Ascoltare il silenzio

e ascoltare nel silenzio

Eugenio Borgna

Il mio cammino si è venuto svolgendo alla ricerca dei modi con cui possa essere rivissuto il tempo in alcune paradigmatiche situazioni della vita, ma ora, avvicinandomi alla conclusione del mio cammino, vorrei pensare al tempo del silenzio, al tempo della parola che tace, al tempo dell'ascolto dell'anima che solo nel silenzio risplende nella sua piena luce, e in fondo al tempo della cura, così come è intesa nella bellissima poesia di Emily Dickinson. Certo, ho scritto del silenzio in alcuni miei lavori, cercando di trovare parole leggere e assorte, così facili da trovare e così facili da smarrire, che mi consentissero di coglierne le risonanze umbratili e impalpabili: come farfalle perdute nel sole. Ma i confini del silenzio, come i confini dell'anima, non si raggiungono mai, e allora ha forse un senso andarne sempre di nuovo alla ricerca: come vorrei fare ora, muovendo da una diversa impostazione tematica, con queste mie riflessioni che, sulla scia di quello che è il tempo del silenzio, nascono anche dalla recente lettura di pagine bellissime sulla sua fenomenologia e sulle sue metamorfosi.
Come quelle che Søren Kierkegaard ha scritto nei primi tre discorsi religiosi, composti fra il 1849 e il 1851, che sono un elogio del silenzio, del sapere tacere, che si può imparare da quelli che egli chiama i silenziosi maestri: il giglio e l'uccello: come ci dice il Vangelo. "Saper tacere, questo lo puoi imparare là fuori dal giglio e dall'uccello, dove c'è silenzio, e c'è anche un che di divino in questo silenzio. Là c'è silenzio, e non solo quando tutto tace nella notte silenziosa, ma anche quando durante il giorno le mille corde sono in movimento e tutto è come un mare di suoni c'è silenzio: ciascuno lo pratica così bene che nessuno di loro e neanche tutti insieme creano rotture nella solennità del silenzio. Là c'è silenzio. La foresta è silenziosa; anche quando sussurra è silenziosa"; e con immagini ancora più stupefacenti: "Il mare è silenzioso; anche quando infuria assordante è silenzioso. Al primo istante forse ascolti male e lo senti rumoroso. Se cammini frettoloso con quest'idea, fai un torto al mare. Ma se invece ti dai tempo e presti ascolto con più attenzione, tu senti –.meraviglia! – il silenzio, perché la monotonia è anche silenzio. Quando di sera il silenzio pervade il paesaggio e senti il lontano muggire dal pascolo o, in lontananza, senti dalla casa del contadino la voce familiare del cane, non si può dire che il muggire o la voce turbino il silenzio, no, fanno parte del silenzio, sono in misterioso e pertanto ancora tacito accordo con il silenzio, lo accrescono".
Sono parole di indicibile bellezza che ancora ci dicono come solo tacendo, solo nel silenzio, si riesce a cogliere il balenare dell'istante, e il silenzio e il tempo si intrecciano misteriosamente l'uno all'altro. "Oh, voi profondi maestri di semplicità, sarebbe forse possibile cogliere 'l'istante', se si parla? No, solo tacendo si coglie l'istante; mentre si parla, non appena si dice una sola parola, ci si lascia sfuggire l'istante; l'istante è solo nel silenzio." Ma il silenzio è ancora condizione dell'ascolto, e fare silenzio significa ascoltare pienamente e intensamente.
Si ascolta nel silenzio, e si ascolta il silenzio, come si ascolta l'infinito, e cioè non con la ragione calcolante ma con le ragioni del cuore, con la intuizione, che lacera le consuetudini e le abitudini della vita, facendone riemergere il nocciolo profondo, e segreto. Solo nel silenzio del cuore, nel silenzio che abita nel cuore, si può davvero ascoltare; e le straordinarie parole di Kierkegaard lo dicono. Ma come ascoltare? Ci sono infiniti modi di ascoltare: si ascolta il silenzio, il silenzio di una persona che tace, o perché non vuole parlare, o perché non può parlare, e si ascolta nel silenzio le parole che ci sono dette, e quelle che non ci sono dette, ma che parlano in modo talora ancora più espressivo: l'indicibile fa parte del dicibile, e lo condiziona. Sono due momenti diversi, l'ascoltare il silenzio, e l'ascoltare in silenzio, e vorrei ora considerarne i diversi andamenti.
