Poche parabole
ridotte all’osso
Gianfranco Ravasi
Nella versione italiana l’opera Un ebreo marginale dilaga in 5 volumi con un totale di 3735 pagine attorno alle quali si sono affannati nell’arco temporale di 16 anni (24 nell’originale americano) ben 6 traduttori diversi. L’autore, uno dei più eminenti biblisti americani, John P. Meier, è docente presso la prestigiosa Notre Dame University dell’Indiana e ha consacrato tutta la sua esistenza di studioso (anche fisicamente, tant’è vero che nell’ultimo tomo esprime la sua gratitudine ai vari medici che l’hanno curato) a ricomporre il volto storico di Gesù di Nazaret, un “ebreo marginale” ma così importante da meritare questa cattedrale esegetica. In verità un tempio piuttosto spoglio, nonostante la sua imponenza, perché l’applicazione rigorosa (e talora un po’ rigida) del metodo storico-critico – soprattutto attraverso gli stampi molto inflessibili dei cosiddetti «criteri di verifica dell’autenticità storica» della persona e degli atti di Gesù – ha lasciato fuori dell’edificio storiografico eretto da Meier una massa mastodontica di materiali evangelici.
È il caso dell’ultimo (almeno per ora perché viene fatta balenare la possibilità di un sesto tomo sulle autodefinizioni di Cristo) studio dedicato alle parabole considerate dalla quasi totalità degli studiosi come il cuore e l’approccio metodologico della predicazione del Gesù storico, nonostante la diversità numerica della loro catalogazione (si va da 29 a 72 e oltre, a causa dell’identificazione un po’ fluida del genere letterario parabolico). Su di esse passa ora il rullo compressore dell’analisi di Meier, accuratissima fino all’ossessione e inesorabile nell’applicazione della sua criteriologia, e alla fine riescono a sopravvivere solo quattro parabole come indiscutibilmente “gesuaniche”: il granello di senape (vedi, ad esempio, Marco 4,30-32), i vignaioli omicidi (la si legga in Marco 12,1-11), il grande banchetto (rimandiamo a Matteo 22,2-14) e, infine, i talenti (Matteo 25,14-30).
Il docente americano smonta la comune convinzione dei suoi colleghi passati e presenti (alcuni ormai classici come Jülicher, Jeremias, Dodd, Scott, Snodgrass) che assegnavano alle parabole un primato nel messaggio di Gesù e lo fa in premessa con un settenario di sue “tesi inattuali” (in inglese unfashionable che è più forte, “fuori moda”). Successivamente sono le varie parabole ad essere inserite negli stampi freddi sopra citati dei criteri di autenticità storica col risultato di far debordare l’incandescenza redazionale degli evangelisti all’esterno e quindi di essere scartate.
Tuttavia, è necessario subito precisare che non necessariamente quelle non accolte da Meier siano state “inventate” dagli evangelisti o dalla comunità. E questo per un fenomeno storico generale. È ciò che accade, infatti, per una massa enorme di persone, atti e detti che non hanno nessuna documentazione storica attendibile o semplicemente pervenuta, eppure si tratta di persone vissute e di dati storici reali.
In questa luce è significativa l’aletta del volume dove l’editore italiano mette le mani avanti. La citiamo annotandola perché è illuminante e non è solo apologeticamente preventiva per il lettore: «In genere gli esegeti operano in base al presupposto [noi siamo convinti che sia qualcosa di più di un postulato o di una supposizione previa] che le parabole narrate nei Vangeli possano essere sostanzialmente attribuite al Gesù storico. Il volume di Meier mette in discussione questo consenso generalizzato. Sostiene infatti che nessun criterio di storicità può fornire ragioni convincenti per assicurare che una determinata parabola abbia avuto origine sulle labbra del Gesù storico. Noi non disponiamo cioè di argomenti fortemente positivi a favore della storicità delle parabole». A questo punto, però, l’editore-curatore aggiunge: «Il che non dimostra automaticamente che non siano autentiche». L’aporia è solo apparente, perché – come sopra si diceva – non tutto ciò che non è documentabile criticamente è falso o apocrifo: il Gesù della storia è di più del Gesù storico-critico.
Dobbiamo, comunque, riconoscere che in Meier al minimalismo della raccolta di frutti corrisponde un’impressionante e colossale investigazione scientifica che testimonia il livello altamente sofisticato e raffinato della ricerca esegetica biblica. Si provi, ad esempio, a seguire la sua analisi di un Vangelo apocrifo come quello copto “di Tommaso”, considerato da alcuni una fonte a cui attinsero i Vangeli canonici. L’ipotesi è demolita da Meier che, anzi, ribalta la dipendenza genetica per cui la pur preziosa attestazione di “Tommaso” avrebbe attinto al Vangelo di Matteo e non viceversa, ad esempio, nel caso della parabola della zizzania nel campo di grano (Matteo 13,24-30).
