Incanti di libertà o passioni tristi? /7
Paolo Zini
(NPG 2012-03-49)
«Nel disperato tentativo di opporsi
all’intelligenza della natura, che,
per la sopravvivenza della specie,
vuole l’inesorabile declino degli individui,
chi non accetta la vecchiaia è costretto
a stare continuamente all’erta per cogliere di giorno in giorno
il minimo segno di declino.
Ansia, ipocondria e depressione diventano
le malefiche compagne dei suoi giorni,
mentre sue ossessioni sono lo specchio, la bilancia,
la dieta, la palestra, la profumeria,
e quanto può dare l’illusione di ridurre
la distanza dalla giovinezza».[1]
Il mito della giovinezza, del quale queste parole di U. Galimberti sottolineano alcune tra le più evidenti implicanze, contribuisce in modo significativo a determinare la fisionomia delle società occidentali contemporanee.
Il rapporto con il tempo che soggiace alla mitizzazione della giovinezza chiede però riflessione: troppi e pericolosi sono gli equivoci che l’abitano.
A cosa l’uomo si aggrappa, aggrappandosi alla giovinezza?
Se tale mito ha i caratteri del sogno impossibile, quali sono le ragioni della sua fortuna e del suo potere seduttivo per la libertà?
Sempre secondo Galimberti, la mitizzazione della giovinezza riflette il carattere patologico del rapporto collettivo a tre indici di significato, considerati oggi essenziali per la qualità dell’esistere: quello biologico, quello estetico e quello economico.
La particolare figura, l’assolutizzazione e l’esclusività del reciproco riferimento di tali indici, per la determinazione della significatività della vita, crea il mito della giovinezza, per la massimizzazione in essa possibile dell’efficienza biologica, dell’apprezzabilità estetica e della produttività economica.
Non è però difficile riconoscere come ciascuna di queste massimizzazioni, autorizzate dalla giovinezza e inibite da altre età della vita, sia caratterizzata da una forma ambigua di rapporto della libertà al tempo: l’insofferenza per la sua distensione e il desiderio di consegnare all’immediatezza del presente tanto il futuro, onde cancellare la fatica dell’attesa, quanto il passato, quasi a scongiurare ogni decadimento.
È accanita la lotta contro la distensione temporale, lotta implicata nella mitizzazione della giovinezza, nonostante le sue possano essere vittorie solo momentanee e illusorie.
Neppure l’alleanza di fitness e cosmesi è in grado infatti di arrestare lo scorrere del tempo, con i suoi riflessi sui parametri di valutazione dell’esperienza vitale tanto idolatrati socialmente: l’efficienza, l’apparenza e la produttività.
La lotta contro il tempo alterna così improbabili battaglie a sconfitte risentite, mentre inarrestabile dilaga l’analfabetismo della libertà, che si condanna alla sterilità dell’insoddisfazione, impaurita o nostalgica, quando non impara a raccogliere la sfida della temporalità.
È importante allora riflettere sulle forme più avvilenti e paralizzanti di esistenza prodotte da una libertà incompetente quanto alla propria vocazione temporale, forme le cui contraddizioni possono istruire, forse loro malgrado, sulla promessa inscritta nell’esistere come intreccio fecondo, nel presente, di passato e futuro.
Trattenere e intrattenere: cliniche e tv
Una prima forma di esperienza del tempo, capace di paralizzare la libertà, trova efficace descrizione in un breve racconto di Buzzati [2] dal titolo Sette piani.
Vi si narra la vicenda di tale Giuseppe Corte, colpito da un lieve disturbo fisico e ricoverato presso una clinica, celebre per efficienza e qualità di servizio, ottimizzate da una rigorosa organizzazione in sette reparti.
Unica è la patologia per la quale la clinica è specializzata, e i reparti si differenziano solo per la crescente gravità dei sintomi accusati dai rispettivi pazienti.
Raggiunta la clinica a piedi e ricoverato al settimo piano, quello riservato a degenti che, come lui, sono in condizioni di salute tali da non destare preoccupazione alcuna, Giuseppe Corte sembra inesorabilmente risucchiato verso i piani inferiori della clinica, complice la fortuità degli eventi, la severità anonima del protocollo – nel quale la garanzia di ineguagliabile efficienza si muta nella maledizione di verdetti inflessibili – e la recrudescenza del male misterioso, esasperato dall’angoscia di una progressiva distanza dal mondo dei sani.
