Camera con vista o senza?


In cammino con i ragazzi /7

Elisabetta Musi

(NPG 2012-08-51)


Abitare un luogo – anche solo una stanza – significa trasformarlo, renderlo eloquente in forza della propria presenza, toglierlo dall’invisibilità. Avere dimora sperimentando uno spazio dedicato, in cui lasciare l’impronta del proprio esistere, è condizione per farsi dimora: rendendosi permeabili alle parole e alle presenze altrui. Infatti il soggetto «può abitare soltanto lo spazio dischiuso dalle parole che gli consentono di condividere con gli altri l’esperienza di un mondo. Dove manca la parola (…) non si apre nessuno spazio abitabile, ma ciascuno si trova contenuto entro limiti che gli restano indifferenti, nel senso che non producono la sua differenza rispetto agli altri».[1]

Evoluzioni di uno spazio

Preparandosi alla venuta di un figlio, ci si adopera non poco ad allestirgli uno spazio accogliente, gentile, delicato. Nessun particolare è lasciato al caso: le pareti tinteggiate di riposanti color pastello, perché gli occhi possano perdersi in uno sfondo naturale, le tende rallegrate da garbate fantasie come quelle che troverà nei libri di fiabe, gli arredi della più recente linea in legno, allietati da rifiniture cromatiche in rigorosa sintonia con le pareti e le tende. E infine i giochi: qualcuno nella cesta vicino al fasciatoio, qualcuno di più grosse dimensioni appoggiato per terra: un orso di peluche tra le cui braccia un bimbo gattonante si può persino addormentare e il più tradizionale cavallo a dondolo per incoraggiare le prime esplorazioni.
Tutto viene sistemato secondo un ordine preciso, che riferisce di ruoli chiari e spazi altrettanto ben scanditi. Ogni cosa al suo posto. Poi, come sempre, la vita scombina ogni programma. E forse proprio questo la rende così interessante. La presenza vivace del figlio, le sue richieste, le tappe di crescita con le loro fatiche… contaminano gli ambienti. La camera di un soggetto di recente apparizione sulla terra, dilaga. Gli oggetti escono dalla sua stanza con la stessa forza con cui il piccolo proprietario si affaccia al mondo esterno. Sembrano rappresentanti di un impero coloniale determinato a conquistare ogni centimetro quadrato di casa.
Poi, crescendo, dalle cose di casa l’attenzione si trasferisce alle altre case: quelle di amici e compagni di scuola. Altri cortili. Altri giochi. La casa ritrova piano piano un principio d’ordine. L’allestimento di ogni stanza torna a raccontare quali siano i suoi ospiti principali e a quali funzioni sia destinata. I corridoi riacquistano la loro funzione di transito e le presenze si distribuiscono in una danza di vai e vieni sincronizzati. Tutte, tranne una. Il figlio, ora in cammino verso l’adolescenza, pare che ogni tanto perda il ritmo di casa: si attarda in camera quando è ora di cena, inizia telefonate interminabili nei momenti più sconvenienti, lascia traccia del suo passaggio disseminando sul pavimento calzini, camicie o magliette. In perenne difetto di collaborazione ma perfetto nell’arte dell’«imboscamento»: per indurlo ad un aiuto nelle faccende domestiche occorre superare estenuanti negoziazioni e impareggiabili confronti con fratelli o sorelle e, in assenza, con schiere di amici tutti assai più fortunati in quanto a libertà e spensierato disimpegno. Ma ciò che più decreta un cambiamento senza precedenti è la camera: una roccaforte sempre più inespugnabile e accessoriata, microcosmo nel macrocosmo domestico che il figlio elegge a punto di avvistamento sul mondo.

