Pagine sulla morte
La donna e la morte
nella poesia di Pavese
Anna Maria Bonfiglio
Nel 1990, in occasione dei quarant’anni della morte di Cesare Pavese, il critico Lorenzo Mondo divulgò alcune pagine dei taccuini del poeta, che aveva recuperati nel ’62 nella casa di S.Stefano Belbo e che aveva tenuto conservati per quasi trent’anni. In quella circostanza si accesero molte polemiche per il fatto che da quelle pagine inedite veniva fuori una figura di intellettuale non propriamente schierato a sinistra, per come fino a quel momento era stato considerato e di fatto era, essendo esplicitamente iscritto al PC, ma l’essenza di un uomo che metteva in discussione l’ideologia comunista. Si parlò allora di un Pavese filofascista e scrittori e critici si chiesero come fosse possibile che l’autore de La bella estate, mandato al confino da Mussolini, potesse avere nutrito un’ammirazione per il regime. Di fatto lo scrittore torinese era stato confinato a causa di un errore, essendo state trovate nella sua casa le lettere che il partigiano Alberto Spinelli scriveva alla sua ex-fidanzata Tina Pizzardo, iscritta al partito comunista clandestino, di cui Pavese era stato innamorato. D’altra parte nell’attività del gruppo Giustizia e Libertà egli restò coinvolto più che per una dichiarata convinzione politica per restare nel gruppo degli amici, fra cui Leone Ginzburg e Giaime Pintor. A causa di un asma bronchiale di cui soffriva, Pavese venne dispensato dalla leva militare e all’avvento della repubblica sociale italiana, per sfuggire ai tedeschi e ai repubblichini si rifugiò al Collegio dei Padri Somaschi assumendo il nome di Carlo De Ambrogio. In quel convento conobbe Padre Giovanni Baravalle, un giovane sacerdote che insegnava filosofia, il quale in seguito raccontò delle conversazioni che avevano avuto e addirittura di una confessione dello scrittore.
Da queste notizie, da tutto ciò che di scritto ci è pervenuto, dagli articoli, dalle biografie, è facile desumere come e quanto Pavese patisse le contraddizioni della sua natura e l’irrimediabile solitudine a cui si sentiva condannato.
Due coordinate importanti nella vita e nell’opera di Pavese sono la donna e la morte.
Nel 1949 Cesare Pavese conosce l’attrice americana Constance Dowling e con lei intreccia l’ultimo di una serie di infelici rapporti d’amore. Nella vita del poeta la donna è stata una presenza-assenza e nella sua scrittura un mito rivelato attraverso la simbologia del sesso e del sangue. È stata il nodo emblematico della sua vicenda esistenziale sia sul piano del privato che su quello dell’arte, non soltanto come negazione di una realtà d’amore ma anche come scoglio su cui si arena l’idealità. In una lettera all’amico Davide Lajolo, Pavese chiama la Dowling “allodola” e scrive:”Essa si è fermata presso il mio covone di grano soltanto perché si sente sperduta, ma se ne andrà presto, lo sento, sentirò sbattere le sue ali, senza neppure la forza di alzare un grido per richiamarla”.
Tra l’undici marzo e il dieci aprile del 1950 il poeta scrive le poesie che verranno pubblicate postume con il titolo “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”, e che si riferiscono alla sua breve storia con l’americana. La prima poesia porta come titolo To C. from C., verosimilmente “A Constance da Cesare”, ed è scritta in inglese (ne do una mia sommaria traduzione):
“Tu,
variopinto sorriso
sui ghiacciai-
vento di marzo
danza di rami
bagnati
che gemono e ardono
i tuoi piccoli sospiri-
bianca membrata daina
gentile
vorrei poter conoscere
ancora
la grazia insinuante
dei tuoi giorni
la spuma di merletto
dei tuoi gesti.
Domani sarà il gelo
sotto la luce-
tu, variopinto sorriso
accesa risata”
I versi “domani sarà il gelo sotto la luce” prefigurano lo stato d’animo del poeta che si prepara a penetrare il mistero della morte. Per lui donna, terra e morte si identificano:
“Tu sei come una terra
che nessuno ha mai detto
tu non attendi nulla
se non la parola
che sgorgherà dal fondo
come un frutto tra i rami”
La morte dunque come frutto stesso della terra, come realtà archetipa assolutizzante. Le poesie di di questa raccolta sono un addio dolce e straziante, una partitura dove è segnata la musica perduta della vita.
“Lo spiraglio dell’alba
respira con la tua bocca
in fondo alle vie vuote
Luce grigia i tuoi occhi
dolci gocce dell’alba
sulle colline scure
Il tuo passo e il tuo fiato
come il vento dell’alba
sommergono le case
La città abbrividisce
odorano le pietre
sei la vita, il risveglio”
Presenza fisica, dimensione temporale, luoghi, un’unità trinaria che si condensa e si manifesta nell’ultimo verso. La terra è il mallo che ha racchiuso il frutto pervenuto al poeta per un miracolo; la terra contiene la donna e ne è rappresentata( il tuo tenero corpo/una zolla nel sole), la donna “è” la terra che accoglierà la morte (sei radice feroce/sei la terra che aspetta). Donna-sesso-morte, correlazione emblematica (il tuo passo leggero/ha violato la terra/Ricomincia il dolore): il poeta è la terra, fredda, immobile in un “torpido sogno come chi più non soffre”, ma è arrivata la donna e ha “riaperto il dolore”. È una violazione che sa di speranza ma è anche la paura di una rinnovata solitudine.
La poesia La casa è un’accorata seppure oggettiva invocazione ad un destino che non è mai appartenuto al poeta, quello di ogni uomo che costruisce il suo futuro accanto alla propria donna; in questo testo la presenza femminile è metaforizzata dal fonema voce, voce mai udita come costante presenza.
La scrittura poetica di Cesare Pavese ha come apogeo la morte. Inutile ogni tentativo di indagare le ragioni del suo gesto finale; più utile soffermarsi sul dato letterario e considerare che le ferite di cui egli ha sofferto sono il presupposto delle due raccolte postume, La terra e la morte e Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, dalle quali, con crudezza ed essenzialità, attraverso un dettato poetico che si rivolge all’interlocutore donna-morte, si leva una tensione di altissimo patos.