Quella di Buzzati è una cupa metafora della vita, come progressivo e inarrestabile precipitare attraverso un tempo privo di speranza; i sette piani di una clinica anonima, perché comune, universale, ospitano semplicemente l’uomo, aggredito dal fluire temporale che lo costringe ad allentare la presa sulla propria vita che va sbriciolandosi tra le sue stesse mani.
La costruzione letteraria restituisce una temporalità tipica dell’esistere attraverso la geografia dei piani di un edificio che inghiotte i suoi malcapitati ospiti, li condanna alla separazione dal mondo, polverizzandone le illusioni e producendo un isolamento mortale attraverso lo spettro della profondità e del buio:
«Uscita che fu l’infermiera, passò un quarto d’ora di completo silenzio. Sei piani, sei terribili muraglie, sia pure per un errore formale, sovrastavano adesso Giuseppe Corte con implacabile peso. In quanti anni, sì, bisognava pensare proprio ad anni, in quanti anni egli sarebbe riuscito a risalire fino all’orlo di quel precipizio? Ma come mai la stanza si faceva improvvisamente così buia? Era pur sempre pomeriggio pieno. Con uno sforzo supremo Giuseppe Corte, che si sentiva paralizzato da uno strano torpore, guardò l’orologio, sul comodino, di fianco al letto. Erano le tre e mezzo. Voltò il capo dall’altra parte, e vide che le persiane scorrevoli, obbedienti a un misterioso comando, scendevano lentamente, chiudendo il passo alla luce». [3]
Le immagini di Buzzati rimarcano una figura di temporalità capace di imprigionare la libertà: si tratta di un presente disperante, ridotto a groviglio di nostalgia e angoscia; nostalgia di un passato sempre più lontano e angoscia di un futuro buio e sempre più incombente.
Esistere diventa sinonimo di un trattenere impossibile: l’impotenza della libertà può opporre all’ingordigia della consunzione solo la propria rabbia e il proprio sfinimento.
Dietro l’apparenza di vitalità e dinamismo, la percezione della in-trattenibilità del tempo descritta da Buzzati è forte proprio nella società occidentale del benessere.
Ma paradossale è l’intrecciarsi delle sue fortune con quelle dell’industria dell’intrattenimento.
Non può lasciare indifferenti l’acquisizione di un profilo industriale da parte di due colossali agenzie collettive deputate l’una all’esorcizzazione della minaccia che pare inscritta nel trascorrere del tempo, l’altra ad un suo impiego assai prossimo allo spreco.
La bramosia umana desidera fermare il tempo per disporne appieno o ne ritiene insopportabile la durata e cerca aiuto per accelerarne il trascorrere?
Sembra proprio trattarsi non di un’alternativa, ma piuttosto di una paradossalità della condotta, comprensibile a partire dalla difficoltà che un rapporto corretto con il tempo rappresenta per l’uomo.
Questa forse è la verità: condensano simbolicamente un rapporto malato al tempo tanto le multinazionali del salutismo che quelle dell’intrattenimento.
Le prime commerciano l’illusione di arrestare o almeno rallentare il fluire temporale, le altre lucrano sui godimenti che ne accelerano il fluire, altrimenti tedioso nella sua lentezza.
Evidente però è l’evanescenza dei risultati che quelle industrie sanno realizzare, a dispetto del volume d’affari che ne decide la fortuna.
E certo non sono scuole di felicità, quelle che esse offrono alla libertà.
Il deserto dei Tartari: la battaglia della speranza
Il capolavoro di Buzzati, Il deserto dei Tartari, rispetto al racconto di Giuseppe Corte già considerato, fornisce altri significativi spunti sul senso del tempo e sull’impegno della libertà umana a rapportarvisi con fecondità.
È Buzzati stesso a rivelare che la vicenda narrata nel romanzo non è mero frutto di fantasia, ma il riflesso di un’esperienza personale che ha tutti i requisiti per assurgere a metafora di una figura di libertà impegnata nella sfida della vita:
«Probabilmente tutto è nato nella redazione del Corriere della Sera. Dal 1933 al 1939 ci ho lavorato tutte le notti, ed era un lavoro piuttosto pesante e monotono, e i mesi passavano, passavano gli anni e io mi chiedevo se fosse andata avanti sempre così, se le speranze, i sogni inevitabili quando si è giovani, si sarebbero atrofizzati a poco a poco, se la grande occasione sarebbe venuta o no, e intorno a me vedevo uomini, alcuni della mia età altri molto più anziani, i quali andavano, andavano, trasportati dallo stesso lento fiume e mi domandavo se anch’io un giorno non mi sarei trovato nelle stesse condizioni dei colleghi dai capelli bianchi già alla vigilia della pensione, colleghi oscuri che non avrebbero lasciato dietro di sé che un pallido ricordo destinato presto a svanire». [4]
Dall’esperienza del tempo vissuta da Buzzati, non lontana da quella di ogni uomo, nasce la figura di Giovanni Drogo: ventunenne tenente di prima nomina, destinato alla Fortezza Bastiani, presidio di confine di storica importanza per la difesa dalle incursioni dei Tartari.