Prove generali verso l’adolescenza

La semantica degli oggetti,[2] il vissuto degli spazi [3] riferiscono di percorsi evolutivi, di esigenze che cambiano, di relazioni che si ridefiniscono. Riferiscono soprattutto di nuove distanze, limiti e divieti che si interpongono tra genitori e figli, rendendo estraneo ciò che fino a poco prima risultava familiare e ovvio. Se le relazioni in famiglia sono state positive e nutrite di affetto, i figli ne traggono quella sicurezza e quell’indiretto incoraggiamento necessari a volgere lo sguardo fuori di casa, a misurarsi con altri territori, meno protetti e più attraenti. Quello diventa il banco di prova di buona parte di ciò che è stato appreso e sperimentato in famiglia.
In relazione a questo passaggio dalla casa al mondo esterno, la camera rappresenta una stazione intermedia, una cabina di regia in cui organizzare piani di conquista collegati a visioni sempre più articolate e complesse del reale, una sorta di stanza di decompressione in cui rielaborare gli input recepiti dall’esterno (incontri, conoscenze, rimandi su di sé) e dare vita a progetti identitari in continua ridefinizione. In fondo ciò che spiazza dei preadolescenti e forse ancor di più degli adolescenti, non è molto diverso da ciò che disorienta gli stessi protagonisti: la loro novità (che li fa sentire estranei persino a chi li ha messi al mondo e con loro ha condiviso ogni giornata) è frutto di esperienze inedite che attecchiscono con estrema velocità su un supporto biografico duttile e versatile, stravolgendone i tratti conosciuti.
La camera permette queste prime esperienze di stordimento, che si visibilizzano con una sorta di amplificazione del sé: vestiti lasciati ovunque, fumetti, cd, a volte libri di scuola accatastati senza ordine, carte di caramelle insieme a caramelle incartate e soprattutto vicine a biglietti di qualche evento particolarmente apprezzato (cinema, gite, inviti di compleanno) che, lungi dal rappresentare semplici frammenti di scarto, costituiscono post it della memoria da collezionare nel diario, feticci investiti di poteri magici, in grado di promettere fortuna e protezione.
Una caratteristica che contraddistingue i preadolescenti e contribuisce a disorientare i loro genitori è infatti quella di sovrapporre e confondere diversi piani di realtà: i vestiti sporchi si uniscono a quelli puliti in una danza di odori (e di umori materni) che tutto fraternamente avvolge, i libri di studio sono regolarmente sommersi da più amene letture, ritagli di giornale senza particolare importanza si mescolano a biglietti recenti, custodi di elettrizzanti segreti.
Se, come sosteneva Maria Montessori, l’ordine esteriore contribuisce a dare forma a quello interiore, il disordine in cui i giovanissimi sembrano stare così a proprio agio, non può che dare conto della condizione magmatica e confusa che occupa la loro interiorità.
In questa transizione verso quello che si manifesterà con più forza nell’adolescenza, è possibile anche per gli adulti approfittare per prepararsi a quelle che saranno provocazioni più laceranti e trasgressioni più impegnative.

Un osservatorio privilegiato

Assumiamo dunque la camera come spazio privilegiato del sé, come baricentro gravitazionale da cui partono e ritornano i movimenti verso e dall’esterno. Come intendere chiusure autarchiche e progetti di tracotante autonomia? E come comportarsi: contrastando, limitando o lasciando fare, nella certezza che si tratta di un periodo di passaggio?

