Chi è Gesù
di Nazaret?
Franco Ardusso
Gesù è piuttosto restio a parlare di sé, egli «esita a definire se stesso. Desidera che siano gli altri a scoprirlo e ad esprimere il risultato di questa loro scoperta. Ciò significa che non ha voluto affidare la sua identità a una formula. Sarebbe stato troppo facile, e con il rischio di raccogliere adesioni superficiali o di provocare l'automatismo delle ripetizioni» [1].
Lo si avverte in particolar modo nel Vangelo di Marco, chiamato appunto «il vangelo del segreto messianico». In esso, a chi ha in qualche modo intuito chi sia Gesù di Nazaret, viene imposto di tacere, di non dirlo a nessuno. Il «segreto» di Gesù si rivela appieno solo alla fine, a chi lo ha seguito pazientemente nel suo cammino. La reticenza da parte di Gesù nel parlare di se stesso viene spiegata dagli studiosi dei vangeli ricorrendo ad alcune considerazioni.
Innanzitutto, a Gesù interessava in primo luogo il regno di Dio. Qui infatti si trovano, come abbiamo visto, il centro unificatore e il cuore pulsante del suo messaggio e della sua azione. Inoltre, un parlare troppo manifesto sulla sua persona da parte di Gesù avrebbe dato luogo a probabili travisamenti e a incomprensioni. Anticipiamo, per ragioni di chiarezza, alcune conclusioni alle quali approderemo in seguito.
Gesù è il Messia, ma un messia sotto molti aspetti diverso da come la gente l'aspettava, anche se il giudaismo del tempo di Gesù era tutt'altro che unitario, anche in ciò che concerneva l'attesa messianica.
Egli non è il Messia nazionalistico che punta al successo popolare, non è il liberatore dal giogo dei romani come volevano gli zeloti, non è neppure il Messia della legge e della gente pia, quale era atteso dai farisei e da altri gruppi religiosi separatisti di quel tempo. Gesù intende essere il Messia umile, che percorre la strada poco popolare della croce, che siede a mensa coi peccatori e coi pubblicani, che non cerca il successo mediante azioni strepitose [2].
Gesù, inoltre, è più che Messia. È figlio stesso di Dio. Quest'ultima idea doveva riuscire particolarmente inaccettabile a un popolo rigidamente monoteista, al quale Mosè e i profeti avevano vietato persino qualsiasi raffigurazione di Dio, anche se «la figura messianica tendeva al tempo di Gesù a caricarsi di valenze preterumane» [3]. Si aggiunga ancora, a rendere ulteriormente complessa la situazione, il fatto che Gesù vuole essere il Figlio di Dio che rivela e occulta la sua grandezza e la sua gloria tramite il supplizio infamante della croce. Anche per i discepoli, che avevano cominciato timidamente a credere in Gesù quale Messia e Figlio di Dio, la morte di Gesù in croce fu un elemento scandaloso e disturbatore, che rimise in questione la loro fede incipiente. La croce, almeno in un primo momento, sembrò essere la fine di tutto. Solo la risurrezione fece sì che i discepoli superassero definitivamente l'ostacolo della croce, la quale «doveva sembrare a un greco colto una stoltezza barbarica, a un cittadino romano una esecrabile infamia, a un ebreo credente una maledizione di Dio» [4].
Abbiamo così anticipato alcune cose sulle quali torneremo in seguito. Riprendiamo ora il discorso sul messaggio e sull'attività di Gesù prima della sua morte. Quali elementi possiamo in essi riscontrare, capaci di aprirci un varco verso la persona di Gesù e la sua identità profonda? Ci avverte un noto studioso contemporaneo, J. Galot, che non dobbiamo attenderci chiarezze folgoranti. Il Figlio di Dio si rivela con discrezione. «Le parole con le quali Gesù ha rivelato la sua identità – osserva Galot – non hanno la chiarezza folgorante che avremmo desiderato o previsto da colui che vuol farsi scoprire come Figlio di Dio. Esse restano soggette a discussione a causa dell'oscurità che comportano. Mai Gesù ha rinunciato alla sua discrezione; egli che avrebbe potuto affermare apertamente di essere Dio, non si è mai espresso in tale maniera. È andato avanti con allusioni, insinuazioni o dimostrazioni velate che lasciavano sussistere una zona di mistero» [5]. Gesù è Figlio di Dio nell'umiltà!