La gloria antica della fortezza non impedisce che Drogo vi trascorra anni privi di prospettive, per l’assenza di nemici e di battaglie, assenza che fiacca i sogni di gloria ed eroismo degli ufficiali lì distaccati.
Buzzati regala al lettore descrizioni minuziose dell’animo di Drogo, la cui battaglia non è con i Tartari, ma con il tempo: la percezione della sua distensione produce nell’animo del giovane tenente l’impazienza di chi attende dal futuro l’evento risolutivo nel quale dar prova di sé e incassare la posta in gioco della faticosa sfida della vita.
L’attesa ininterrotta non tarda però a farsi snervante; il tempo si rivela incapace di offrire la novità e l’occasione sperata, e diviene luogo di una sofferta inquietudine:
«Drogo sentì più acuta la solita ansia, invano cercava di scacciarla pensando alla propria giovane età, ai moltissimi anni che gli rimanevano. Il tempo, inesplicabilmente, si era messo a correre sempre più veloce, inghiottiva uno sull’altro i giorni». [5]
L’attesa dei Tartari offre una rappresentazione plastica del mistero della temporalità, posta sotto il segno di una speranza intravvista nel futuro.
A differenza del paziente Giuseppe Corte, che affondando verso i piani inferiori della clinica dalla quale si attende salute, vede allontanarsi il bene della propria integrità e farsi incombente la catastrofe finale, il tenente Giovanni Drogo proteso verso un futuro di gloria ne vede smentita la promessa da un presente di monotonia e grigiore.
Se nella clinica che conduce alla morte è il passato a tradire il presente, abbandonandolo a se stesso, nella fortezza Bastiani è il futuro a tradire il presente non anticipandovi alcuna promessa.
E se il tradimento operato dal passato rende angoscioso per Giuseppe Corte un futuro incombente, la menzogna di un futuro mancato semina nell’animo del tenente Drogo la delusione per il tempo inutilmente e irrimediabilmente passato.
Nella vicenda di Drogo è riconoscibile una forma di rapporto della libertà al tempo più audace e convincente di quella impersonata da Giuseppe Corte, fiaccato dalle sue paure e dai suoi mali.
Ma questo non basta a fare della giovinezza e della maturità del comandante della fortezza Bastiani una figura riuscita di esistenza.
È la morte del tenente Drogo, ormai vecchio e lontano dalla Fortezza che ne aveva conosciuto il vigore giovanile, ad assicurare alla sua esistenza dimessa un epilogo non privo di gloria, a conferma di una libertà fattasi virile e nutrita di nuova speranza.
Tempo della promessa e promessa del tempo
Proprio l’epilogo del deserto dei Tartari può offrire lo spunto per sondare un rapporto al tempo differente da quelli rappresentati dalla stizza del paziente Giuseppe Corte o dall’ansia dell’aitante Giovanni Drogo.
La vera battaglia del comandante della fortezza Bastiani si combatte sul campo dell’anima e nella solitudine della responsabilità personale, che non è surrogabile da alcuna delega di rappresentanza interumana.
È molto bella, nel suo sapore liturgico, la descrizione che Buzzati fa della morte di Drogo; in essa viene a parola un’esperienza nuova, più matura, per molti aspetti convincente, circa il senso del tempo per l’uomo:
«Oh, è una ben più dura battaglia di quella che lui un tempo sperava. Anche vecchi uomini di guerra preferirebbero non provare. Perché può essere bello morire all’aria libera, nel furore della mischia, col proprio corpo ancora giovane e sano, fra trionfali echi di tromba; più triste è certo morire di ferita, dopo lunghe pene, in un camerone d’ospedale; più melanconico ancora finire nel letto domestico, in mezzo ad affettuosi lamenti, luci fioche e bottiglie di medicine. Ma nulla è più difficile che morire in un paese estraneo ed ignoto, sul generico letto di una locanda, vecchi e imbruttiti, senza lasciare nessuno al mondo. “Coraggio, Drogo, questa è l’ultima carta, va incontro alla morte da soldato e che la tua esistenza sbagliata almeno finisca bene. Vendicati finalmente della sorte, nessuno canterà le tue lodi, nessuno ti chiamerà eroe o alcunché di simile, ma proprio per questo vale la pena. Varca con piede fermo il limite dell’ombra, diritto come a una parata, e sorridi anche, se ci riesci. Dopo tutto la coscienza non è troppo pesante e Dio saprà perdonare”». [6]
Risuona, nel monologo di Drogo, la coscienza di un giudizio cui il vecchio tenente – ma, come lui, ogni uomo – è chiamato a sottoporsi, un giudizio circa la verità di sé che il presente reclama quando ha una densità particolare: quella che gli assicura la morte, come raccoglimento, concentrazione del passato e del futuro.
