Cesare Bissoli
(NPG 2012-01-6)
Iniziamo già proponendo la sostanza dell’argomento, che sarà poi sviluppato soprattutto nell’articolo successivo.
Partiamo dal fatto che lungo la storia della pedagogia ed educazione cristiana, dal «Gesù didaskalos» di Clemente Alessandrino fino ai nostri giorni, in particolare nel periodo 1950-1970, sempre si conservò nei cristiani l’aspirazione di poter riferirsi a Gesù come modello di educatore (da grande) e di educando (da ragazzo). In questo ci dà un esempio la ricerca appassionata di Gesualdo Nosengo.[1] Gesù – afferma Nosengo – ci offre un magistero incomparabile che si caratterizza per «la serenità del rapporto educativo, l’arte di partire dal concreto, l’arte di interrogare, l’arte di correggere… Un modello accessibile, concreto, imitabile».[2] In fondo il Nosengo, e con lui tanti altri, finisce con il qualificare come educativo ogni tipo di rapporto vissuto da Gesù con gli altri.
Una verità suggestiva e profonda, però portata avanti sul filo di una inevitabile ambiguità, e ciò per una lettura non pienamente corretta dei vangeli, dato che si rischia di misconoscerne o sottacerne la vera identità del messaggio che esprimono: Gesù è salvatore o educatore? Educare è eguale a salvare? Come si coniugano correttamente salvezza ed educazione?
Componenti di una prospettiva educativa nel Vangelo
Si comprende perché la trattazione di questo tema richieda una riflessione teologica che faccia da prospettiva, e insieme esprima il contenuto della pedagogia di Gesù e il criterio per valutare quella tendenza così giusta e tradizionale di richiamarsi a Gesù per le diverse realtà terrestri con cui siamo confrontati: e l’ambito dell’educare non è certamente minore, anzi oggi è in vera e propria emergenza.
Essendo un uomo e parlando a degli uomini in vista di un fine importante e decisivo (il Regno di Dio, la salvezza), Gesù si presenta necessariamente nella scia dei formatori, che dà cioè forma, profilo, un’anima nuova alle persone, attraverso un processo di educazione, di un condurre alla meta che gli stava a cuore. Di un educatore aveva i tratti da lui ritenuti tali, secondo il senso comune dell’uomo storico, pur nella varietà delle modalità esecutive.
Leggendo i Vangeli ricaviamo queste componenti riconosciute pertinenti al compito educativo, che diciamo così in termini moderni:
* Anzitutto, come primo tratto, educare per noi evoca non un traguardo raggiunto, ma un cammino da fare verso di esso. Lo è stato anche per Gesù. Il camminare continuo di Gesù nella sua terra diventa, più che metafora, un segno sacramentale di una missione bruciante – diceva lui – per salvare ciò che era perduto (cf Lc 12,49). Non vi era niente di precostituito se non l’amore del Padre e il comando di manifestarlo.
Educare veramente è un compito che si estende nel tempo, in cui ogni traguardo raggiunto diventa tappa ad un altro. Ciò è reso plasticamente dall’impegno educativo da realizzare con chi vive in situazione evolutiva, come la gioventù. Facendo un banale paragone, l’educare di Gesù – e il nostro educare da cristiani suoi discepoli – non è certo paragonabile a chi ha a disposizione un’auto perfetta pronta all’uso, ma semmai è impegnato in una catena di montaggio a fare macchine perfette, figli perfetti come è perfetto il Padre (cf Mt 5,48). Gesù si avvaleva di un’immagine propria della sua cultura, l’immagine del seme che cresce, da curare con pazienza fino alla mietitura (cf Mc 4,26-29). Si dice che neanche Dio pianta alberi fatti. Dunque educare per Gesù è camminare educativamente, anche a lungo.
