Simone D’Agostino *
(NPG 2012-02-10)
Libertà, libertà, libertà! C’è chi la grida dal fondo delle strade di città soffocate da regimi repressivi, potendo opporre soltanto il suono di questa parola al rumore assordante dei cingolati; e chi la sbandiera dall’alto del palco dei comizi elettorali, illudendo la gente con speranze che sa già di non poter mantenere. Ognuno pretende di rivestirla del proprio colore. C’è il verde del velo delle ragazze di Teheran, e quello del fazzoletto dei giovanotti delle ronde padane; il viola della cravatta del giovane politico rampante inglese, e quello del bavaglio dei manifestanti a Roma contro l’ultima legge vergogna. Più spesso, però, la libertà si confonde col camouflage indefinito delle mimetiche dei militari impegnati nelle – cosiddette – «missioni di pace»; o si sparge col rosso tagliente del sangue dei martiri disposti a dare la propria vita per difenderla. In mezzo a tante contraddizioni, qual è il vero colore, quale la vera voce della libertà?
A chi provasse a spiegare cos’è la libertà, io suggerirei di cominciare – parafrasando una nota espressione di Aristotele – ammettendo anzitutto che «la libertà si dice in molti modi». E con ciò non voglio dare ragione a un altro celebre filosofo, Hegel, che nella Enciclopedia delle scienze filosofiche scriveva: «Di nessuna idea si sa così universalmente, che è indeterminata, polisensa, e adatta e perciò realmente soggetta ai maggiori equivoci, come dell’idea della libertà; e nessuna corre per le bocche con così scarsa coscienza». Infatti costui denunciava giustamente la radicale equivocità della libertà, ma allo scopo di ricondurre tutti i suoi diversi significati verso il solo concetto vero e autentico (lo Stato).
Ebbene, contrariamente a Hegel e a tutti quei pensatori che, in un modo o in un altro, hanno tentato di definire la libertà restringendola progressivamente verso un significato unico, io vorrei proporre un altro percorso.
Vorrei provare a verificare l’ipotesi che l’equivocità, ovvero la grande diversità di significati, non sia un attributo improprio della libertà. Perché forse la libertà è proprio così: equivoca, cioè ricca di molti e diversi significati.
Ancora più interessante, però, sarebbe scoprire se tale molteplicità di significati non cada in una «disseminazione di senso», una «mera omonimia» direbbe sempre il mio amico Aristotele, cioè tanti significati uno accanto all’altro senza alcun legame tra di loro. La seconda ipotesi, che mi piacerebbe accertare, è infatti se esista un qualche legame capace di tenere insieme i diversi significati della libertà, senza però confonderli o ridurli a un unico significato. In altre parole mi piacerebbe vedere se la ricchezza di significato della libertà si lasci articolare secondo una dialettica, ovvero secondo un percorso che unisca i diversi significati, salvando al contempo la loro molteplicità semantica di fondo.
Uno potrebbe chiedersi però: perché mai la libertà non si lascerebbe ridurre a un significato unico, né si lascerebbe frammentare in una dispersione di significati? Una risposta a questa domanda potrebbe essere la seguente: quando cerchi di capire veramente «il che cos’è» di una certa cosa, questo si lascia mostrare pienamente solo quando quel qualcosa è effettivamente «in atto», cioè nel pieno dispiegamento del proprio essere.
Nel caso della libertà, allora, dobbiamo osservare come si mostra la libertà in atto, ovverosia come è posta in atto da quel qualcosa di speciale che è l’uomo. Ciò significa che dobbiamo esplorare l’esercizio umano concreto della libertà nelle sue diverse forme, guidati da una domanda del genere: cosa fanno gli uomini e le donne che cercano la libertà? In altri termini, dobbiamo attraversare progressivamente lo sviluppo dinamico dell’effettivo esercizio della libertà.