Ascoltare il silenzio, cercare di decifrarne i significati, è una esperienza alla quale non si sfugge in vita ma soprattutto in alcune emblematiche situazioni psicopatologiche con le quali la psichiatria non può non confrontarsi abitualmente. La condizione clinica che non di rado si accompagna al silenzio, alla fuga nel silenzio, benché non sia per nulla perduta la capacità di parlare, è quella depressiva. La tristezza scende in noi in modi diversi, appena sfiorandoci, oscurando le nostre giornate, o immergendoci nella disperazione, e quando questo avviene, la parola muore, e solo gli occhi parlano ancora. Non si parla, si è in silenzio, perché viene meno il desiderio di parlare, ci si rinchiude in una solitudine desolata e profonda, e si perde il mondo. Non è solo la condizione depressiva a farci vivere, sia pure temporaneamente, nel silenzio ma anche l'angoscia che non vive nel passato, come la tristezza, ma che vive in un futuro dal quale scompare ogni traccia di speranza. Non è possibile ascoltare questi silenzi se non ci si analizza nella nostra vita interiore, e non ci si adatta a reggere il peso del silenzio dell'altro, e del nostro silenzio; ed è così difficile. Ma c'è anche, ed è il silenzio più crudele e lacerante, il silenzio che nasce dalla perdita, o almeno dalla compromissione, delle capacità logiche ed espressive, e in questo caso il tempo, l'esperienza del tempo vissuto, si frantuma insieme al tempo degli orologi. Non resta se non il mistero di una vita che smarrisce il suo significato senza divenire vita non più degna di essere vissuta.
Queste sono alcune riflessioni sul silenzio imposto dalla malattia, o dal destino, che ci obbliga in ogni caso a seguire il cammino verso l'interno delle nostre sensibilità, e delle nostre speranze infrante.
Ma come dimenticare il silenzio delle notti, che ardano di stelle, il silenzio del mare, così silenzioso anche quando infuria assordante, e il silenzio delle montagne, il silenzio del Monte Rosa, che ogni giorno vedo risplendere nelle sue temerarie e vertiginose altezze; ma non mi è nemmeno possibile dimenticare il silenzio delle arcane Basiliche che il destino mi ha fatto incontrare in vita, e fra queste, per ragioni molto diverse, la Basilica palatina di santa Barbara a Mantova, e la Basilica di san Giulio che nell'Isola di san Giulio è ancorata alle acque diafane e silenziose del Lago d'Orta. La Basilica palatina di santa Barbara mi è apparsa nella sua bellezza e nel suo silenzio una sera nella quale, invitato dagli organizzatori del festival della letteratura di Mantova, ho parlato di Virginia Woolf, delle Onde, il suo insondabile romanzo, e della sua morte volontaria; e mai come in questa occasione mi sono sentito immerso nel mare di un immenso silenzio, del silenzio della basilica e del silenzio delle persone che erano là, con le quali le mie parole cercavano di essere in sintonia: cosa che solo i loro sguardi potevano aiutarmi a creare. Ma da sempre conosco il silenzio della Basilica di san Giulio, che fa parte della mia speranza e della mia vita, alla quale, la domenica, dal monastero, che le è accanto, giungono nel silenzio le monache benedettine, e nei loro bellissimi canti gregoriani il silenzio continua a risuonare in altro modo: senza nemmeno esserne incrinato. Il silenzio del monastero mi è solo possibile immaginarlo nella sua solitudine e nel suo mistero; ma mi sembra di coglierne le tracce nei volti delle monache gentili: sono volti, giovani e non più giovani, che testimoniano di un silenzio del cuore che è preghiera, ed è ascolto dell'infinito. Questo vorrei dire sulla scia di una emozione che ogni volta mi si rinnova nel vederle, e nel sentirle cantare.
Non potrei ora non citare, a questo riguardo, una bellissima poesia, che Rainer Maria Rilke ha dedicato al Béguinage Sainte-Elisabeth di Bruges, e nella quale il silenzio, e la solitudine, delle monache si intrecciano al canto.