Imparare a stare soli

La camera permette di isolarsi in un luogo protetto. Consente di coltivare segreti, di tenersi al riparo dallo sguardo apprensivo dei genitori, di guadagnare spazi via via più ampi di autonomia e di silenzio. In questa sospensione delle relazioni è possibile «prendere le distanze dalle rappresentazioni cristallizzate di sé stessi, quelle che anche gli altri contribuiscono a far permanere immutate, e ridimensionare o comunque considerare criticamente o propri sistemi di valori scoprendo al loro interno eventuali germi di condizionamento al conformismo e alla massificazione».[4] Imparare a stare soli non è solo sottrarsi agli scambi comunicativi, ma sperimentare l’eco dei propri passi in assenza di una guida, avvertire lo smarrimento rispetto alle piccole decisioni che è possibile assumere senza l’ausilio dei genitori, cominciare a maturare cambiamenti, a prendere nuove posizione rispetto ai propri stessi comportamenti e alle frequentazioni con cui non ci si trova più a proprio agio.
Lo psichiatra infantile Donald W. Winnicott indica nella capacità di stare solo del bambino un elemento di equilibrio del suo sviluppo, un segno positivo del suo rapporto con i genitori, soprattutto con la madre. Chi impara a stare da solo, magari al cospetto di stati d’animo dai quali fuggirebbe volentieri, apprende il valore della compagnia e dell’amicizia come scelta e non come semplice diversivo con cui occupare il tempo e distrarsi, opponendosi al richiamo della vita emotiva che nella preadolescenza si annuncia con tutta la sua forza. Inoltre imparare a comunicare autenticamente con la propria interiorità, vuol dire iniziare ad accettare che nelle cose più profonde e importanti ognuno è indicibilmente solo e che l’incontro, l’amicizia, l’amore in questo consiste: che due solitudini si custodiscano, si delimitino, di coltivino a vicenda.
Quando la camera inizia ad essere un territorio in cui rifugiarsi, in cui negarsi alla socialità familiare, non va intesa come distanza e allontanamento, espressione di disagio, o consunzione dello spirito di convivenza, ma esercizio di una capacità. Capacità di entrare in rapporto con se stessi, con le proprie emozioni più profonde senza doverne rendere conto a nessuno. Più si contrasta questo isolamento, più si rischia di radicalizzarlo. Sottraendosi al controllo dei genitori, ragazzi e ragazze chiedono che ci si fidi di loro. Inizia qui una negoziazione delicata e a tratti estenuante. Che si annuncia con la messa in discussione del principio d’ordine che regola la vita in famiglia (cura del proprio spazio, del proprio corpo, di vestiti e oggetti, collaborazione alla gestione della casa, ai compiti di cura ordinaria…) per proseguire con richieste di quote via via maggiori di libertà nei rapporti con l’esterno (uscite e orari, motorino, auto, viaggi…).

Un luogo da cui partire per sfidare l’ignoto

Il viaggio è da sempre metafora del cambiamento, di un percorso di crescita, di conquista e verifica di nuove competenze. Nei programmi educativi familiari e scolastici ha spesso assunto un valore iniziatico, di verifica delle competenze acquisite e di riconoscimento di una maggiore autonomia e libertà (dalle gite ai viaggi di formazione).
La sua realizzazione attira proprio perché promette scoperte, incontri e avventure.