Solo attraverso questo percorso potremo osservare per intero l’ampiezza e la ricchezza di significati della libertà. Solo così scopriremo se sarà possibile ricomporre l’equivocità della libertà, non a partire da una idea astratta, ma dalle sue effettive espressioni: dalla più semplice e immediata fino a quella più complessa e remota.
Infatti, come insegna il «maestro di color che sanno», in un’indagine è meglio partire da ciò che è maggiormente noto a noi, sebbene meno importante in sé, per giungere progressivamente a ciò che, pur essendo ultimo rispetto a noi, è primo in sé. Tra il primo e l’ultimo ci sono poi dei termini intermedi, i quali debbono succedersi dialetticamente l’uno dopo l’altro.
Questa successione, tuttavia, non deve avvenire secondo un’articolazione decisa dall’esterno, ma secondo il richiamo interno che ogni termine, con la sua compiuta insufficienza, fa al termine seguente, con la sua provvisoria pienezza. Il filosofo francese Maurice Blondel ha chiamato questo metodo una critica immanente.
Tutto questo, infine, senza che il termine ultimo esaurisca in se stesso la totalità della libertà, ma piuttosto raccolga tutti i termini precedenti in un complesso integrale e organico. Francesco Botturi ha efficacemente chiamato ciò l’organismo della libertà.
Le figure che vedremo delinearsi all’interno di tale organismo saranno, una dopo l’altra, scandite dalle preposizioni (da, di, per, con...) che, di volta in volta, ci aiuteranno a specificare i diversi significati di libertà. Partiremo dalla distinzione preposizionale più conosciuta – grazie soprattutto ai classici saggi di Isaiah Berlin – quella tra libertà da e libertà di.
Libertà da
Il significato più immediato di libertà, quello certamente anche più diffuso, è la libertà da. Innumerevoli uomini e innumerevoli donne sul nostro pianeta combattono anonimi ogni giorno per liberarsi da una qualche reale oppressione, sociale o individuale, culturale o naturale che sia.
Di questa immensa inarrestabile lotta arriva solo un’eco assai debole nelle nostre case benestanti attraverso lo schermo (in tutti i sensi) del televisore. Nelle nostre società occidentali, nel cosiddetto «primo mondo», conteso tra euforia e depressione, tra consumismo e paura, la libertà da si traduce spesso in una forma assai banalizzata e svenduta, la cui cifra quasi sempre si riduce a essere in fondo la «disinibizione»: libertà dai condizionamenti, dai preconcetti, dalle educazioni e in generale da ogni forma di autorità tanto esterna quanto interna.
Il prototipo di questa libertà sarebbe un eterno adolescente, costantemente dibattuto tra l’indolenza e l’anarchia. Massimizzando tale forma di libertà, si giunge infine alla libertà da tutto come unica vera libertà, il cui sfondo più veritiero è in realtà il «nulla» e l’esito più estremo il «suicidio» (incarnato in modo lancinante da Kirillov nei Demoni di Dostoevskij) perché in fondo la sponda più ardua da conquistare rimane, inesorabilmente, la libertà da se stessi.
Oggigiorno, tale libertà è da declinare piuttosto nella forma debole del «non prendersi mai troppo sul serio», forse uno dei pochi veri dogmi della cultura in cui viviamo, dove sembra che ogni forma di serietà sia di per sé votata al ridicolo.
Il modello classico per una tale forma di libertà resta l’esteta gaudente e raffinato, l’essayiste o, se volete, il don Giovanni mozartiano di kierkegaardiana memoria. Il modello odierno è impersonato esemplarmente dai protagonisti dei film di Muccino – da «L’ultimo bacio» a «Baciami ancora» – che passano dalla prolungata adolescenza del «giovane adulto» direttamente alla crisi di mezza età del quarantenne spaesato: senza che ci sia mai l’età adulta.
Il paradigma odierno si focalizza attorno al giovanilismo giubilante e ossessivo, che coinvolge tutta la società in una idolatria del corpo adolescente. Si tratta di una vera e propria religione secolare della giovinezza, che promette agli adulti, e sempre più anche agli anziani, una immediata quanto illusoria liberazione dalla morte: l’immortalità come salvezza terrena individuale.