* Secondo tratto dell’agire educativo di Gesù: il suo vivere una relazione diretta, personale con delle persone a forma di incontro, non facendo accadere nemmeno un miracolo senza esservi coinvolto e coinvolgere le persone. Gesù non ha mai fatto il guru solitario, ma è stato veramente uomo della gente, anzi delle singole figure, e sovente povere, marginali ed emarginate. Gesù ha sempre curato il singolo, pur incontrando la massa.
* Terzo tratto: Gesù non solo accetta il titolo di maestro (Rabbi), ma si dichiara tale (cf Mt 23,8) e così opera, entro un mondo giudaico di fervente interesse pedagogico per l’insegnamento, come vedremo, cui apporta la novità riconosciuta di scegliere Lui i suoi discepoli e non essere scelto come proprio rabbi da loro, e con una rimarcata qualità di libertà e di autorevolezza. Ne faremo cenno più avanti.
* Quarto tratto: egli si è sempre rivolto alla libertà delle persone per una risposta di libertà. Fanno testo le chiamate dei discepoli (cf Mc 8, 34), del giovane ricco (cf Mt 19,16-22)…
* Quinto tratto: egli fa ciò in vista di un obiettivo grande, trascendente, impegnativo (Regno di Dio, vita eterna, figli del Padre…) (cf Mt 19,23-26; Mc 8,34-38; Mt 6,45).
* Esso è da comprendere – sesto tratto – non come oppressione, ma quale «peso leggero», però sorgente di shalom, pace, gioia: «Troverete ristoro per la vostra vita» (Mt 11,28-30).
* Un settimo tratto è dato da quell’elemento tipico del processo educativo che è la sanzione, ossia la verifica positiva o negativa del processo stesso, per cui – stando al linguaggio biblico – si ha il risultato del grano buono o della zizzania, con esiti conclusivi diametralmente opposti, su cui si gioca il destino eterno (cf Mt 10,32-33; 13,24-30).
* Ottavo tratto, forse quello più evidenziato nel titolo di questo articolo, è lo stile di Gesù, certamente suggestivo e attraente, fatto di dedizione amorosa, totale e fedele, oggi qualificato con la categoria dell’ospitalità, di una santità ospitale (Ch. Theobald).
Più avanti noteremo alcuni indicatori di tale ospitalità.
Formula sintetica da tutti riconosciuta: quella di Gesù è una pedagogia dell’amore come agape.
E la fede?
Si sarà notato che fino a qui non ho accennato ad una componente essenziale del cammino educativo di Gesù: la componente religiosa, di fede.
Togliere a Gesù tale fattore è togliere non un dato, ma l’orizzonte in cui comprendere ogni altro dato. Gesù è un educatore credente nel Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, di Mosè, dei Padri, per realizzare dei credenti nel Dio di Gesù.
Qui vien giusto richiamare quello che nell’educazione ha ragione sostanziale: il perché si educa, dove si vuol arrivare, perché impegnare la libertà in modo così esigente, a che scopo una relazione così affettiva di Gesù con la gente e i suoi discepoli, con dei contraccolpi non sempre benevoli, come il sentirsi malcapito, rifiutato, tradito, quasi da ingenerare l’idea – alla resa dei conti – di un maestro fallito; per quale ragione ha giocato letteralmente la sua vita, insomma quale è stato il fine che voleva raggiungere nel suo cammino educativo.
Diciamo allora che nell’arte educativa di Gesù lo scopo è un fattore decisivo, è la sua eredità maggiore, perché dal fine (che per lui non era una teoria del bene, alla maniera kantiana, ma il volto del Padre da svelare al mondo degli uomini: ricordiamo la figura del padre prodigo in amore di Lc 15,11ss. forse la designazione più vera dello scopo della sua missione), dunque dall’amore del Padre scaturisce la forza di tutto il tragitto terreno e il traguardo di esso, e dunque il «successo» invero singolare che gli riconosciamo e per cui ci confrontiamo con Lui e andiamo a scuola da Lui.