Come cabina di regia la camera consente uno spazio ritirato in cui progettare forme diverse di migrazione, da soli o in compagnia, ipotizzando partenze per itinerari inauditi e avventurosi, sulle orme di Indiana Jones o di altri personaggi al limite della fantasia, fughe da casa, imprese eroiche, proiezioni sul tempo a venire nella prefigurazione di mestieri e professioni fuori dal comune. Non si tratta di un mero esercizio di fantasia al posto dei giochi infantili. Prepararsi a viaggiare, magari o soprattutto senza una meta, risponde al desiderio di affacciarsi su altre vite, altre storie, «inghiottire l’universo» e «non morire di noia».[5]
È una delle prerogative dei giovani, che si annuncia già nella preadolescenza.
D’altra parte «nel tema del viaggio è l’intera vita umana nella sua complessità che viene descritta come ‘cammino’ e ‘ trasformazione’, cioè come ‘movimento intenzionale’ verso una meta solo ipoteticamente pre-definita. Il sentiero esistenziale appare perciò intrinsecamente connesso alla dimensione del rischio, del dubbio, della scelta, della prova del conflitto e della lotta, generalmente della solitudine, ma anche dell’incontro e dell’aiuto provvidenziale, la sua connotazione è di cammino tortuoso, in cui è continuamente possibile smarrirsi o anche ritornare sui propri passi; l’esito del viaggio non è mai garantito, (…) sempre e comunque il viaggio sortisce un suo esito nella trasformazione interna del viandante pellegrino».[6]
Niente paura dunque di fronte alle minacce di fuga dei preadolescenti: non stanno (solo) mettendo alla prova i nervi dei genitori, per quanto siano profondamente convinti di quello che dicono. Danno voce ad un impulso fisiologico e sano. Annunciano che il cordone deve allentare la presa. Stanno scaldando i motori per iniziare i giri di prova ed esplorare la realtà esterna. In fondo consentono in questo modo anche agli adulti di casa di prepararsi. Questa progressiva distanza dal nucleo di affetti in cui «si sono fatti le ossa» è conquistata a colpi di provocazioni e stizze, piccole trasgressioni e esagerate insofferenze; e in genere la forza che oppongono ai genitori è direttamente proporzionale e rivelativa del potere d’attrazione dell’affetto che provano per loro. Scandalizzarsi, contrastarli, o mostrarsi arrabbiati, feriti…, non solo non serve, ma rafforza la loro posizione. È giusto prenderli sul serio, ma senza drammatizzare. Il registro dell’ironia, qualora risulti a portata di mano, può sortire un distensivo effetto decongestionante. Ma soprattutto qualche opportuno affondo negli archivi della propria memoria, può fornire prove certe che di fronte a risolute dichiarazioni di indipendenza e di partenze verso luoghi ameni – o semplicemente verso altre famiglie, magari quelle dei nonni o di amici – difficilmente il proposito si è trasformato in azione. Anche perché, a ben vedere, alla verifica del principio di realtà sfugge il «come» concretamente si affronta e si dà seguito a una partenza.
Una volta di più emerge l’importanza di mettersi in cammino insieme ai ragazzi in crescita, con quell’ampiezza di mente che dà colore e calore alla comprensione, che permette di ergersi al di sopra delle convenzioni e dei luoghi comuni per interrogare più liberamente l’esperienza, per guardare alla concretezza della quotidianità come superficie di una profondità inesauribile. Educare in questa prospettiva significa oltrepassare la soglia dei confini abituali – che anche in una casa si dilatano e si restringono, proprio come i divieti e i liberi accessi che si concentrano attorno a una camera – per puntare intenzionalmente alla scoperta di quelle aspettative, desideri, linguaggi di cui ragazzi e ragazze sono portatori, e che attendono dagli adulti ascolto e considerazione.
Chi ascolta fa da coscienza all’altro aiutandolo a trovarsi. Perché non è necessario percorrere chilometri per negarsi alla presenza, ma è possibile perdersi anche nel chiuso di una stanza.