L’essenza della libertà da è dunque la negazione: tanto più si è liberi quanto più ogni forma di vincolo, di laccio, di costrizione è allontanata, respinta o ancor meglio eliminata. Tuttavia, la negazione che apparentemente sembra esaurire l’intero orizzonte della libertà da cela al suo interno una contraddizione, perché persino il suicidio (es. Kirillov) rimane pur sempre attestazione estrema di un’affermazione: l’affermazione di sé. Infatti una tale negazione, anche quando rivolta contro se stessi, è pur sempre negazione di ogni causalità alla terza persona a tutto vantaggio della spontanea causalità alla prima persona. La negazione di cui si costituisce immediatamente la libertà da cela al suo interno la posizione implicita di «un qualcosa».
Capovolgendo un celebre assioma spinoziano, potremmo dire che, in questo caso, omnis negatio determinatio est, o in altri termini la libertà da, come semplice negazione, non è che la confermazione performativa del fatto che la radice di ogni libertà è l’autodeterminazione o libertà di.
Libertà di
Il capitolo II della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea individua le libertà cui ha diritto ogni individuo: la libertà di pensiero, di coscienza e di religione (art. 10); di espressione e di informazione (art. 11); e così via. Tutte queste enunciazioni indicano diverse forme d’agire caratterizzate tutte dalla capacità di, dal poter decidere di sé e autoconfigurarsi secondo un’iniziativa che ha l’origine in se stessi.
Secondo le parole di Immanuel Kant, nei Prolegomena, la libertà è «la facoltà di iniziare da sé (spontaneamente) la serie dei propri effetti». Una spontaneità pura che si oppone per definizione a ogni forma di passività e quindi, anzitutto, all’influsso delle passioni, delle emozioni o in generale all’impero dei sensi. Secondo quanto lo stesso Kant nella Critica della ragion pura afferma: «La libertà in senso pratico è l’indipendenza dell’arbitrio dalla costrizione degli stimoli sensibili».
Tuttavia la libertà non può consistere nella pura e semplice spontaneità privata di ogni costrizione esterna, perché rischierebbe in tal modo di esaurirsi nella pura e semplice «indipendenza». Essa sarebbe così una pura forma, una pura capacità di, un puro potere, che si risolverebbe però in una vuota volontà di potenza, semplicemente slegata da ogni condizionamento negativo. Ma così, la libertà di ricadrebbe in una forma dissimulata di libertà da.
Una tale deriva «formalista» della libertà inizia a vacillare, però, non appena si ponga la realtà della libertà nella sua concreta situazione esistenziale: l’umana finitezza. Se infatti è vero che la radice della libertà per essere tale deve rimanere indipendente da ogni condizionamento, è pur sempre vero che noi facciamo costantemente esperienza della sconcertante complessità e molteplicità del nostro mondo interiore.
Siamo ininterrottamente attraversati da impulsi, tendenze, bisogni che incessantemente spingono alla propria realizzazione, discordando gli uni con gli altri. Ma ancor più, ogni qualvolta la nostra libertà assume un contenuto particolare, ovvero sceglie qualcosa, questa singola libera elezione risveglia ed eccita nel complesso divergente della nostra coscienza tutte le tendenze contrarie a quella eletta. Ribaltando nuovamente quanto prima ricordato, dobbiamo dire ora omnis determinatio negatio est, ovvero ogni singola scelta suscita l’opposizione di tutte le altre possibili scelte che si sono scartate.
Per usare una metafora politica – che ci aiuta a meglio capire quanto appena detto – la spontaneità pura è costantemente assediata nella sua reggia dorata dalle più accese fazioni e divisioni, e ogni qual volta si affaccia dal balcone ad annunciare alla folla le sue decisioni, fomenta le più violente competizioni.
