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    La Costituzione «Lumen Gentium»


     

    Vaticano II e i giovani /1

    Luis A. Gallo

    (NPG 2012-02-36)


    Che il Vaticano II sia stato un concilio centrato sul tema della Chiesa è cosa facile da constatare. Basta leggere i suoi sedici documenti, e particolarmente le sue quattro grandi Costituzioni, per convincersene. Ma aiuta anche a capirlo la conoscenza, sia pure molto succinta, di quanto avvenne nel primo periodo della sua celebrazione (anno 1962). In esso, oltre all’entusiasmo quasi carismatico regnante tra i suoi partecipanti, si verificò una situazione di preoccupante sconcerto nei confronti del cammino da seguire. Due autorevoli interventi, uno del card. Leo Suenens di Malines-Bruxelles e l’altro del card. Giovanni Battista Montini di Milano, contribuirono provvidenzialmente a dare l’orientamento globale all’intero corso successivo del Concilio: «Chiesa, cosa sei?», «Chiesa, cosa devi fare?», furono le due domande che instradarono l’intera riflessione conciliare.

    BREVI CENNI STORICI

    Una serie di fattori avevano preparato i partecipanti a una profonda metamorfosi ecclesiologica. Alcuni nell’ambito della Chiesa stessa, altri in quello della società umana, divenuta sempre più autonoma nei confronti della Chiesa e della fede cristiana in generale.
    Tra i primi vanno menzionati i diversi movimenti sorti un po’ dappertutto tra i cristiani a partire dalla seconda metà del secolo XIX. Sono, concretamente, il movimento di ritorno alle fonti bibliche e patristiche, il movimento liturgico, il movimento ecumenico, quello missionario e i diversi movimenti laicali. Ognuno di essi contribuì in maggior o minor misura a smuovere concezioni e comportamenti profondamente radicati, e a creare delle sensibilità nuove.
    Tra i secondi vanno annoverati il fenomeno della personalizzazione, che si espresse anche in diverse correnti filosofiche, e il fenomeno della crescente socializzazione. Erano sorti nella società occidentale, ma il loro impatto all’interno della Chiesa fu indiscutibilmente rilevante.
    Effetto globale di questo insieme di fattori fu lo spostamento nell’ottica ecclesiale che permeò l’intero andamento del Concilio, e di conseguenza anche l’elaborazione dei suoi documenti.
    Motivi storici largamente conosciuti avevano portato, sin dal sec. IV, ad assumere una prospettiva accentuatamente societaria e istituzionale nel modo di concepire, di sentire, di vivere e di organizzare la Chiesa. Gli ultimi due concili ecumenici prima del Vaticano II, quello di Trento (sec. XVI) e il Vaticano I (sec. XIX), avevano orientato ulteriormente le loro riflessioni sulla Chiesa in quella direzione. Ne risultava una Chiesa che, pur senza dimenticare le sue componenti più interiori e mistiche, rimarcava prevalentemente quelle esteriori e organizzative. Di tale accentuazione erano una chiara espressione la strutturazione piramidale della Chiesa stessa, la separazione tra chierici e laici, il modo di concepire e di esercitare in essa l’autorità, la tendenza all’omologazione nel rapporto tra Chiesa universale e Chiese particolari, la concezione riduttiva della salvezza, la prevalenza del criterio integrista nei rapporti con gli altri cristiani, e una concezione teocratica del rapporto con le realtà del mondo.
    Tutto questo insieme di cose entrò in crisi al momento della celebrazione del Vaticano II, per via della sensibilità profondamente cambiata di molti dei suoi membri. È anche questa la ragione per cui, tra i primi schemi preparati per la discussione conciliare e la Costituzione Lumen Gentium approvata il 21 novembre 1964 con 2151 voti a favore e 5 contrari, la diversità è notevole. È sufficiente affacciarsi agli Atti del Concilio per averne una facile conferma.