Ebbene, proprio riconoscendo il fine che ha reso educante la sua missione, la Chiesa l’ha codificato solennemente nel Credo: «Per noi uomini e la nostra salvezza è disceso dal cielo».
Si tratta di un educatore che è un uomo e insieme il Figlio di Dio, una salvezza dunque che non ci appartiene come conquista e nemmeno come opera delle nostre mani, ma come dono, tanto umano quanto divino. Questo concetto di salvezza – detta anche redenzione – mette sul tappeto e fa chiarezza su ciò che sia educare per Gesù, l’educare di Gesù, il suo essere e dichiararsi maestro e noi discepoli, suoi scolari, «tutti fratelli» (Mt 23,8).
Tutto ciò costituisce il passaggio nodale che riassumiamo in queste quattro proposizioni:
* Salvare non è costitutivamente e necessariamente frutto di educazione. Il ladrone salvato da Gesù non fece certamente un cammino di fede come Pietro, Giovanni, Matteo, ma per lui è avvenuto quello che Gesù stesso amava dire: «La tua fede ti ha salvato» (Mc 10,52), cioè un atto di radicale fiducia nel Signore. È come se Gesù avesse detto: «Tu, ladrone, mi hai fatto posto sulla tua croce come fosse mia, per ciò verrai-sarai con me in paradiso» (Lc 23,42-43). È quanto avviene ad ogni morte di un bambino, per nulla educato, ma certamente salvato.
* Perciò educare non produce da sé il salvare, come operazione puramente intraumana, pur nei nobili intenti di un Socrate, Platone, Kant, Habermas… L’uomo non può salvare se stesso. Ha bisogno assoluto della grazia, dunque della preghiera, della fede nel Signore, dell’animazione dello Spirito Santo, della vita di Gesù in sé, come afferma San Paolo (cf Gal 2,20).
* D’altra parte, data la nostra condizione di persone che nascono, crescono e vivono nel tempo e dunque bisognosi di educazione, la salvezza di Gesù avviene per via normale tramite l’educazione, una educazione che accetta di essere aperta alla salvezza come dono, e della salvezza fa – come ha insegnato Gesù – fine così supremo da essere sempre presente (cf Mc 8,36ss).
* Ma contemporaneamente se Gesù propone la salvezza tramite un magistero educante – ne abbiamo accennato i tratti di base e di altri faremo ancora parola – egli ha valorizzato tutte le risorse che provenivano dal sapere educativo del suo tempo (e non era certamente povero e inadeguato), con il sigillo della ricchezza del suo genio.
Il «mondo educante» dei tempi di Gesù
E in effetti Gesù opera da formatore all’interno di un intenso mondo educante quale è il giudaismo del suo tempo. Le sue scienze dell’educazione, Egli le trova nella sinagoga con la lettura dei libri sacri e ascoltando le tradizioni degli anziani. Si determinò lungo i secoli una densa riflessione che portò alla affermazione di una «pedagogia di Dio». Era costituita da una doppia faccia: una progettualità divina nella conduzione del popolo di Dio (di ciò il Deuteronomio si fa testimonial maggiore); ma insieme si avverte lo sforzo di investigare, con il timore del Signore, l’esperienza umana dell’educazione, dove si possono rintracciare le opere della sapienza creatrice. Di questo lato umano i Sapienziali sono attestazione tanto certa quanto oggi trascurata.[3]
L’educazione ai tempi di Gesù era quindi motivata da una visione intensamente religiosa nei fini e altrettanto umana nei mezzi.
Diciamone finalmente la ragione. Si tratta – tramite l’ascolto della Parola di Dio – di partecipare alla benedizione dell’alleanza, ma questo comporta il venire a conoscere incessantemente la Parola del Signore tramite lo studio e la scuola della Scrittura e delle tradizioni dei Padri. Gesù stesso a Nazaret vi partecipò. come attestano il suo soggiorno nel Tempio e cumulativamente la sua crescita in «età, sapienza e grazia» (cf Lc 2,40-52).
