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    La giustizia /3


    Le virtù /11

    Paolo Carlotti

    (NPG 2011-09-41)


    Oltre al classico ambito operativo, precedentemente sviluppato, che vede focalizzati i rapporti intercorrenti tra i singoli individui, vi è quello – altrettanto classico – che si sofferma ad enucleare il rapporto del singolo nei confronti della società civile nel suo insieme. Questo ambito riflette sull’apporto che il singolo deve alla società civile, non solo per la sua minimale sussistenza, ma anche per il suo ottimale sviluppo.

    La mia giustizia verso tutti, o legale

    Quest’apporto è insostituibile ed è individuabile primariamente nella qualità morale della propria persona che ogni singolo è chiamato ad assicurare ad ogni altro, nelle diverse comunità e nella società nel suo insieme di cui è di volta in volta membro.
    Prima ancora di essere determinato in singole prestazioni operative, che pure vi sono e sono rilevanti, ognuno di noi contribuisce alla giustizia sociale semplicemente con l’essere una persona giusta, meglio con l’essere una persona buona, cioè con la qualità del proprio modo di essere persona, del proprio stile di vita. L’essere persona buona e giusta si concretizza certo nella precisa esclusione di alcuni comportamenti e nell’altrettanto precisa inclusione di altri, ma notoriamente va al di là della loro semplice somma quantitativa: lo sappiamo, la qualità non è mai completamente riducibile a quantità e viceversa. Una persona giusta e soprattutto buona è qualcosa di più e di diverso dell’insieme dei suoi singoli gesti di bontà e di giustizia, e tuttavia senza di questi è impossibile anche solo pensare quella.
    È questo il compito principale, nonostante molto e molti tendano a farci credere il contrario: è da credere fermamente che senza persone buone e giuste è illusorio pensare di poter garantire bontà e giustizia, proprio in quella concretezza e talora in quella precarietà della vita, da cui scaturisce un appello inequivocabile e urgente. Non saranno né le pur necessarie strutture, né le pur necessarie tecniche – strutture e tecniche a cui forse finora abbiamo troppo demandato e ci siamo troppo affidati –, nel loro anonimo procedere a sviluppare al nostro posto e quasi senza di noi, la bontà e la giustizia. Come si suol oggi dire, su questo compito non possiamo non metterci la faccia, la nostra.
    Sono svariate le esemplificazioni possibili circa le singole azioni che procedono da questo che è un dovere o non semplicemente un optional, di contribuire personalmente al bene comune di tutti. Per esempio, un aspetto da sempre molto sensibile è il versante economico col pagare quelle tasse, da cui troppo facilmente ci si sente – moralmente! – esentati e se ne giustifica l’evasione, parziale o totale. È ben vero che talora la loro ricaduta sociale appare o forse è selettiva, corporativa, elettoralmente orientata, e il danaro raccolto da tutti è destinato solo agli interessi di alcuni.
    È ben facile poi nell’uso pubblico delle cose di tutti rinvenire mancanza di rispetto, di cura, di attenzione, per non parlare di vera e propria grettezza e di vero e proprio spregio. Quanto costi questa maleducazione, anche solo economicamente, è altrettanto facile appurarlo. Vi è poi l’effetto trainante che induce altri a replicare, si crea una mentalità che si autogiustifica, e resistere in modo alternativo diventa sempre più difficile per il singolo. Le logiche e le dinamiche interne alla società ne rimangono segnate, affiorano quelle che Giovanni Paolo II con profetica lungimiranza chiamò le «strutture di peccato».