    I PRINCIPALI CONTENUTI

    Raccogliamo molto sinteticamente i principali contenuti di detta Costituzione, supponendo sufficientemente conosciuta la sua struttura, che comprende sette capitoli propriamente ecclesiologici e un ottavo, aggiunto dopo travagliate discussioni, sulla Vergine Maria.

    L’idea centrale

    Il nucleo della Costituzione è senz’altro il passaggio da una concezione di Chiesa come istituzione a una concezione di Chiesa come comunione. Il capitolo I del documento porta come titolo «Il mistero della Chiesa», e quale piattaforma di tutto ciò che seguirà in esso, afferma che questa realtà umana che chiamiamo Chiesa è frutto di una decisione eterna del Dio Uno e Trino e della sua azione nella storia, e ha come vocazione fondamentale quella di far presente in maniera trasparente nel mondo il modo divino di essere, quello della comunione di diversi nell’amore.
    Il numero 4b di questo primo capitolo con cui si conclude, mediante la citazione di un celebre testo di S. Cipriano, l’accenno all’agire del Padre, del Figlio Gesù Cristo e dello Spirito Santo nella storia della salvezza, costituisce una delle espressioni più dense e allo stesso tempo più programmatiche di tutta la nuova impostazione assunta. Essa viene a dire, in definitiva, che c’è Chiesa dove c’è comunione tra le persone e con Dio, una comunione che affonda le sue radici nella fede in Cristo e si modella a partire da essa.
    Orbene questa Chiesa, così costituita, è chiamata, secondo la Costituzione, ad essere in Cristo un sacramento di salvezza per il mondo intero. Ciò vuol dire che essa è suscitata da Dio per essere, anzitutto, un segno luminoso della salvezza di tutti; un segno che, per non risultare vuoto, deve contenere in se stesso la salvezza che offre agli altri. E vuol dire, inoltre, che di tale salvezza la Chiesa deve essere anche strumento. Significare e produrre la salvezza in mezzo al mondo e, quindi, la sua suprema ragione d’essere.
    Ma quale salvezza? La risposta evidenzia una seconda novità proposta dal documento, che è senza dubbio effetto dei fattori a cui abbiamo accennato anteriormente. La Costituzione abbandona, infatti, una concezione plurisecolare – e in altri tempi indiscutibilmente feconda - di salvezza, frutto dell’inculturazione della fede in un orizzonte di tipo ellenistico, quella che la pensava come un «andare in cielo», per abbracciarne un’altra, che viene enunciata come «intima unione con Dio e unità di tutto il genere umano» (n. 1). Sarà anche questa rinnovata concezione della salvezza che le permetterà di riconoscerne e accettarne la presenza non solo tra gli altri cristiani non cattolici e tra gli altri credenti in Dio, ma addirittura tra gli atei di buona volontà (n.16).
    Ancora un terzo aspetto innovativo va messo in luce all’interno di questa idea centrale della : la Chiesa mistero di comunione e sacramento di salvezza esiste nel mondo come «popolo di Dio» (cap. II). Ciò la mette in rapporto con la storia e le conferisce un carattere eminentemente dinamico. La ricollega, infatti, con la vicenda storica dell’antico popolo d’Israele, ma anche con la sua vocazione messianica, da realizzare dietro le orme di Colui che visse detta vocazione fino alle ultime conseguenze, lasciandola come eredità ai suoi discepoli (n.9). Radica qui, in ultima istanza, la sua vocazione all’universalità o cattolicità (nn.13-17), e anche il suo carattere escatologico (cap. VII).

    Altre idee importanti

    Insieme all’idea centrale della Costituzione, già di per sé molto pregnante, e in omogeneità con essa, ce ne sono altre non meno cariche di conseguenze. Esse hanno a che vedere con una serie di rapporti che conferiscono alla Chiesa, con il loro modo di concretizzarsi, la sua identità.