 

RAGAZZI ED EDUCATORI IN AZIONE

Educatori in ricerca
«Nella stanza con i ragazzi»

Ascolto della canzone di Gino Paoli Il cielo in una stanza

Quando sei qui con me
questa stanza non ha più pareti
ma alberi, alberi infiniti.
Quando sei qui vicino a me
questo soffitto viola
no, non esiste più...
Io vedo il cielo sopra noi
che restiamo qui, abbandonati
come se, se non ci fosse più
niente, più niente al mondo.
Suona un’armonica:
mi sembra un organo
che vibra per te e per me
su nell’immensità del cielo

Riflettiamo assieme
– Quando vivo la relazione educativa come cambia e si connota lo spazio circostante? («Quando sei qui con me questa stanza…»)
– Come gli spazi influenzano la mia relazione con i ragazzi?
– Cosa può significare entrare nella camera di una persona?
– Quali attenzioni educative e di cura maturare per entrare nello spazio fisico ed emotivo dell’altro?

I preadolescenti si interrogano
«La casa dov’è?» (proposta operativa)

Ascolto della canzone di Lorenzo Jovanotti, Questa è la mia casa, L’albero (1997)

O signore dell’universo
ascolta questo figlio disperso
che ha perso il filo e non sa dov’è
e che non sa neanche più parlare con te.
Ho un Cristo che pende sopra il mio cuscino
e un Buddha sereno sopra il comodino
conosco a memoria il Cantico delle Creature
grandissimo rispetto per le mille sure
del Corano; c’ho pure un talismano
che me l’ha regalato un mio fratello africano
e io lo so che tu da qualche parte ti riveli
che non sei solamente chiuso dietro ai cieli
e nelle rappresentazioni umane di te
a volte io ti vedo in tutto quello che c’è
e giro per il mondo tra i miei alti e bassi
e come Pollicino lascio indietro dei sassi sui miei passi
per non dimenticare la strada che ho percorso fino ad arrivare qua
e ora dove si va adesso
si riparte per un’altra città.
Voglio andare a casa LA CASA DOV’È???
La casa dove posso stare
Io voglio andare a casa LA CASA DOV’È???
La casa dove posso stare in pace con te.
O Signore dei viaggiatori
ascolta questo figlio immerso nei colori
che crede che la luce sia sempre una sola
che si distende sulle cose e le colora
di rosso di blu di giallo di vita
dalle tonalità di varietà infinita
ascoltami proteggimi
ed il cammino quando è buio illuminami
sono qua in giro per la città
e provo con impegno a interpretare la realtà
cercando il lato buono delle cose
cercandoti in zone pericolose
ai margini di ciò che è convenzione
di ciò che è conformismo di ogni moralismo yeahhh
e il mondo mi somiglia nelle sue contraddizioni
mi specchio nelle situazioni
e poi ti prego di rivelarti sempre in ciò che vedo
io so che tu mi ascolti anche se a volte non ci credo
Voglio andare a casa LA CASA DOV’È???
La casa dove posso stare
Io voglio andare a casa LA CASA DOV’È???
La casa dove posso stare con pace con te.
O Signore della mattina che bussa sulle palpebre quando mi sveglio
mi giro e mi rigiro sopra il mio giaciglio
e poi faccio entrare il mondo dentro me
e dentro al mondo entro fino a notte
barriere confini paure serrature
cancelli dogane e facce scure
sono arrivato qua attraverso mille incroci
di uomini di donne di occhi e di voci
il gallo che canta e la città si sveglia
ed un pensiero vola giù alla mia famiglia
e poi si allarga fino al mondo intero
e poi su vola alto fino al cielo
il sole la luna e Marte e giove
saturno coi suoi anelli e poi le stelle nuove
e quelle anziane piene di memoria
che con la loro luce hanno fatto la storia
gloria a tutta l’energia che c’è nell’aria
Questa è la mia casa LA CASA DOV’È
la casa dove posso portar pace
Io voglio andare a casa la CASA DOV’È
Questa è la mia casa LA CASA DOV’È
la casa dove posso stare in pace con te.

Riflettiamo assieme
- Cosa sta cercando l’autore della canzone? Cosa intende per «casa»?
- Quali gesti e azioni compie in questa ricerca? Quali espressioni ti colpiscono maggiormente?
- Perché si sente disperso e disorientato? Ti senti vicino al suo stato d’animo? Perché?
- Ti è mai capitato di provare il desiderio di «tornare a casa»? In che senso? In che occasione? Racconta…

I preadolescenti si interrogano
«Viaggio intorno alla mia camera» (proposta operativa) [7]

Lettura di stralci letterari di Xavier De Maistre, Viaggio intorno alla mia camera (a cura di C. Geraci), Moretti e Vitali, Bergamo, 1999.

Riflettiamo assieme
- Descrivi la tua stanza, gli oggetti che ci sono, la loro disposizione, i ricordi e le sensazioni che ti suscitano?
- Se dovessi compiere un viaggio nella tua stanza, da dove partiresti e dove vorresti arrivare?


NOTE

[1] M. Ruggenini, «La terra e la metropoli», in E. Mucci, P. Rizzoli (a cura di), L’immaginario tecnologico metropolitano, Angeli, Milano, 1991, p. 75.
[2] J. Baudrillard, Il sistema degli oggetti, Bompiani, Milano, 2003.
[3] V. Iori, Lo spazio vissuto. Luoghi educativi e soggettività, La Nuova Italia, Firenze, 1996.
[4] M. Contini, La comunicazione intersoggettiva fra solitudini e globalizzazione, La Nuova Italia – R.C.S., Milano, 2002, p. 30.
[5] U. Galimberti, L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani, Feltrinelli, Milano, 2007, p. 167.
[6] M. T. Moscato, Il viaggio come metafora pedagogica, La Scuola, Brescia, 1994, p. 104.
[7] Tratto da A. Augelli, Erranze. Attraversare la preadolescenza, Franco Angeli, Milano, 2011, pp. 31-32.