    È evidente che tutto questo non deve avvenire, ma perché questo avvenga occorre il coinvolgimento del singolo nella tutela e nella gestione della res pubblica, occorre il suo impegno politico, diretto o indiretto, nelle diversissime forme della sua espressione organizzata e non solo il suo pur importante voto elettorale. La società civile sfugge alla strumentalizzazione populista con il costante controllo democratico dell’autorità politica, che è moralmente giustificata, non quando aggredisce la società civile che l’ha espressa, ma quando la serve e la fa crescere. In modo analogo, per l’economia si parla della responsabilità sociale dell’imprenditore e dell’impresa che dirige, responsabilità che è verso le vite dei singoli e delle loro famiglie, che non possono essere travolte da speculazioni finanziarie, che intendono massimizzare il profitto di alcuni, a breve.
    Non c’è chi non veda come per questo compito e di fronte alle sue possibili derive ci sia bisogno di persone virtuose e giuste, di persone che sappiano resistere alla tentazione del potere e della ricchezza. Senza questa capacità il potere e la ricchezza travolgono come fuscelli chi non ha veramente a cuore qualcosa di radicalmente alternativo ad essi, senza questa capacità la volontà di servire il bene comune, quello veramente di tutti, è solo leggerezza di parole.
    Tra le molte note ancora possibili su quest’argomento, mi soffermo su due in particolare che intendono concludere questo paragrafo.
    La prima permette di ricordare che se è chiaramente immorale fare del male al singolo perché ne venga il bene di tutti – è il ragionamento di Caifa che propose di uccidere Gesù per salvare l’intero popolo – semplicemente perché il bene anche quello comune si fa solo col bene, è però comprensibile che, di fronte ad evidenti e marcate incompatibilità, il bene di tutti abbia la precedenza sul bene del singolo, per lo meno per quanto il singolo è rimandato alla comunità. Del resto, è illusorio pensare di promuovere il bene del singolo quando quello di tutti subisce una battuta d’arresto, e d’altra parte il singolo rinunciando al proprio non vi rinuncia completamente, perché promuovendo quello comune promuove anche il proprio. È chiaro comunque il risarcimento del singolo. Quest’ambito operativo, sovente a tema in molte scelte ambientali, non è di semplice discernimento, soprattutto a causa della pressione di molteplici interessi e anche di molteplici visioni e valutazioni dell’esistenza.
    Di qui una seconda osservazione che ci fa affermare che la singola persona non esaurisce la propria identità nell’essere un membro della società, ma va oltre la società e quindi la società è chiamata a riconoscere quest’eccedenza della persona. Di qui deriva il classico principio – da ben intendere – della priorità della persona sulla società. Questa eccedenza si manifesta particolarmente nel rispetto della libertà religiosa, quando diventa evidente che la società non può essere l’orizzonte esaustivo dell’intera vita della persona. La mancata osservanza di questo principio ha dato e dà luogo a modelli di collettivismo e di totalitarismo sociale, di cui è triste memoria.

