Parabole giovani /2
Roberto Seregni
(NPG 2012-02-2)
Sembra
Ho incontrato un giovane catechista che segue un gruppo di preadolescenti. Non è della mia parrocchia e non conosco né il gruppo dei ragazzi né gli obiettivi o gli strumenti del suo progetto. Mi parla di schede di catechismo, gite, testimonianze, attività sportive, ma nei suoi occhi leggo tanta delusione.
Ne parliamo con calma.
Si sente un educatore scoraggiato, impotente, sfiduciato.
«Meglio lasciar perdere… Non sono all’altezza!», mi dice.
Il mio sguardo lo interroga e lui mi racconta tutta la sua delusione.
«Quanti sacrifici per essere sempre presente e sempre con qualcosa di bello, di accattivante o di provocante per far crescere discussioni, confronti, dibattiti… Quante ore spese per organizzare incontri, testimonianze, gite e sembra che non porti mai a nulla, sembra che tutto scivoli via…»
Sembra. Certo, sembra.
Potenza nascosta
A quel giovane catechista e a tutti quelli che si sentono aggrediti dalla delusione e dall’amarezza, vorrei ricordare una parabola di Gesù che troviamo solo nel Vangelo di Marco.
«Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce.
Come, egli stesso non lo sa. Il terreno produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga; e quando il frutto è maturo, subito egli manda la falce, perché è arrivata la mietitura» (Mc 4, 26-29).
Gesù racconta questa breve parabola per innescare una bomba di coraggio e di fiducia nel cuore dei suoi discepoli di ogni tempo. Il seme gettato nella terra ha una potenza nascosta e imprevedibile, una vitalità che è sottratta alle nostre esigenze di controllo e di verifica, una fecondità che genera stupore e coraggio.
Attesa
La parabola si snoda su tre passaggi molto semplici: la semina, la crescita e la mietitura. Nel primo e nel terzo la parte attiva è del contadino, mentre in quella centrale – che è la più importante – è il seme al centro di tutto. Il testo sottolinea con cinque verbi la sua vitalità: germina, cresce, produce lo stelo, produce la spiga, produce il grano nella spiga (cf vv. 27-28).
È su questa fase centrale che il discepolo è chiamato a confrontarsi. È solo il seme ad essere attivo, mentre l’agricoltore – dopo aver gettato il seme – non fa più nulla, se non aspettare.
Mi piace questa attesa. Una volta che il contadino ha fatto la sua parte non gli resta che attendere, sa che tutto avviene senza di lui, e che quanto accade sottoterra non dipende da lui ma dalla potenza che abita il seme. L’agricoltore lo sa senza vedere e senza constatare: nel buio e nel nascondimento sta germogliando la vita. Un saggio della mia parrocchia che per anni ha lavorato nel settore agricolo ama ripetere: «Il seme in terra e la speranza in Dio».
Il Regno di Dio è così: non è un prodotto dell’uomo, non è un risultato di uno sforzo titanico, ma un Suo dono. Un dono sottratto alle logiche di efficienza e di visibilità che spesso condizionano la nostra spolmonante frenesia. I discepoli di ogni tempo, che vivono immersi nel dubbio e nella paura che il seme della Parola faccia cilecca e che il Regno di Dio sia un miraggio che lascia intravedere un’oasi felice nel deserto della crisi, sono chiamati a rafforzare e irrobustire la loro fiducia.
Il seme porterà frutto. Non ci sono dubbi.
Anzi, sarà abbondante come «il chicco pieno nella spiga» (v. 29)
Questa parabola è un invito forte alla speranza e alla fiducia. Il grande Agostino ci ricorda che «solo la speranza ci fa propriamente cristiani» [1].
Anche se la presenza del Regno può apparire improduttiva, nascosta o – addirittura – assente, esso è presente ed è al lavoro. Anche se sottratto alla vista, proprio come il seme sottoterra, il Regno di Dio è gravido di fecondità e di vita.
Pazienza
Accanto alla fiducia, la parabola invita anche riscoprire la pazienza del contadino. Tra il momento della semina e quello del raccolto, c’è un tempo in cui il contadino può solo attendere e contemplare il miracolo della vita che avviene nel silenzio della terra.
Concediamo allo Spirito il tempo di lavorare nel cuore, senza la fretta di costatarne i risultati.
Concediamoci il tempo per germinare, crescere e poi portare frutto.
Commentando questa parabola, Gregorio Magno scrive:
«Se si vede un uomo che tende verso l’ideale con l’anima ancora debole, non lo si disprezzi, mai, perché il grano di Dio comincia con l’essere erba per diventare chicco maturo» [2].
Penso che la stessa cosa valga anche per i nostri percorsi comunitari. La nostra ansia pastorale ci fa affogare nel terribile rischio della fretta, ci fa rincorrere gli eventi senza saperci fermare ad ascoltare, gustare, contemplare e attendere la presenza del Risorto.
Si progetta e si verifica senza tenere conto che i tempi di Dio non sono i nostri, che il seme deve marcire per portare frutto. Si accavallano piani pastorali, progetti, percorsi, proposte senza lasciare tempo alla terra di respirare e con il rischio di rimanere eternamente delusi e lamentevoli.
Come il contadino della parabola dovremmo riappropriarci della pazienza che è «la somma di tutte le virtù» [3].
Ricordando questa preziosa virtù, ha scritto Cipriano:
«Il fatto di essere cristiani è opera della fede e della speranza, ma perché la fede e la speranza possano giungere a produrre frutti, c’è bisogno della pazienza» [4].
NOTE
1) AGOSTINO DI IPPONA, De civitate Dei, VI, 9,5.
2) GREGORIO MAGNO, Homiliae in Ezechielem II, 3,5-6: SC 360, 135-137.
3) TERTULLIANO, De patientia, 1, 7.
4) CIPRIANO DI CARTAGINE, De bono patientiae, 13.