Dunque, per poterci dire concretamente liberi, dovremo poter ricomporre, risolvere, unificare la complessità divergente delle nostre tendenze verso l’unità della nostra libertà. Perché nessuno di noi può dirsi veramente libero, finché non è veramente uno.
La libertà di, o «autodeterminazione», vuole perciò anzitutto poter determinare se stessa, orientando e ordinando il complesso della propria finitezza: condizionando tutto ciò che tenta di condizionarla. In altri termini la libertà vuole poter sottomettere sé a se stessa e solo a se stessa. Ecco perché la libertà di per poter rimanere coerente con se stessa non può limitarsi ad avere se stessa come proprio oggetto, cadendo in un vuoto formalismo, ma deve prefiggersi uno «scopo» e volere autonomamente sottomettersi a una eteronomia.
Con ciò la volontà si fa progetto, l’autodeterminazione si fa «autorealizzazione»; ovverosia la libertà di si fa libertà per.
Libertà per
La libertà per o «autorealizzazione» consiste nel tentativo di tradurre in realtà se stessi, i propri sogni e i propri desideri, costruendo le opportune condizioni di possibilità. La libertà per, indirizzandosi verso l’azione materiale e concreta come prima autorealizzazione della libertà, incontra anzitutto la resistenza del corpo proprio con le sue forze molteplici tendenti alla separazione.
Ed è qui che, non senza una certa fatica e spesso a costo di notevoli sacrifici, la libertà tenta di porre tali forze al servizio di una intenzione unitaria nel lavoro che è il primo luogo di autopoiesi dell’uomo libero. «Il lavoro nobilita l’uomo», si dice, ma questo significa in verità che è attraverso il lavoro che l’uomo cerca di dare una forma non solo alle varie cose che manipola, ma anzitutto e fondamentalmente a se stesso: di diventare migliore, migliorando l’ambiente in cui vive.
Una «mediazione» indispensabile, attraverso la quale può concretizzarsi il processo umano di autorealizzazione, è la «virtù». Questa, secondo l’antica dottrina aristotelica, è uno «stato abituale», una disposizione stabile a provare passioni uguali per oggetti simili e di conseguenza ad agire in modo coerente.
Ciò significa – secondo quanto detto precedentemente – che la virtù ha la funzione di preordinare il complesso delle proprie forze divergenti a servizio della libertà. La virtù o, meglio sarebbe dire, «le virtù» concorrono all’autorealizzazione libera costituendo il «carattere», il quale è tanto migliore quanto più è armonico, ovvero scevro da conflitti interni: così che l’agente non sia costretto ogni volta a lottare con se stesso per poter agire secondo il proprio indirizzo migliore.
Le virtù non si studiano a tavolino, ma si acquisiscono e si consolidano solo «praticamente», ovvero compiendo azioni virtuose, in un processo educativo mirante alla armonia interiore. In tale processo sono perciò molto più efficaci i modelli e i «testimoni» che non gli insegnamenti o i professori, e sono assai più redditizi gli esercizi e la disciplina che non le semplici buone intenzioni.
Dice Aristotele nell’Etica Nicomachea: «non è quindi una differenza da poco, se fin dalla nascita veniamo abituati in un modo piuttosto che in un altro, è importantissimo, anzi è tutto!». Per questa ragione non è per nulla indifferente trascorrere i propri pomeriggi guardando il Grande fratello o leggendo Guerra e pace: «l’uomo è ciò che mangia», dice Feuerbach, e noi mangiamo non solo con la bocca, ma anche con gli occhi e con le orecchie. E se siamo dei quotidiani coprofagi televisivi o internettiani, poi cosa diventiamo?