La stessa acribia naturalmente è applicata soprattutto al materiale parabolico evangelico sinottico (cioè di Marco, Matteo, Luca) e alla fonte più antica a cui essi si riferirono, convenzionalmente designata come Q (dal tedesco Quelle, “fonte”).
Il filtro adottato per il vaglio, o come dicevamo un po’ brutalmente, lo stampo con cui tarare l’appartenenza al Gesù storico delle parabole evangeliche è quello dei cosiddetti «criteri di verifica dell’autenticità storica» che vengono dallo studioso americano ininterrottamente applicati sui materiali evangelici. Meier li elenca in una sorta di pentagramma nelle pagine 24-31. Il “criterio dell’imbarazzo” individua dati evangelici difficilmente inventati dalla Chiesa delle origini perché avrebbero imbarazzato o messo in difficoltà i credenti di allora (ad esempio, il battesimo di Gesù ad opera di Giovanni o la crocifissione, esecuzione capitale per i criminali e gli schiavi). Il “criterio della discontinuità” si focalizza su parole e atti di Gesù non derivati dal giudaismo o dalla Chiesa di allora. Il “criterio della molteplice attestazione” punta su detti o gesti di Cristo offerti da fonti letterarie indipendenti tra loro (Marco, Paolo, Giovanni, Q) o secondo generi letterari differenti.
Il “criterio della coerenza” scopre la congruità di alcuni elementi con l’ideale database di informazioni ottenute con l’applicazione dei precedenti criteri. Infine, il “criterio del rifiuto” o “dell’esecuzione” raccoglie quei dati che spiegano l’approdo finale della storia di Gesù col processo e la condanna a morte, segno della minaccia reale costituita dalla sua figura concreta nel contesto socio-religioso di allora. Fermiamoci qui e riconosciamo con lo stesso Meier che possono esserci approcci ulteriori e alternativi da lui, però, rigettati. Su di essi noi saremmo più cauti, ma soprattutto saremmo meno decisi nel separare così radicalmente il dato storico e la sua interpretazione perché anche in quest’ultima può innestarsi un deposito di elementi testimoniali autentici, incastonati nel tessuto della rilettura degli eventi stessi. Il risultato, allora, potrebbe essere ben più ampio di quelle parabole few, happy few (“le poche elette” come si ha nella versione italiana dell’opera) salvate dall’autore e che danno il titolo al capitolo finale.
(“Il Sole 24 Ore” - 4 marzo 2018)
Poche Parabole ridotte all’osso
Gianfranco Ravasi
Nella versione italiana l’opera Un ebreo marginale dilaga in 5 volumi con un totale di 3735 pagine attorno alle quali si sono affannati nell’arco temporale di 16 anni (24 nell’originale americano) ben 6 traduttori diversi. L’autore, uno dei più eminenti biblisti americani, John P. Meier, è docente presso la prestigiosa Notre Dame University dell’Indiana e ha consacrato tutta la sua esistenza di studioso (anche fisicamente, tant’è vero che nell’ultimo tomo esprime la sua gratitudine ai vari medici che l’hanno curato) a ricomporre il volto storico di Gesù di Nazaret, un “ebreo marginale” ma così importante da meritare questa cattedrale esegetica. In verità un tempio piuttosto spoglio, nonostante la sua imponenza, perché l’applicazione rigorosa (e talora un po’ rigida) del metodo storico-critico – soprattutto attraverso gli stampi molto inflessibili dei cosiddetti «criteri di verifica dell’autenticità storica» della persona e degli atti di Gesù – ha lasciato fuori dell’edificio storiografico eretto da Meier una massa mastodontica di materiali evangelici.
È il caso dell’ultimo (almeno per ora perché viene fatta balenare la possibilità di un sesto tomo sulle autodefinizioni di Cristo) studio dedicato alle parabole considerate dalla quasi totalità degli studiosi come il cuore e l’approccio metodologico della predicazione del Gesù storico, nonostante la diversità numerica della loro catalogazione (si va da 29 a 72 e oltre, a causa dell’identificazione un po’ fluida del genere letterario parabolico). Su di esse passa ora il rullo compressore dell’analisi di Meier, accuratissima fino all’ossessione e inesorabile nell’applicazione della sua criteriologia, e alla fine riescono a sopravvivere solo quattro parabole come indiscutibilmente “gesuaniche”: il granello di senape (vedi, ad esempio, Marco 4,30-32), i vignaioli omicidi (la si legga in Marco 12,1-11), il grande banchetto (rimandiamo a Matteo 22,2-14) e, infine, i talenti (Matteo 25,14-30).
Il docente americano smonta la comune convinzione dei suoi colleghi passati e presenti (alcuni ormai classici come Jülicher, Jeremias, Dodd, Scott, Snodgrass) che assegnavano alle parabole un primato nel messaggio di Gesù e lo fa in premessa con un settenario di sue “tesi inattuali” (in inglese unfashionable che è più forte, “fuori moda”). Successivamente sono le varie parabole ad essere inserite negli stampi freddi sopra citati dei criteri di autenticità storica col risultato di far debordare l’incandescenza redazionale degli evangelisti all’esterno e quindi di essere scartate.