    Chiesa-Regno di Dio

    In primo luogo, si deve registrare un’innovazione nell’ambito del rapporto tra la Chiesa e il regno di Dio, che è indubbiamente il cuore della vicenda di Colui che è alle sue origini, Gesù di Nazareth. Per molti secoli tale rapporto fu visto in termini di identificazione. La Chiesa era il regno di Dio (o di Cristo) sulla terra; lavorare per il regno di Dio significava lavorare per impiantare, far crescere, estendere la Chiesa nel mondo, in vista del regno definitivo dei cieli. Con tutte le conseguenze che ciò comportava nei confronti della verità e della santità. Essere regno di Dio equivaleva a possedere tutta la verità e tutta la santità, e a ritenere ciò che non era Chiesa, ossia tutto il resto del mondo, come regno del peccato, della menzogna e del male. Una partizione, quindi, simile a quella che il popolo dell’antica alleanza aveva concepito in certi momenti della sua storia, quando considerò se stesso come «popolo santo» di Dio e gli altri popoli come «impuri», e cioè esclusi dalla benedizione e dalla promessa di Dio. Le ripercussioni che questa concezione aveva su certi atteggiamenti trionfalistici non sono difficili da immaginare. Ce ne sono delle tracce anche nell’arte, tanto nella pittura quanto nella scultura e nell’architettura.
    La Lumen Gentium ridimensionò tale rapporto, concependolo in un modo diverso: indicò la Chiesa come un germe (n.5c), e per di più imperfetto (nn.8c.48c) del regno di Dio. Riconobbe perciò la reale sproporzione che c’è tra detto regno, che esprime il piano di Dio e di Cristo per tutto il mondo, e la Chiesa reale. Questa è certamente santa, in quanto conta sulla presenza del Dio Uno e Trino, in quanto ha la Parola da Lui rivelata, in quanto possiede i sacramenti, segni della grazia, in quanto ci sono stati e ci sono in essa degli uomini e delle donne santi, a cominciare dalla Madre del Salvatore (cap.VIII); ma è anche costantemente bisognosa di purificazione, sia nell’ordine della verità che nell’ordine della santità. Essa porta in sé i segni dell’appartenenza a questo mondo di peccato, benché chiamata ad essere totalmente santa. D’altronde, non può pretendere di avere il monopolio né della verità né della santità, perché lo Spirito di Dio che le genera, agisce nel mondo intero, anche nel cuore di coloro che, pur non essendo arrivati a riconoscere Dio, si sforzano di condurre una vita giusta (n.16c). Nessun trionfalismo è quindi consentito a questa Chiesa, ma solo un senso di modestia e di responsabilità.

    I laici

    Una seconda innovazione da annotare la si ritrova nell’ambito del rapporto tra i membri della Chiesa. Abbiamo già rilevato che la concezione anteriore comportava una strutturazione piramidale della Chiesa stessa. A poco a poco essa si era andata modellando sulla struttura della società politica - quella imperiale prima, quella feudale o monarchica poi -, la quale si ispirava a una visione gerarchica del potere e della dignità. Così, il vertice - nel caso concreto il papa in quanto Vescovo di Roma - aveva finito per concentrare in sé il massimo del potere e della dignità, e le basi, ossia i cristiani laici o secolari, avevano finito per esserne in pratica completamente spogliati. Con una duplice conseguenza: prima, quella di dividere la Chiesa in due, ritenendo gli ultimi, i laici, cristiani «di seconda» nei confronti dei membri della gerarchia (e anche dei religiosi); seconda, quella di far pensare che in realtà la vera Chiesa è costituita dai pastori (tutt’al più anche dai religiosi e dalle religiose), mentre gli altri, i «semplici fedeli», sono invece quella massa informe chiamata genericamente «popolo di Dio».
    Ciò si rifletteva sia nell’ambito liturgico, dove i laici venivano considerati o si auto-consideravano come «clienti» dei ministri ordinati; sia in quello profetico, dove i semplici fedeli erano pensati e si ritenevano come una «Chiesa-che-impara» nei confronti della «Chiesa-che-insegna», costituita da coloro che conformavano il «Magistero»; sia ancora in quello regale o pastorale, dove i laici erano chiamati a sottostare docilmente alla conduzione dei pastori costituiti in autorità.
    La Lumen Gentium, appellandosi al fondamentale principio di comunione, modificò profondamente questo modo di concepire i rapporti tra i membri della Chiesa.