Ma allora cosa c’è di pedagogicamente nuovo in Gesù?
Noi sappiamo che l’essere Rabbi itinerante, l’essere e farsi chiamare Maestro, l’uso della lingua comune, cioè l’aramaico, le forme letterarie del dire come le parabole e il ricorso al linguaggio simbolico, erano proprietà pienamente condivise dai rabbini suoi colleghi.
Allora dove sta la novità o originalità di Gesù educatore?
Qui merita indicare la duplice risposta che per così dire conclude questo punto essenziale per cogliere correttamente il senso di educazione in Gesù e il suo stesso operare educativamente.
* La prima indicazione è data da Benedetto XVI nel suo primo volume su Gesù di Nazaret (pp.129-131), quando introduce la voce del rabbino americano Neusner. Il rabbino immagina di essere presente alla predicazione di Gesù, ascolta il discorso della montagna e lo confronta con quanto detto nella Torah. I suoi colleghi rabbini gli chiedono sul rapporto tra quanto dice il «saggio Gesù» e le Scritture. E il rabbino-capo domanda: «Cosa ha tralasciato?». Risposta: «Nulla»; «Che cosa ha aggiunto allora?». «Se stesso».
Quindi la novità dell’agire di Gesù in ogni campo, anche educativo, è difficile collocarla a sé stante, in assoluta originalità (l’esegesi moderna, specie la terza fase o della radicazione di Gesù storico nel giudaismo, porta a limitare sempre più i tratti cosiddetti originali del rabbi Gesù, come l’uso del termine Abba), ma è certo che è lui stesso la novità, per cui le cose vecchie, dette da tutti e che lui stesso riprende, portano l’originalità della sua persona e vanno compresi dentro il suo mistero, insegnamenti ed esempi.
* Il secondo dato proviene dall’esito conclusivo della vita di Gesù, la Pasqua di morte e risurrezione che bene esprime la qualità paradossale della pedagogia di Gesù. Da una parte il suo darsi da fare per educare le persone sfocia nella morte che sigla un reale fallimento dal punto di vista umano («tutti lo abbandonarono e fuggirono», Mc 14,50), come ad indicare la inadeguatezza del mezzo umano dell’educare per arrivare al fine proposto del Regno di Dio, tanto che sono stati due «male-educati», come il ladrone (Lc 23,42-43) e il centurione pagano romano (Mc 15,39) ad entrare nel Regno; e però la risurrezione che ne segue conferma il raggiungimento di tale fine, e dunque si legittima la spinta educativa di Gesù e nostra quando si scopre che alla base della Pasqua, quale fattore decisivo per un esito vittorioso, sta l’amore del Padre per l’uomo, amore che Gesù ha assunto pienamente (cf Gv 3,16).
Solo l’amore di Dio riconosciuto e ricambiato educa efficacemente, sa cogliere le proprie fragilità, tentennamenti, e anche fallimenti, ma ha fiducia nell’azione dello Spirito del Signore risorto. Si potrebbe parlare della pedagogia del grano che muore e che rinasce. L’amore vince sempre.
Quindi studiamo pure Gesù educatore, ricaviamo mille e uno insegnamenti, come del resto gli studiosi fanno e facciamo oggi anche noi, ma la parola conclusiva non è tanto quale educatore è stato Gesù e quale educazione propone, ma come intendere l’educazione secondo Gesù, come le risorse sempre nuove delle scienze umane, lo stesso desiderio di educare come Lui, vada commisurato sul suo mistero e dunque nell’ambito di una fede genuina.
NOTE
[1] L’arte educativa di Gesù Maestro, 2 voll, AVE, Roma, 1967.
[2] Ibid, II, 19.
[3] Cf C. Bissoli, Bibbia e educazione, LAS, Roma 1982, pp. 203-225.