soltanto alla parola di Dio che annuncia con gesti e parole, diventa generativa a patto che essa sappia sollecitare l’interesse di chi vi prende parte, la cui domanda di esperienza è tanto sincera quanto esigente. La liturgia come soglia riconosce che questo passaggio ha bisogno di tempo, non avviene dall’oggi al domani, e soprattutto che vi sono persone per le quali lo stare sulla soglia può essere la condizione permanente della propria esperienza di credente. Credere sulla soglia è una condizione che perlopiù non si sceglie ma si riconosce e si accetta come propria.
Questo comporterà, da parte della Chiesa, una più grande capacità di penetrazione del mistero del corpo di Cristo e dell’azione dello Spirito santo che anche nel futuro sarà Spirito di comunione. Per questo, la liturgia come soglia è quella liturgia che sa tenere insieme e al tempo stesso articolare l’unica appartenenza spirituale a Gesù Cristo in forme molteplici di appartenenza alla comunità dei credenti.
Due sono le figure che i vangeli tratteggiano del credente della soglia: Nicodemo e Giuseppe d’Arimatea. Nicodemo, capo dei giudei, va di notte da Gesù per interrogarlo e ascoltarlo riconoscendo che Dio è con lui, ma tuttavia non prenderà mai la decisione di seguirlo come discepolo. Giuseppe da Arimatea, invece, è un membro autorevole del Sinedrio, “discepolo di Gesù, ma di nascosto, per timore dei Giudei” (Gv 19,38). Entrambi questi uomini vivono la non facile condizione di credere nel Rabbi di Nazaret ma nel nascondimento, nella discrezione; Giuseppe vive la doppia appartenenza al Sinedrio e, al tempo stesso, al gruppo dei discepoli di Gesù.

Quarta metafora: la liturgia casa

Da ultimo, la liturgia casa è la liturgia di chi si riconosce a si dichiara agli altri come credente, di chi sente di appartenere stabilmente a una comunità cristiana. La liturgia casa è la liturgia dei dimoranti, dei discepoli che si riunisco regolarmente e alcuni assiduamente attorno al loro Signore per ascoltare la sua parola e spezzare il pane. Tutto quanto è stato detto nelle metafore precedenti di ciò che si impone oggi circa l’eloquenza, la comprensibilità e l’autenticità della liturgia vale, a maggior ragione, anche per questa ultima immagine. I credenti “discepoli” vivono anch’essi immersi nell’età secolare, sono credenti disincantanti che, in forme e modalità diverse, esperimentano le stesse dinamiche del credere oggi, con i bisogni e le esigenze che ne conseguono. Più che una realtà già data e realizzata una volta per tutte, la liturgia casa è un compito che ancora ci attende.
Mi limito a evocare quella che a mio parere è la problematica più decisiva che la liturgia dovrà affrontare per poter sapientemente interagire alle profonde trasformazioni delle forme del credere già da tempo in atto, ma che nei prossimi anni emergeranno con particolare evidenza. La liturgia è infatti intrinseca alla vita di fede e ne è sua espressione fondamentale. Si è soliti ribadire, e a giusto titolo, uno dei principi cardini della riforma liturgica conciliare, quello della “partecipazione attiva” dei fedeli alle liturgie. Un principio che rappresenta, senza ombra di dubbio, un’acquisizione irrinunciabile e un punto di non ritorno. Accanto all’esigenza di una maggiore partecipazione attiva occorre domandarsi quanto la liturgia del Vaticano II crei effettivamente le condizioni necessarie per la partecipazione attiva dei fedeli. Se si offre un cibo e si invita a mangiarlo, occorre quanto mento esser certi che questo cibo sia effettivamente commestibile. Fuor di metafora, appare da più parti sempre più necessario interrogarsi se il linguaggio dei testi liturgici e le modalità di formulare la fede che essi veicolano sono effettivamente in grado di coinvolgere i fedeli rendendoli partecipi. Si partecipa attivamente solo a condizione di esserne fatti partecipi. Se l’esperienza di preghiera che la liturgia propone riesce a interagire con le modalità attraverso le quali i credenti di oggi muovono la loro ricerca spirituale e vivono la loro relazione con Dio. Oggi la “partecipazione attiva” interroga anzitutto le forme e i linguaggi della liturgia prima e molto più di quanto interroghi coloro che vi partecipano.
Di fronte al profondo cambiamento in corso nel credere oggi, in Italia c’è urgente bisogno di maggiore ricerca in campo liturgico; non solo convegni e commissioni ma anche e soprattutto laboratori di liturgia, cioè realtà, comunità, luoghi nei quali si esperimenta, si elabora, si ricerca iniziando in primo luogo da nuovi testi per la liturgia e una altra gestualità rituale. Anche laboratori realizzati dai giovani nei quali essi possano essere direttamente coinvolti nella ricerca di nuove forme espressive, di nuovi linguaggi, di altri modi di dire la fede cristiana oggi.

Ecco, in conclusione, la riflessione che questa sera ho cercato di sottoporre alla vostra attenzione, al vostro discernimento spirituale e pastorale, sollecitato e ispirato dal vostro commino. Una liturgia fedele al Vangelo e al tempo stesso fedele all’uomo e alla donna di oggi, consapevoli che, come disse il cardinale Giovanni Battista Montini intervenendo in Concilio il 22 ottobre 1962 nella discussione sulla liturgia: “Liturgia nempe pro hominibus est instituita, non homines pro liturgia”6 . La liturgia è per gli uomini, non gli uomini per la liturgia!

 

NOTE

1 C.M. Martini, “La liturgia mistica del prete. Omelia nella Messa crismale”, Rivista della Diocesi di Milano 89/4 (1998), pp. 641-648, p. 642.
2 Ch. Theobald, Il Cristianesimo come stile, Un modo di fare teologia nella postmodernità, II Voll., Edizioni Dehoniane, Bologna 2009.
3 Cf. A. Castegnaro, Fuori dal recinto. Giovani, fede e Chiesa: uno sguardo diverso, Ancora, Milano 2013; C’è campo? Giovani, spiritualità, religione, a cura di A. Castegnaro, Marcianum, Venezia 2010.
4 Su questa figura di credente si veda l’ormai classico saggio pubblicato in Francia nel 1999 dalla sociologa della religione Danièle Hervieu Léger, Il pellegrino e il convertito. La religione in movimento, Il Mulino, Bologna 2003.
5 J. Corbon, Liturgia alla sorgente, Qiqajon, Magnano, 2003. p. 15.
6 Acta Synodalia, I/1, Città del Vaticano 1970, p. 315.


VITTORIO VENETO, 22 febbraio 2018