    * Un primo passo decisivo in questa direzione lo costituì l’articolazione stessa del documento. Contrariamente a come era stato organizzato negli schemi precedenti il Concilio, e per esplicita richiesta di numerosi Padri conciliari, il capitolo sul Popolo di Dio fu collocato immediatamente dopo quello sul mistero della Chiesa e prima di quello sulla costituzione gerarchica della Chiesa. Ciò non rappresenta solo un semplice fatto redazionale, ma rende visibile un profondo cambio d’ottica. Precisamente quel cambio per il quale si ritiene quale dato ecclesiologico primo l’appartenenza di tutti i battezzati, con parità di diritto e di dignità, alla comunione di vita e di missione della Chiesa, e solo quale dato secondo quello della diversità di vocazioni all’interno di tale parità.
    Ciò significa abbattere la piramide e mettere al suo posto il principio dell’uguaglianza radicale di tutti i membri della comunità ecclesiale, in modo tale che in essa nessuno sia al di sopra di nessuno in dignità (n.32). Solo dopo l’affermazione di questa uguaglianza, e senza intaccarla, va enunciato l’altro principio: nella Chiesa c’è una diversità, che è però diversità di servizio fraterno in ordine al bene di tutto l’organismo (nn.12.18.32. ecc.).
    Insieme a questo dato redazionale, che non è puramente tale, ce ne sono altri tre di singolare importanza. Il primo è la ripresa di un tema tanto antico quanto gli stessi scritti del N. Testamento, ma che per circostanze storiche era andato quasi perduto nella coscienza della Chiesa. È quello del sacerdozio comune o dei fedeli. Lutero ne aveva fatto in qualche modo un suo cavallo di battaglia, e ciò anche spiega la reazione della Chiesa tridentina e postridentina nei suoi confronti. Una volta superate le polemiche, il Concilio lo riprese e lo ripropose con decisione e senza mezzi termini. La Chiesa non è una comunità di sacerdoti consacrati che gestiscono riti sacri per delle persone profane; essa è tutta intera una comunità sacerdotale, nella quale il sacerdozio fondamentale è quello della comunità – un sacerdozio d’altronde «spirituale» (nn. 10.11.34a), che si esprime in tutti gli atti della vita e poi nella loro celebrazione nei riti –, al cui servizio si colloca un sacerdozio ministeriale che svolge il ruolo di presidenza.

    * Il secondo dato è quello segnalato nel n.12a della Costituzione. Si riferisce alla dimensione profetica dell’intera Chiesa, al suo rapporto con la verità salvifica rivelata da Dio mediante il Vangelo. In quel paragrafo si parla del «senso dei fedeli», e cioè della capacità che ha l’intera comunità dei credenti, quale dono dello Spirito Santo, di essere portatrice e annunciatrice fedele della Parola di salvezza. Benché non venga detto esplicitamente, ciò significa il superamento radicale di quel dualismo tra una Chiesa che insegna (ecclesia docens) e una Chiesa che impara (ecclesia discens). Tutta la Chiesa, secondo la Costituzione, attraverso tutti i suoi membri, è chiamata ad insegnare, e tutta la Chiesa, attraverso tutti i suoi membri, è chiamata a imparare la Parola del Vangelo di Cristo.
    Nessuno ha quindi il monopolio della verità rivelata. E questo è il fatto primo, incontestabile. Solo dopo, e senza nulla togliere ad esso, viene il fatto secondo, e cioè la diversità di servizi all’interno del ministero profetico, per via della quale alcuni sono chiamati a presiedere la comunità in questa linea (n.25). Essere costituiti nel «Magistero» della Chiesa, dice implicitamente il citato paragrafo, non significa diventare dei dispensatori di verità a persone interamente sprovviste di essa, ma viceversa animare l’intera comunità profetica nella ricerca della verità salvifica stessa.