Non è piccola la lezione: davanti alla morte, Drogo deve misurarsi con la propria verità, essendogli sottratte da un presente ultimo e definitivo le possibilità di fuga dell’idealizzazione di sé nelle lontananze del passato o del futuro.
È questo presente cruciale a consegnare alla libertà di Drogo il suo dono: luogo di avvento della propria verità come dignità, come bellezza, addirittura come riscatto di una vita apparentemente modesta, se non fallita.
È di ogni uomo la tentazione di impegnare la libertà nel sogno di un futuro ignoto o nella nostalgia di un passato lontano, fuori dal riferimento al dono del presente, troppo temuto – forse – per il profilo severo della sua verità.
Ma Giuseppe Corte e il giovane Drogo insegnano: la distrazione dal presente è illusoria; tradirne la promessa attraverso fughe avventate nel passato e nel futuro, obbedienti alla malia di rappresentazioni irreali di sé, è paralizzare la libertà.
In un simile atteggiamento, proprio il passato e il futuro, costretti ad abitare il presente che vorrebbero fuggire, dopo averne silenziato la promessa ne patiscono la minaccia.
Il presente inascoltato non può che perseguitare ogni memoria, riducendola a nostalgia impotente di ricchezze perdute, e ogni sogno, richiamandolo all’inconcludenza della sua velleità.
È invece il dono del presente, riconosciuto nell’esercizio della memoria buona del passato, a rinvigorire la speranza del futuro e a fare del tempo l’orizzonte di un’adesione felice alla verità sempre rinnovata di sé.
Dunque?
Nel fluire del tempo la libertà umana si vede offrire l’orizzonte congeniale alla scrittura della propria storia.
Lungi però dal ridursi a mera cronologia di giorni e stagioni, la temporalità si fa incontro all’uomo mettendone alla prova la maturità.
La fatica del presente, nel quale si incontrano opportunità immediatamente accessibili, memorie del passato trascorso e speranze di un futuro a venire, può ispirare la fuga in vaghe nostalgie o la rincorsa di attese illusorie che finiscono con l’imprigionare la libertà.
Soltanto quando obbedisce alla propria serietà e alla propria misura, la libertà impara ad accogliere la sfida e l’opportunità che le sono offerte dal presente.
In esso infatti si rende disponibile in forma sempre nuova un passato da risignificare, fuori da ogni nostalgia, e un futuro cui obbedire, fuori da ogni velleità.
E proprio nel presente l’esistere rinnova l’offerta – nella misura sommessa della sua ferialità – di nuovo cimento per la libertà, autorizzandola a decidere ancora di sé.
La ferialità di tale misura non solo non impedisce, ma addirittura sa sempre propiziare all’uomo il rinnovamento del senso del proprio passato come avvento di un futuro di pienezza.
NOTE
1) U. Galimberti, I miti del nostro tempo (Serie bianca), Feltrinelli, Milano 2009, 45.
2) La prosa di Dino Buzzati (Belluno 1906-1972) ha passaggi di notevole efficacia e profondità circa il rapporto tra le possibilità della libertà, lo scorrere del tempo e gli orizzonti dell’esistere umano, che si impongono ad ogni individualità con il loro corredo di fatica e speranza, di solitudine e socialità, di fioritura e di declino.
3) D. Buzzati, Sette piani, in Id., Sessanta racconti (Scrittori italiani e stranieri), Arnoldo Mondadori, Milano 19774, 33-51, qui 50-51.
4) Si possono leggere le parole di questa intervista all’Autore nelle pagine introduttive di D. Buzzati, Il deserto dei Tartari (Oscar Mondadori 48), Mondadori, Milano 1973, 11-12.
5) D. Buzzati, Il deserto dei Tartari…, 209.
6) D. Buzzati, Il deserto dei Tartari…, 254.