    La giustizia di tutti verso il singolo, o distributiva

    Vi è un ultimo ambito operativo della giustizia ed è quello opposto al precedente, e pondera moralmente il rapporto e l’apporto della società civile verso il singolo.
    Abbiamo già avuto modo di accennare allo sviluppo della teoria dei diritti e come questi abbiano conosciuto una fase molto importante che conduceva dai diritti negativi o liberali – il diritto a non essere ostacolato – ai diritti positivi, che puntavano ad abilitare l’individuo verso specifiche mete dotandolo dei supporti necessari, sia materiali sia sociale e culturali. La società non poteva essere concepita come un neutrum regolativo, in cui tutti potessero perseguire il più possibile indisturbati i propri interessi, ma un convivere attento alle situazioni più svantaggiate, a cui risultava di fatto precluso l’accesso a minimali esistenziali decenti. Storicamente si tematizzò così la consapevolezza dell’insieme sociale verso i suoi singoli e anche verso i suoi cosiddetti «corpi intermedi», quali la famiglia, le associazioni, le chiese, ecc.
    In margine a queste considerazioni può essere utile rammentare che la stessa teoria «liberale» – in parte contrattualista e di ascendenza kantiana – della giustizia di J. Rawls, prospetta una «posizione originaria», per garantire una giusta decisione nell’allocazione delle risorse e delle opportunità sociali, decisione che sarà tale se verificherà positivamente i due seguenti principi:
    «a. Ogni persona ha lo stesso titolo indefettibile a uno schema pienamente adeguato di uguali libertà di base compatibile con un identico schema di libertà per tutti gli altri.
    b. le disuguaglianze sociali ed economiche devono soddisfare due condizioni: primo, devono essere associate a cariche e posizioni aperte a tutti in condizioni di equa eguaglianza delle opportunità; secondo, devono dare il massimo beneficio ai membri meno avvantaggiati della società (principio di differenza)» [J. RAWLS, Giustizia come equità. Una riformulazione = Campi del sapere 67 (Milano, Feltrinelli 2002)].
    Il decisore è in posizione originaria quando non conosce previamente il ruolo sociale che ricoprirà. In altre parole, se vuoi che la torta da dividere sia divisa in parti uguali, occorre fare in modo che colui che fa le parti sia l’ultimo a scegliere, diversamente è quasi sicuro che una parte almeno sarà più grande delle altre.
    Oggi, non solo più nella Dottrina sociale della Chiesa, che ha originato il termine e soprattutto il concetto (Pio XI, Quadragesimo anno), ma anche per esempio a livello delle istituzioni europee, si parla di sussidiarietà, esattamente come quel principio che cerca di interpretare e di regolare i rapporti sociali tra l’intera società civile e le sue diverse e interne articolazioni, perché si eviti da una parte il dominio del tutto sulle sue parti e dall’altra il disimpegno delle parti verso il tutto. Sarebbe questa la sussidiarietà verticale, mentre quella orizzontale concernerebbe la relazionalità tra soggetti e agenzie di pari livello.
    È facile, soprattutto oggi, che alle dichiarazioni di intenti non corrispondano realtà coerenti e consistenti, per cui – diremmo noi – con la scusa di aiutare si finisca per continuare ancora a sfruttare, oppure con la scusa di chiedere aiuto si finisca per continuare ancora a fare il parassita. Il principio di sussidiarietà – e questo penso sia illuminante per certi versi anche per le relazioni interpersonali – vincola l’aiutante a non sostituire completamente o addirittura ad impedire l’opera che il soggetto aiutato può svolgere da solo, ma a sostenerla solo quando esso è deficitario. Il mancato rispetto di questa indicazione apre alla semplice colonizzazione e al facile sfruttamento. D’altra parte colui che chiede aiuto diventa un semplice assistito parassitario, quando rinuncia a compiere ciò che può operare: si scade nel semplice assistenzialismo.
    L’intervento sociale rispetto al singolo e ai corpi intermedi è quindi promozionale della loro identità, da cui solo può conseguire la ricchezza e la qualità personale della sua convivenza.
    Sono molteplici le esemplificazioni e alcune di rilievo. L’educazione dei figli forse dovrebbe maggiormente considerare la nativa responsabilità dei genitori e favorire la loro organizzazione al fine di assicurare un’educazione e una scolarizzazione in sintonia con le loro convinzioni, anche religiose. La grande area del riconoscimento sociale e civile della diversità culturale e non delle minoranze conosce passaggi e momenti di delicato avvicendamento, tra una possibile imposizione della maggioranza e una posizione non sempre socialmente conciliabile, per lo meno per i tempi di recezione.
    Più in generale si avverte oggi il peso della omologazione mediatica globalizzata che impone in modo soft i suoi modelli attitudinali e comportamentali e «rimanere se stessi» – come si suol dire – diventa sempre più difficile e ci sono permesse solo modeste e previste varianti di modelli molto pervasivi e capillari. Lo spazio per la persona diventa sempre meno pubblico, dove vigono clichés ben definiti. Lo stesso vissuto credente ne soffre. Del resto la stessa presenza nel dibattito filosofico di un cosmopolitismo patriottico (J. Habermas) è il tentativo di recuperare spazi a misura d’uomo, per poter coltivare aspetti e dimensioni identitarie assenti nel ‘villaggio globalizzato’.