    * Il terzo dato lo si trova in germe nel n. 12b, e poi esplicitamente sviluppato nei capitoli III, IV e VI della Costituzione. Si tratta dei carismi che lo Spirito distribuisce alla comunità. Il testo si ispira chiaramente alla dottrina di S. Paolo (1 Cor 12,7). Ora, dall’esame di questa tematica nei suoi scritti appare che per lui il carisma non costituisce né un qualcosa di straordinario e miracoloso, né un retaggio solo di alcuni. Esso è un fatto di per sé comune e universale all’interno della Chiesa, perché consiste nella chiamata e abilitazione date dallo Spirito in ordine al servizio dei fratelli. «Nessuno tutti e tutti qualcuno» potrebbe essere la frase che esprime il regime dei carismi. La Chiesa risulta essere, quindi, un insieme di servizi reciproci suscitati e sorretti dallo Spirito Santo in ordine alla sua propria edificazione. Una ulteriore ragione di uguaglianza radicale nella comunità ecclesiale.
    Solo dopo questa affermazione di una «carismaticità» universale e senza intaccarla minimamente, si può passare a considerare la diversità e l’ordinamento dei carismi. Si può dire che i tre capitoli sopra accennati corrispondono a tre gruppi di carismi accomunati da caratteristiche proprie: il capitolo III, al carisma di coloro che hanno il servizio di presidenza della comunità (n. 20c), e cioè i vescovi, i presbiteri e i diaconi; il capitolo IV al carisma dei laici o secolari; il capitolo VI al carisma dei religiosi. Naturalmente, all’interno dei singoli gruppi trova spazio una svariata quantità di diversificazioni.
    È notevole che, aprendo il capitolo dedicato alla «costituzione gerarchica della Chiesa» e prima ancora di parlare del ministero del papa, dei vescovi, dei presbiteri e dei diaconi, il Concilio abbia sentito il bisogno di ribadire con una certa solennità il carattere di servizio che ogni «sacra potestà» ha nella Chiesa (n. 18a). Come a dire che per ritrovare il vero senso evangelico di tale «potestà», bisogna fare a ritroso il cammino storico della Chiesa fino a collegarsi con i momenti iniziali, in cui le parole di Cristo risuonano con tutta la loro freschezza e con tutta la loro radicalità: «Chi vuole essere il più grande sia il servo di tutti» (Mc 10,43).
    Quasi a ribadire la globalità di questo superamento della strutturazione piramidale e della separazione tra chierici e laici nella Chiesa, la Costituzione volle dedicare un capitolo alla vocazione universale alla santità (capitolo V). La storia di tale capitolo è stata molto travagliata, ma la sua stessa attuale collocazione, sbocco di lunghe discussioni, sta ad indicare ancora una volta l’intenzione fondamentale del Concilio. Esso sta a dire che la condizione di tutti e ognuno dei membri della comunità ecclesiale è sostanzialmente uguale, chiamati come sono da Dio a vivere in pienezza la proposta evangelica fatta da Gesù Cristo. La diversità dei modi con cui va raggiunta tale pienezza non diminuisce in nulla tale uguaglianza.