L’importanza che Aristotele sottolinea così fortemente è dovuta al fatto che le azioni virtuose costituiscono una predisposizione stabile non solo nei confronti della parte irrazionale dell’anima, le passioni o emozioni, ma anche di quella razionale. Infatti le passioni smisurate possono sviare i giudizi che riguardano il contenuto dell’azione: «i principi delle azioni che si compiono – è sempre il Filosofo che parla – sono ciò per cui le azioni avvengono: ma a chi è corrotto a causa di piacere o dolore, immediatamente non appaiono più evidenti, né il principio, né il fatto che tutto si deve scegliere e compiere per quello e a causa di quello: poiché il vizio è ciò che corrompe il principio». In altre parole, se sono preda del vizio non sono in grado di vedere chiaramente l’obiettivo del mio agire e dunque neanche di formulare giudizi pratici validi.
Dunque, al di là di ogni concezione intellettualistica, intenzionalistica o formalistica della libertà, il processo autorealizzativo che fa perno sulla mediazione delle virtù instaura una circolarità tra libero e non-libero, tra volontario e involontario, tra spontaneità e affezione, tale per cui l’agire effettivamente secondo la libertà assimila il non libero alla libertà, rendendola sempre più indivisa e manifesta a se stessa in un progressivo movimento di liberazione. Tale movimento, come già Aristotele suggeriva sollevando il problema della educazione, si espande inesorabilmente al di là della sfera corporea anzitutto nei segni e nelle opere prodotti a differenti livelli dall’agire effettivo in cui vengono coinvolti altri agenti.
La libertà per necessita l’elaborazione di una «relazione» e dunque anzitutto di una libertà tra.
Libertà tra
Ogni azione posta effettivamente in atto coinvolge in qualche misura altri operanti e agenti. Nessuna «opera» infatti è mai solo e soltanto mia, essa è sempre il prodotto di una cooperazione che implica, a differenti gradi, altri da me.
Questa cooperazione si definisce a un livello immediato come semplice coazione, un termine ambiguo che al tempo stesso indica il fatto che da un lato, positivamente, la mia opera risulta dall’intreccio delle azioni di diversi co-attori e dall’altro, negativamente, mi vede costretto a subire volente o nolente l’influenza altrui. Per questo motivo la libertà implicata nella relazione è condotta anzitutto a elaborare la tensione e il conflitto con gli altri. Anzi spesso la libertà come relazione è stata ridotta al conflitto come forma originaria di rapporto tra gli uomini, basti pensare qui a Hobbes e al suo celebre homo homini lupus.
A questa conflittualità la libertà tra risponde fondamentalmente nella forma del «contratto». Solo un insieme di procedure convenzionalmente stabilite sembra in grado di salvare gli uomini dagli uomini, di impedire che si sbranino gli uni gli altri; anche se in tal modo sembra comunque non essere in grado di salvarli da se stessi.
Infatti un tale contratto sociale lascia ciascuno fisso nella propria solitudine, in un isolamento autosufficiente da cui il tentativo di tirare fuori una appena accettabile forma di società non è – come scrive Jean Starobinski di Rousseau – che uno slancio d’immaginazione espansiva. Non a caso, sosteneva Rousseau che per trasformare tali individui tanto «perfettamente solitari in una parte di un tutto da cui essi riceverebbero la vita e l’essere», ovverosia lo Stato, si rende necessario «cambiare la natura umana».
La «relazione contrattuale» fissa i contraenti in una opposizione regolata, rispetto alla quale essi diventano termini funzionali, elementi sottostanti all’universalità di un legame astratto. Infatti, il contratto più che una relazione sancisce una «separazione» di competenze e pertinenze; e da una tale fissazione di posizioni non può emergere alcuna relazione vera e propria.
Ecco perché si rende necessario, come il fascismo e il comunismo hanno tentato di fare nel XX secolo, riplasmare la natura dei contraenti affinché corrispondano a un modello di relazione ideale. Abbiamo qui, come già numerosi commentatori hanno potuto notare (tra gli altri, recentemente, Emilio Gentile e Roberto Esposito) quel vertiginoso intreccio di individualismo e totalitarismo che sta alla radice dell’ambiguità di fondo della libertà tra. La libertà come relazione è chiamata così riscoprire quello che Francesco Botturi chiama «il bisogno intrinseco che la libertà ha dell’altra libertà».