    La giustizia e la sua carità

    Per il cristiano è inevitabile focalizzare il rapporto tra la giustizia e la carità evitando quelle figure di semplice giustapposizione e banale successione, che richiamano figure obsolete di un rapporto più globale tra l’humanum e il christianum. Con la carità siamo di fronte al cuore dello specifico della morale cristiana, che nata, come la fede, dalla Pasqua del Crocifisso Risorto, vede nell’abilitazione all’amore al modo di Dio la risultanza indicibile della novità evangelica. Questa dedicazione totale all’amore e all’amore al modo di Dio trasfigura senza stravolgerlo ogni valore umano, compresa la giustizia, che se non è da subito carità, tuttavia senza di essa la carità non può darsi.
    Viene a proposito il richiamo del Vaticano II, che aveva messo in guardia i cristiani dal pericolo di incorrere in un equivoco, quello di ritenere di essere caritatevoli perché si dà agli altri ciò a cui hanno diritto per giustizia. Il dare il giusto salario ad un operaio non è atto di carità ma di giustizia, e il ritenerlo invece tale è falsare radicalmente la realtà. Poi, ciò che spetta all’altro per giustizia, va dato sempre, anche quando sarebbe facile esimersi dal farlo, va dato anche quando l’altro non sa dei propri diritti e anche quando non è in grado di rivendicarli. Va dato poi in modo unilaterale e non in modo contrattuale o reciproco, né tanto meno perché vi sono costretto. Anzi, il vero giusto difende chi non può o sa difendersi, né si lascia comprare vendendo la causa del giusto e dell’innocente o come direbbe il salmo «non accetta regali contro l’innocente».
    Come si vede questi sono comportamenti che appartengono alla nostra civiltà e al nostro paese: non possiamo disperdere un patrimonio così importante, prezioso e necessario per la qualità etica della nostra Italia. Anzi, se la giustizia è violata è nostro dovere ripararla, nei limiti dell’umanamente possibile. Proprio la Chiesa ce ne dà l’esempio nel caso, tristemente noto, dell’abuso sessuale da parte del clero, impegnandosi a prevenire ulteriori gravi ingiustizie, a impedirne il ripetersi, a risarcire e accompagnare le vittime innocenti. Non sempre nella pratica della giustizia – anche dai nostri politici – viene un esempio buono e virtuoso: non è il caso di seguire i cattivi esempi, anche se – come dice il salmo – il successo dell’ingiusto – a cui tutto sembrerebbe andar bene – può assillare e scoraggiare il giusto. In fondo però, non è forse meglio perdere qualcosa, piuttosto che perdere se stessi e la tranquillità della propria coscienza? Non è meglio avere nel cuore pace e gioia, piuttosto che lotta e inquietudine, che oltre a far venire la colite ci lasciano sempre insoddisfatti?
    Mi viene in mente un episodio della vita di s. Roberto Bellarmino, che era importunato da un povero che si presentava alla porta del suo palazzo ogni santo giorno, e beneficiava sempre della sua crescente generosità. Questo povero divenne talmente perentorio col cardinale che finì per imporglisi, esigendo la sua «elemosina» quotidiana. Di fronte a tanta protervia un giorno il servo del cardinale reagì, ma fu bloccato dal santo che disse: «Lascialo, non faccio che dargli ciò che è suo». S. Roberto era cosciente di praticare la giustizia e non ancora la carità.
    La Caritas in veritate ci ricorda anche un dato molto elementare e ovvio: non ci può essere vera carità senza vera giustizia, non solo nella gestione dei beni temporali, ma anche nelle relazioni interpersonali. Pensare di amare gli altri e non rispettarli è una incongruenza troppo evidente per poter essere avvallata. La carità però va oltre, e non solo rispetta il chiunque altro, ma lo ama e lo ama come Gesù ha amato noi, cioè con tutto il cuore, con un cuore reso nuovo dalla Pasqua di risurrezione di nostro Signore. La carità è certo dono di Dio, ma il nostro impegno, quello che noi possiamo fare, vogliamo mettercelo, veramente aspettando la ricompensa solo da Lui.


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