    Le Chiese particolari: un modello comunionale di relazioni

    Una terza innovazione ecclesiologica della Lumen Gentium la troviamo nell’ambito del rapporto tra la Chiesa universale, che ha il suo centro nella Chiesa di Roma, e le Chiese particolari. Specialmente dopo il Concilio di Trento e come mezzo per arginare il rischio di disgregazione che la minacciava, la Chiesa cattolica rinforzò ancora ulteriormente la sua tendenza al monolitismo e alla uniformità, che comportava pure una forte tendenza alla centralizzazione. È indiscutibile che ciò ha contribuito a superare tale rischio. Non però senza conseguenze anche negative.
    L’idea di una Chiesa universale che poi si suddivide in amministrazioni minori (diocesi, parrocchie) fortemente vincolate e anche subordinate all’amministrazione centrale, si diffuse ampiamente. E, con essa, l’istanza all’uniformità nelle espressioni della fede, del culto, dell’organizzazione. I vescovi, almeno in Occidente, finirono per essere spesso pensati come vicari del papa, messi a capo di una parte della Chiesa per governarla in suo nome e con l’autorità da lui conferita. Una Chiesa, in definitiva, nella quale tutto viene stabilito sostanzialmente dall’alto, da chi è a capo della piramide del potere, e dove non c’è reale spazio per la propria originalità.
    La Lumen Gentium, sempre ispirata all’idea-guida della comunione, tratteggiò strade nuove in questo ambito. Non che abbia rifiutato l’idea di una Chiesa universale; ma, ritornando ai primi momenti della Chiesa e accogliendo anche la tradizione viva della ecclesiologia eucaristica orientale, propose un modello comunionale di relazioni anche nei confronti delle Chiese particolari (nn. 13.26). Concretamente, pensò la genesi dinamica della Chiesa a partire dal piccolo nucleo familiare visto come Chiesa domestica (n. 11d), passando per il gruppo di fedeli che si radunano attorno all’altare per celebrare l’Eucaristia (n. 26a), e per la Chiesa particolare presieduta da un vescovo (nn. 13d.23a.27a), fino alla Chiesa universale che risulta dalla comunione di tutte le Chiese particolari e che è presieduta dal Vescovo di Roma (n. 23a).
    La centralità uniformante venne quindi eliminata. Al suo posto si pose il principio della comunione nella diversità, che fa leva sulle due componenti di radice trinitaria: comunione fra diversi, diversi in comunione. Questo modo di vedere le cose ha il vantaggio di permettere ad ogni Chiesa particolare di vivere la sua ecclesialità secondo i suoi propri ritmi di crescita, le condizioni della sua ubicazione culturale e i problemi reali che tutto ciò comporta. E di viverli a sua volta non da sola, ma in rapporto fraterno con le altre Chiese sorelle, ricevendo e dando in uno scambio veramente arricchente. Non più, quindi, una visione delle diversità come minaccia, ma come potenziali ricchezze. Ha inoltre il vantaggio di far entrare in funzionamento il principio di sussidiarietà, che è l’opposto del centralismo. Non viene negato il bisogno di un centro – in questo caso la Chiesa di Roma, che fin dall’antichità ha svolto in qualche misura tale ruolo –, ma lo si ridimensiona in modo tale che permetta la giusta autonomia delle Chiese particolari.
    All’interno di questa prospettiva la Lumen Gentium mise in luce una componente ecclesiale di grande importanza per la vita di comunione dell’intera Chiesa: il Collegio episcopale (nn. 19.22.23). Fondata su ragioni bibliche e di tradizione, dichiarò che il ministero di presidenza delle Chiese locali, affidato ai vescovi, è un ministero regolato dal principio di comunione. I vescovi presiedono le loro rispettive Chiese in comunione con gli altri vescovi, comunione che presiede il Vescovo di Roma, e tutti insieme, con lui, presiedono la Chiesa universale. Così, la costituzione comunionale della Chiesa si esprime anche attraverso il modo di rapportarsi di coloro che ne hanno l’ultima responsabilità come carisma dato dallo Spirito (n.21).