La libertà come relazione trova la sua configurazione più completa e sincera nella libertà con.
Libertà con
Ogni opera, si diceva al termine dell’analisi della libertà per, mette il suo produttore in contatto con altri attori in una ineludibile coazione. Ora, mentre la libertà tra vede in questa coazione una forma originaria e naturale di conflittualità, di bellum omnium contra omnes, la libertà con vi coglie invece l’opportunità per un progresso ulteriore nel suo itinerario di liberazione. Già nel rapporto diretto agente-opera si stabilisce sin da subito un commercio tanto più fecondo quanto più l’opera possiede una sua potenzialità intrinseca.
Ciò che la spontaneità della libertà ricerca nell’opera è una spontaneità complice che possa coagire all’interno del suo processo di autorealizzazione. La libertà ambisce a trovare nell’opera assai più che soltanto una bruta materia docile alle sue mani, e proprio in tale di più ripone la sua aspettativa di poter ulteriormente superare se stessa. È per questo che l’opera più perfetta a cui la libertà possa ambire è l’amico.
Secondo Aristotele – che per primo all’amicizia ha dedicato un trattato sistematico, inserito nella struttura della propria etica – l’amico è un «altro se stesso». Un altro me stesso, tuttavia, diversamente altro da me rispetto a come io potrei mai esserlo da me stesso. Voglio specchiarmi in lui, riverberarvi ciò di più bello e buono a cui aspiro, ma senza mai appiattirlo a me e senza cessare contemporaneamente di essere me stesso. Secondo Maurice Blondel «ai miei occhi lui esiste veramente solo se è per me così come è per sé». Si tratta, per usare un termine che oggi gode di una sempre maggiore fortuna, di un riconoscimento donato e ricevuto.
L’amicizia vera perciò rappresenta un punto di svolta decisivo nell’itinerario della libertà, e non a caso Botturi vi vede «il termine perfettivo cui tende il movimento della libertà stessa e quindi la sua figura terminale». Infatti, nell’amicizia la libertà è costretta a invertire la sua marcia, altrimenti finirebbe per assumere l’amico come puro e semplice mezzo per la propria autorealizzazione. L’amicizia vera perciò sfocia nella comunità, la quale non consiste nell’avere semplicemente qualcosa in comune – questo sarebbe piuttosto il contratto di cui abbiamo già parlato a proposito della libertà tra – e dunque non è semplice appartenenza o proprietà, ma condivisione di quel debito (munus), di quel dono-da-dare che costituisce a tutti gli effetti l’essenza della libertà come relazione o libertà con.
Scrive Roberto Esposito nel suo pregevolissimo saggio sulla Communitas:
«La ferita che ci procuriamo – o da cui emergiamo – allorché ci ‘alteriamo’ entrando in rapporto non solo con l’altro, ma con l’altro dell’altro, anch’egli preda dello stesso irresistibile impulso espropriativo. Questo incontro, questa chance, questo contagio, più intenso di qualsiasi cordone immunitario, è la comunità – di coloro che, evidentemente, non l’hanno se non perdendola, e perdendosi, nel suo stesso deflusso».
Nella comunità che si stabilisce nella vera amicizia la libertà ottiene ciò che cerca, ovvero un complemento simile a sé oltre se stessa, solo se riconosce l’alterità dell’altro e vi si consegna spontaneamente.
La libertà con scopre la sua essenza profonda nella libertà a, in una opzione fondamentale di apertura e tensione riconoscente.
Libertà a
In Attente de Dieu Simone Weil riprende la prima leggenda del Graal, nella quale «si racconta che il Graal, pietra miracolosa che, in virtù dell’Ostia consacrata, sazia ogni fame, appartiene a chiunque dirà per primo al custode della pietra, il re quasi completamente paralizzato dalla più dolorosa ferita: ‘qual è il tuo tormento?’».