Tuttavia, è necessario subito precisare che non necessariamente quelle non accolte da Meier siano state “inventate” dagli evangelisti o dalla comunità. E questo per un fenomeno storico generale. È ciò che accade, infatti, per una massa enorme di persone, atti e detti che non hanno nessuna documentazione storica attendibile o semplicemente pervenuta, eppure si tratta di persone vissute e di dati storici reali.
In questa luce è significativa l’aletta del volume dove l’editore italiano mette le mani avanti. La citiamo annotandola perché è illuminante e non è solo apologeticamente preventiva per il lettore: «In genere gli esegeti operano in base al presupposto [noi siamo convinti che sia qualcosa di più di un postulato o di una supposizione previa] che le parabole narrate nei Vangeli possano essere sostanzialmente attribuite al Gesù storico. Il volume di Meier mette in discussione questo consenso generalizzato. Sostiene infatti che nessun criterio di storicità può fornire ragioni convincenti per assicurare che una determinata parabola abbia avuto origine sulle labbra del Gesù storico. Noi non disponiamo cioè di argomenti fortemente positivi a favore della storicità delle parabole». A questo punto, però, l’editore-curatore aggiunge: «Il che non dimostra automaticamente che non siano autentiche». L’aporia è solo apparente, perché – come sopra si diceva – non tutto ciò che non è documentabile criticamente è falso o apocrifo: il Gesù della storia è di più del Gesù storico-critico.
Dobbiamo, comunque, riconoscere che in Meier al minimalismo della raccolta di frutti corrisponde un’impressionante e colossale investigazione scientifica che testimonia il livello altamente sofisticato e raffinato della ricerca esegetica biblica. Si provi, ad esempio, a seguire la sua analisi di un Vangelo apocrifo come quello copto “di Tommaso”, considerato da alcuni una fonte a cui attinsero i Vangeli canonici. L’ipotesi è demolita da Meier che, anzi, ribalta la dipendenza genetica per cui la pur preziosa attestazione di “Tommaso” avrebbe attinto al Vangelo di Matteo e non viceversa, ad esempio, nel caso della parabola della zizzania nel campo di grano (Matteo 13,24-30).
La stessa acribia naturalmente è applicata soprattutto al materiale parabolico evangelico sinottico (cioè di Marco, Matteo, Luca) e alla fonte più antica a cui essi si riferirono, convenzionalmente designata come Q (dal tedesco Quelle, “fonte”).
Il filtro adottato per il vaglio, o come dicevamo un po’ brutalmente, lo stampo con cui tarare l’appartenenza al Gesù storico delle parabole evangeliche è quello dei cosiddetti «criteri di verifica dell’autenticità storica» che vengono dallo studioso americano ininterrottamente applicati sui materiali evangelici. Meier li elenca in una sorta di pentagramma nelle pagine 24-31. Il “criterio dell’imbarazzo” individua dati evangelici difficilmente inventati dalla Chiesa delle origini perché avrebbero imbarazzato o messo in difficoltà i credenti di allora (ad esempio, il battesimo di Gesù ad opera di Giovanni o la crocifissione, esecuzione capitale per i criminali e gli schiavi). Il “criterio della discontinuità” si focalizza su parole e atti di Gesù non derivati dal giudaismo o dalla Chiesa di allora. Il “criterio della molteplice attestazione” punta su detti o gesti di Cristo offerti da fonti letterarie indipendenti tra loro (Marco, Paolo, Giovanni, Q) o secondo generi letterari differenti.
Il “criterio della coerenza” scopre la congruità di alcuni elementi con l’ideale database di informazioni ottenute con l’applicazione dei precedenti criteri. Infine, il “criterio del rifiuto” o “dell’esecuzione” raccoglie quei dati che spiegano l’approdo finale della storia di Gesù col processo e la condanna a morte, segno della minaccia reale costituita dalla sua figura concreta nel contesto socio-religioso di allora. Fermiamoci qui e riconosciamo con lo stesso Meier che possono esserci approcci ulteriori e alternativi da lui, però, rigettati. Su di essi noi saremmo più cauti, ma soprattutto saremmo meno decisi nel separare così radicalmente il dato storico e la sua interpretazione perché anche in quest’ultima può innestarsi un deposito di elementi testimoniali autentici, incastonati nel tessuto della rilettura degli eventi stessi. Il risultato, allora, potrebbe essere ben più ampio di quelle parabole few, happy few (“le poche elette” come si ha nella versione italiana dell’opera) salvate dall’autore e che danno il titolo al capitolo finale.
(“Il Sole 24 Ore” - 4 marzo 2018)