    Il rapporto con gli altri cristiani

    Una quarta innovazione apportata dalla Costituzione riguarda l’ambito del rapporto della Chiesa cattolica con gli altri cristiani.
    Una lunga storia aveva portato a creare una situazione evangelicamente contraddittoria in questo contesto. La rottura tra le Chiese occidentale e orientale consumata nel secolo XI, e quella con i Riformatori nel secolo XVI, avvenute tutte e due in contesti fortemente polemici, avevano ingenerato atteggiamenti di accentuata ostilità reciproca tra le diverse confessioni cristiane. La nostra Chiesa gestiva la situazione all’insegna del principio integrista del «tutto o nulla», e di conseguenza considerava solo se stessa quale vera e unica Chiesa di Cristo, e riteneva le altre come non-chiese, come eretiche o almeno scismatiche. Le manifestazioni concrete di una simile presa di posizione sono ben conosciute.
    Il Vaticano II, raccogliendo i risultati positivi di decenni di sforzi fatti all’interno del movimento ecumenico, decise di impostare le cose diversamente. Ancora una volta il principio di comunione si rese fecondo. Anzitutto, riconobbe che la Chiesa cattolica, pur essendo vera Chiesa di Cristo, non esaurisce tutta l’ecclesialità, dal momento che esistono al di fuori di essa parecchi elementi di santificazione e di verità, che sono doni propri della Chiesa di Cristo (n.7b). E poi, dichiarò apertamente di essere per più ragioni congiunta con coloro che, in quanto battezzati, sono insigniti del nome cristiano benché non professino integralmente la fede o non conservino l’unità di comunione sotto il Successore di Pietro (n.15). Così la Lumen Gentium pose le basi per l’ulteriore documento – Unitatis Redintegratio – sull’ecumenismo, nel quale il principio conduttore non è già quello dell’integrismo, ma quello della gradualità della comunione (UR 3). Si aprirono in questo modo nuove strade nel rapporto con gli altri cristiani, imperniati su criteri più oggettivamente evangelici. Ancora una volta venne deposto ogni atteggiamento trionfalista, e si assunse invece un atteggiamento di modestia che riconosce i propri limiti pur senza misconoscere le proprie ricchezze.

    Chiesa e mondo

    Resta ancora da considerare un aspetto di non poca importanza, quello del rapporto tra la Chiesa e il mondo.
    Occorre riconoscere con oggettività che la nostra Costituzione non lo fece oggetto di una spiccata attenzione. Essa si concentrò prevalentemente su tematiche intra-ecclesiali, preoccupata come era di autodefinirsi come comunione, e di trarne le conclusioni nei diversi ambiti del suo essere, della sua organizzazione e del suo funzionamento interno.
    Abbiamo già detto anteriormente che il rapporto con il mondo è stato spesso vissuto in passato in una chiave teocratica. Il che vuol dire che la coscienza dell’autonomia propria delle realtà del mondo non era maturata ancora nei cristiani, i quali le consideravano come mezzi per raggiungere la loro finalità «spirituale», «eterna». Ciò spiega certi atteggiamenti assunti, quali la manipolazione sacrale e clericale della cultura (caso Galileo Galilei), del potere politico (caso Gregorio VII o Bonifacio VIII), ecc. Il mondo non veniva in realtà riconosciuto da essi nella sua consistenza propria, e lo si considerava al massimo un’occasione per la costruzione del regno di Dio.
    È nel capitolo IV, dedicato – per la prima volta nella lunga storia dei concili – ai cristiani laici, dove si possono trovare alcuni accenni germinali al tema. Già al n.31b, cercando di identificare la specificità della vocazione laicale, la Costituzione la ripone nella «indole secolare» della loro esistenza. Secolare dice rapporto a «secolo», a «mondo». In esso questi cristiani sono chiamati a svolgere prevalentemente la loro vocazione ecclesiale, che condividono sostanzialmente con gli altri membri della comunità credente. E sono chiamati a diventare fermento della santificazione del mondo. Poi, al n. 36, parlando della partecipazione dei cristiani laici alla funzione regale di Cristo, la ripone appunto nell’impegno di trasfigurare il mondo con la luce di Cristo affinché esso corrisponda al disegno del Creatore.
    Queste affermazioni, benché ancora germinali, fanno già intravedere un atteggiamento nuovo nei confronti del mondo: non più dominio e asservimento, ma rispetto e collaborazione. Non solo, si insiste anche sull’idea che coloro che operano nel mondo, tra le realtà «secolari» – e sono principalmente, benché non esclusivamente, i cristiani laici – debbano tener presente che tali realtà sono rette da principi propri che vanno rispettati adeguatamente.
    Così, attraverso la considerazione del carisma laicale, il mondo entra nell’orizzonte della Chiesa, ed entra con la sua consistenza propria, benché orientata al compimento del piano di salvezza.
    Occorre tuttavia riconoscere che nella Costituzione nel suo insieme il mondo resta ancora come estrinseco alla Chiesa, che la sua missione verso di esso non entra nella sua definizione. Detta missione è vista piuttosto come una specie di imperativo etico, e non come una componente costitutiva del suo essere. È questo – lo si deve dire con oggettività – il «tallone d’Achille» del modello di Chiesa, d’altronde così profondamente innovativo, della Lumen Gentium. Tale vuoto sarà posteriormente colmato dalla Costituzione pastorale Gaudium et Spes, che costituirà il punto più alto di maturazione del Concilio.