La chiave di questa leggenda sta nel fatto che il Graal si ottiene solo rinunciandovi: non colui che giungendo davanti al custode sventurato chiede «dov’è il Graal? o cosa debbo fare per averlo?» lo conquista, ma solo colui che a monte di tutto conserva quello «sguardo attento, in cui l’anima si svuota interamente del suo contenuto per accogliere in sé l’essere che guarda, quale è in se stesso».
Questa attenzione in cui consiste la libertà a è una opzione fondamentale con la quale la libertà rinuncia alla sua pretesa di autonomia per predisporsi fondamentalmente a ricevere la propria realizzazione come dono gratuito dalle mani di un altro. Quella assolutezza, quella autonomia che la libertà è andata cercando dalla libertà da alla libertà con è finalmente raggiungibile solo lasciandosi coinvolgere in questa disponibilità all’altro che è tanto posta da sé quanto in verità già da sempre ricevuta.
Il luogo proprio della libertà a è così la preghiera, l’Andacht, cioè l’invocazione, il tendersi lieve e fiducioso della voce verso il mistero. Oltrepassando qui i limiti della indagine filosofica e ponendoci dal punto di vista di quella rivelazione che sola può rispondere alla libertà a, possiamo infine accennare alcuni tratti di quella perfezione beata in cui la libertà può trovare la sua quiete e che io chiamerei la libertà in.
Dopo la libertà con e la libertà a che dispiegavano la straordinaria fecondità della libertà come amicizia, anche quest’ultimo dirsi della libertà, la libertà in, si pone come compimento definitivo di questa stessa vena.
Libertà in
La più alta, la più profonda, la più perfetta forma di amicizia è certamente quella che Tommaso d’Aquino espone nella Summa theologiae alle quaestiones 23 e seguenti della Secunda Secundae dove tratta della carità. Il primo articolo della questione ventitreesima che tratta della carità in sé, si chiede anzitutto se la carità sia amicizia. Tommaso, che in questa pagina si rifà fondamentalmente alla trattazione dell’amicizia nell’Etica Nicomachea di Aristotele, sostiene che affinché si dia vera amicizia si richiede l’amore scambievole «giacché l’amico è amico dell’amico», e che una tale mutua benevolenza «si fonda su una qualche comunicazione».
Ora, continua il Dottore angelico,
«essendoci una certa comunicazione dell’uomo con Dio, in quanto questi ci rende partecipi (communicat) della sua beatitudine, è necessario che su questa comunicazione si fondi un’amicizia. E di questa comunicazione così parla San Paolo (1 Cor 1,9) Fedele è Dio dal quale siete stati chiamati alla comunione del Figlio suo. Ma – conclude Tommaso – l’amore che si fonda su questa comunicazione è la carità. Quindi è evidente che la carità è una certa amicizia dell’uomo con Dio».
La carità con la quale Dio risponde alla nostra attesa non è una gratuità anonima, a fondo perduto, non è il dono soverchiante della cosiddetta «pura gratuità», non è neanche il dono idealmente perfetto che richiederebbe secondo Jacques Derrida la sottrazione tanto di colui che dona quanto di colui che riceve il dono, ma è una comunicazione di ciò che di più prezioso Dio possiede, la sua stessa vita divina intermediata dal Figlio.
Una vita che non è semplicemente donata, nella misura in cui il donatore donando si priva di ciò che dà e colui che riceve si appaga nel possesso così conseguito, ma è realmente compartecipata in una comunione beata, nella quale Dio ci rende partecipi della sua beatitudine, ci accoglie nella comunione con Lui e in Lui.
Per la libertà questa beatitudine significa l’essere finalmente liberi in Dio il quale – come scrive San Paolo nella 2 Cor 2,14 – «ci fa partecipare al suo trionfo in Cristo e diffonde per mezzo nostro il profumo della sua conoscenza nel mondo intero».
* Professore straordinario di Filosofia all’Università Gregoriana di Roma.