Là stanno inginocchiate, avvolte in puri lini,
uguali, come se una sola immagine
si ripetesse nel corale in mille

profondi, chiari specchi, scanditi dai pilastri;
e le voci s'innalzano nel canto
sempre più ripide e di là si gettano,
dalla vetta dell'ultima parola,
agli angeli che non le restituiscono.

Perciò, quando si levano e si voltano, in basso,
non parlano. Si porgono in silenzio,
con un inchino e un segno cui le altre
rispondono con segni, l'acqua santa
che fa le fronti fresche e pallide le bocche.

Poi, velate e raccolte, riattraversano
la striscia, dirigendosi

- le giovani tranquille, malsicure le anziane,
e una vegliarda che s'indugia dietro -
alle case che subito nel silenzio le avvolgono
e che attraverso gli olmi si rivelano mostrano di tanto
in tanto un po' di pura solitudine
che da una piccola lastra traluce.

Il linguaggio dei gesti, il linguaggio dei segni, sostituisce quello delle parole che sono nascoste nel silenzio.
Non c'è solo, dicevo, l'ascolto del silenzio ma anche l'ascolto nel silenzio, ed è il silenzio che la parola alta e commossa di Kierkegaard ha descritto nei suoi indicibili bagliori; e allora come ascoltare le cose che ci sono dette, e come sapere testimoniare l'attenzione che chi parla desidera avere? Come sono infiniti i modi di fare silenzio, e di essere nel silenzio, e come dovremmo essere capaci di adeguare il tempo interiore, che è in noi, al tempo interiore, che è negli altri, che ci stanno parlando; e come è facile distrarsi, quando si tace, e si ascolta, o lasciarsi divorare dalla noia, o dalla noncuranza, o dalla indifferenza. A questo riguardo vorrei citare le cose che ha scritto Giovanni Pozzi, un grande studioso delle esperienze mistiche, in un suo piccolo libro dal titolo struggente: Tacet. Sono parole che non hanno le latitudini vertiginose e inenarrabili di quelle di Kierkegaard; ma che ne riflettono le risonanze nella vita di ogni giorno.
"Per ascoltare occorre tacere. Non soltanto attenersi a un silenzio fisico che non interrompa il discorso altrui (o se lo interrompe, lo faccia per rimettersi a un successivo ascolto), ma a un silenzio interiore, ossia un atteggiamento tutto rivolto ad accogliere la parola altrui. Bisogna far tacere il lavorio del proprio pensiero, sedare l'irrequietezza del cuore, il tumulto dei fastidi, ogni sorta di distrazioni. Nulla come l'ascolto, il vero ascolto, ci può far capire la correlazione fra il silenzio e la parola. È l'analogo della musica. La si ascolta pienamente quando tutto tace intorno a noi e dentro di noi." Queste parole non invitano forse ad ascoltare con attenzione e con passione quello che ci viene detto, cercando di coglierne la eco in noi: nel nostro cuore? Ma non è facile accogliere il silenzio in noi, e negli altri, in una epoca contrassegnata dalla intolleranza alla meditazione e alla contemplazione, al silenzio e alla comunione: come dice ancora Giovanni Pozzi. "Il grembo del silenzio notturno è rotto dal fragore delle macchine. Costretti a passare una notte in luogo isolato, ci si alza irrequieti; il silenzio diventa un incubo nel sonno. Spaventa la pace della montagna, del bosco; e vi si va con la radio, spaventa la quiete dell'appartamento, e la si accende. Il silenzio infastidisce a tal punto che, dove sia imposto di tacere, si crea un rumore. Se nel corso di un discorso pubblico o di una liturgia s'impone una pausa di silenzio, immancabilmente uno si mette a tossire, una fa scricchiolare il banco, uno sfoglia le carte sottomano, una apre la borsetta."
Sì, si ha paura del silenzio, ci si annoia nel silenzio, lo si rivive come una infinita perdita di tempo, non si riesce a riempirlo con qualcosa che nasca dalla nostra interiorità; ma le cose cambiano, la paura del silenzio si converte in nostalgia del silenzio, quando siamo immersi nel dolore e nell'angoscia, e abbiamo desiderio di silenzio, di un silenzio che solo la parola ispirata possa semmai incrinare. Quando viviamo nel dolore e nell'angoscia, nell'attesa e nel timore, si ha immediata la percezione dei significati del silenzio che sono così difficili da spiegare con le parole della ragione calcolante: ne inaridisce le sorgenti, e la vita. Ma come ascoltare questi silenzi, come mettersi in sintonia con il loro linguaggio, come coglierne le ombre e la grazia, e come interpretarne la voce segreta, la voce che viene dal cuore, e che solo gli occhi bagnati di lacrime riescono a vedere? (Le parole di Paul Celan: "Ci sono occhi che vanno al fondo delle cose. Essi scorgono un fondamento. E ce ne sono altri che sprofondano nelle cose. Questi non scorgono fondamenti. Ma vedono più profondo".) Ciascuno di noi ha un suo modo di fare silenzio, di tacere, e un suo modo di desiderare il silenzio, ma anche un suo modo di vivere il tempo del silenzio: come un peso, o come un compito, come una perdita di tempo, o come una crescita morale.