    LA RECEZIONE DELLA LUMEN GENTIUM

    Questa nuova impostazione ecclesiologica venne ampiamente recepita dalla Conferenza Episcopale Italiana nei documenti da essa elaborati nei decenni posteriori, come si può desumere già dal titolo stesso di molti di essi. Tali documenti contribuirono a dare un nuovo orientamento alla vita ecclesiale e alla prassi pastorale in molti aspetti. Anche se, guardando alla maniera concreta di pensare e di agire dei suoi membri, si deve dire che la concezione della Chiesa come istituzione è ancora più di una volta presente in esse.
    Per ciò che riguarda i giovani italiani, da alcune ricerche fatte in questi ultimi anni emerge che essi si aspettano fondamentalmente tre cose dalla Chiesa: la prima, che essa sia non una realtà primariamente istituzionale, in cui predominino i rapporti societari e verticistici, bensì una comunità dove tutti si accolgano e si aiutino vicendevolmente, pur nel rispetto della diversità; la seconda, che essa sia uno spazio dove non prevalga la subordinazione a un potere che decide per gli altri nei diversi aspetti della vita, ma dove si entri e si agisca liberamente e non per costrizione; la terza, che essa sia più vicina alla gente, ai suoi problemi e bisogni concreti, e in essa ci si impegni tutti in favore della gente.
    Non è difficile scorgere, nella proposta ecclesiologica della Lumen Gentium, un venire incontro alle due prime attese giovanili. Si tratta, in fondo, di un reclamo comunionale che è in linea con l’aspirazione della sensibilità culturale esistenziale e personalista germogliata all’interno del movimento della modernità. Tale movimento, come si sa, mise al centro dell’attenzione la persona umana, vista fondamentalmente come soggetto, ossia come autodeterminazione e autocreazione di sé, che può arrivare alla sua realizzazione solo passando attraverso l’intersoggettività, cioè attraverso l’autocomunicazione di sé ad altre persone, mediante la conoscenza e l’amore interpersonali. Solo nella comunione, che è fondamentalmente condivisione di se stessi, di ciò che si è prima ancora di ciò che si ha, si può raggiungere la propria autenticità e dare senso alla propria vita. Comunione nella libertà e nella diversità sono appunto due istanze che segnano prioritariamente la proposta ecclesiologica della Costituzione Lumen Gentium, e che si collocano chiaramente nella lunghezza d’onda dei giovani. Lì dove una tale proposta si è attuata, particolarmente mediante la creazione di veri gruppi ecclesiali, i giovani hanno trovato uno spazio in cui hanno potuto appagare le loro più profonde aspirazioni.
    La terza aspirazione, presente in quei giovani che hanno sentito il bisogno di aprire la comunione interpersonale a orizzonti più larghi, mettendosi al servizio dei bisogni dei più piccoli e poveri, ha invece avuto risposta solo lì dove, oltrepassando il modello di una Chiesa-comunione, si è cercato di ispirarsi al modello proposto dal Concilio più avanti, nella Costituzione Gaudium et Spes. In essa, infatti, venne tratteggiato il volto di una Chiesa più vicina alla gente, ai suoi problemi e bisogni concreti, totalmente e prioritariamente impegnata in suo favore.


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