Solo il silenzio interiore ci consente di ascoltare fino in fondo una persona che sta bene, e soprattutto una che sta male: mettendoci in armonia con la loro esperienza interiore del tempo, e tenendone presenti le attese e le speranze, le segrete inquietudini del cuore e la disperazione. Non solo in psichiatria, ma nella vita di ogni giorno, quante infinte occasioni di ascolto noi abbiamo, ma siamo capaci di immedesimarci nei pensieri e nelle emozioni, nelle parole non dette, delle persone con cui entriamo in comunicazione? Come scrive Nietzsche, è necessario essere capaci di ammirazioni impetuose, e di accogliere dentro di sé molte cose con amore, perché altrimenti non si è adatti né a comunicare quello che si vuole dire né a comprendere quello che si ascolta. Quante sofferenze, e quante ferite eviteremmo, se ogni volta seguissimo il cammino che ci porta a presagire quello che avviene in noi, nella nostra interiorità, e in quella degli altri. Ogni giorno siamo circondati da sciami di attese: quelle delle persone che ci chiedano l'aiuto di una parola, di uno sguardo, di un gesto, o di una semplice stretta di mano.
Ogni relazione, ogni forma di comunicazione, non solo quella delle parole, ma quella del silenzio, franerebbe se non si muovesse sulla scia del modo di vivere il tempo che, di situazione in situazione, si manifesta in ciascuno di noi, e in particolare in chi cura e in chi è curato. Quando ci si incontra con un paziente in psichiatria, e non solo in psichiatria, il modo con cui ci si guarda, e ci si saluta, è importante nel creare, o nell'ostacolare, una relazione, ma ancora più importanti sono le concordanze fra il tempo di chi cura, e quello di chi è curato. Il tempo dell'io, il tempo interiore, e il tempo misurabile, il tempo della clessidra, si intrecciano l'uno all'altro; e il colloquio diviene terapeutico solo se il tempo del colloquio non sia rigidamente programmato. Cosa ne sappiamo noi delle tempeste emozionali, delle angosce, della disperazione e delle delusioni, che nascono e muoiono nella coscienza di chi sta male, se non viviamo il tempo come apertura, e come mistero, come comune esperienza psicologica e umana?
Nel concludere questo mio discorso sugli infiniti aspetti del silenzio, del silenzio che si intreccia al tempo, vorrei richiamarmi alle ultime cose che Giovanni Pozzi ha scritto nel suo libro. "La cella e il libro sono le stanze della solitudine e del silenzio. Della solitudine, la cella, non casupola di frasche nel deserto, né carcere murato, ma collocato al centro dell'uomo: il cuore che mai non dorme. Vigile nell'ascolto, metafora assoluta dell'abitacolo e metonimia dell'intera persona umana"; e infine: "Del silenzio, il libro, deposito della memoria, antidoto al caos dell'oblio, dove la parola giace, ma insonne, pronta a farsi incontro con passo silenzioso a chi la sollecita. Amico discretissimo, il libro non petulante, risponde solo se richiesto, non urge oltre quando gli si chiede una sosta. Colmo di parole, tace".
Ogni libro, che voglia avvicinarsi alle grandi questioni della vita, e in particolare alla speranza e alla disperazione, alla inquietudine dell'anima e all'angoscia, al desiderio e alla nostalgia della morte volontaria, e anche alla esperienza del tempo nei suoi enigmi e nel suo mistero, non può non avere come suoi orizzonti di senso la solitudine e il silenzio; nel momento in cui il libro viene scritto, e nel momento in cui viene letto. Silenzio e solitudine sono luoghi dell'anima dai quali possono rinascere parole che dicano qualcosa, almeno qualcosa, sul senso del tempo della vita nelle diverse età, e nelle diverse situazioni della vita, ma nella consapevolezza che le ombre del mistero non sono eliminabili dalla esperienza del tempo che è in noi, e negli altri da noi.

(Il tempo e la vita, Feltrinelli 2015, pp. 199-205)