Per noi si tratterà allora di individuare quelle discrete manifestazioni «indirette» della persona di Gesù, alle quali si è fatto cenno nei capitoli precedenti (cristologia indiretta o implicita). Possiamo sin d'ora sintetizzarle in tre proposizioni:
a) Gesù accampò pretese straordinarie nel proporre il suo messaggio a nome di Dio;
b) Gesù manifestò col suo agire la straordinaria coscienza di essere il Salvatore inviato da Dio;
c) Gesù ebbe con Dio una relazione filiale unica e incomparabile.
Gesù accampò pretese straordinarie nel proporre il suo messaggio a nome di Dio
A prima vista Gesù dovette rassomigliare ai maestri della legge del tempo: egli raccolse attorno a sé un gruppo di discepoli che ammaestrò nella legge e nel compimento della volontà divina. Ma è proprio il rapporto di Gesù con la legge che lo distingue dagli altri maestri. I rabbini del tempo, pur appartenendo a scuole teologiche diverse, condividevano la certezza del valore vincolante e assoluto della legge. Le differenze fra i vari maestri e le loro scuole si riferivano unicamente al modo di interpretare questa legge vincolante e assoluta. Gesù abbandona questa base comunemente presupposta da tutti i dottori della legge e colloca, accanto alla parola di Dio dell'Antico Testamento, la sua parola, alla quale attribuisce la stessa autorità: «Avete inteso che fu detto [da Dio] agli antichi... Ma io vi dico» (Mt 5,21ss; cfr. Mt 5,27ss.33ss.38ss.43ss). Il verbo passivo «fu detto» suppone come complemento di agente «Dio» (fu detto da Dio!): si tratta, come si sa, di un modo caratteristico di riferirsi a Dio senza peraltro nominarlo. Qui sta la radicale differenza tra Gesù e i rabbini, differenza immediatamente percepita dai suoi uditori, i quali «erano stupiti del suo insegnamento, perché insegnava loro come uno che ha autorità e non come gli scribi» (Mc 1,22). «Che è mai questo? – si domandava la gente –. Una dottrina nuova insegnata con autorità!» (Mc 1,27).
L'impressione che Gesù faceva ai suoi ascoltatori è espressa nei vangeli col termine caratteristico di «autorità» (exousia). «Certo – commenta G. Bornkamm – in questa parola "autorità" c'è già tutto il mistero della personalità e dell'influenza di Gesù, quali la fede le comprende... E tuttavia con tale espressione è designata una realtà propria del Gesù storico e precedente a ogni interpretazione» [6].
L'autorità di Gesù, la sua coscienza di essere il rappresentante autorizzato di Dio sulla terra, si esprime in modo singolare nel ricorso, da parte di Gesù, a quello che J. Jeremias chiama l'«io enfatico», attestato sia nei sinottici che nel quarto vangelo. Questo «io» di Gesù contiene una profondissima «cristologia implicita». La sicurezza, che non conosce esitazioni, quale traspare da questo «io vi dico», lascia intendere che Gesù è certo di annunciare in maniera definitiva la volontà di Dio. «Colui che pronuncia l'io vi dico delle antitesi si presenta non solo come il legittimo interprete della legge..., ma ha l'ardire, unico e rivoluzionario, di porsi in contrasto con la legge... Senza paralleli nell'ambiente di Gesù, e perciò sorprendente per i suoi contemporanei, è pure l'io unito alla coscienza di parlare con autorità, usato imperativamente nelle guarigioni (Mc 9,25: "Io te lo ordino"; cfr. Mc 2,11 par.: "dico a te"), come pure nelle parole di invio in missione (come Mt 10,16: "Ecco, io vi mando") e nelle espressioni di confronto (come Lc 22,32: "ma io ho pregato per te"). Questo io è unito all'amen e perciò afferma di parlare nella pienezza dell'autorità divina; vuol disporre della doppia autorità regale di Dio, cioè del potere di perdonare e di legiferare. Esige che si lasci ogni altro vincolo, compreso quello che lega al padre e alla madre (Mt 10,37 par.; Lc: 14,26). Sostiene che la salvezza dipende dal professare fede in lui (Mt 10,32ss par.). Prende addirittura il posto della legge; nel giudaismo contemporaneo infatti si diceva: chi ascolta le parole della legge e compie opere buone costruisce su solida base; qui invece si afferma: chi ascolta le mie parole (Mt 7,24-27). L'io enfatico denota la coscienza di essere il rappresentante di Dio» [7].
Gesù manifestò, tramite il suo agire, di essere il Salvatore inviato da Dio: egli agiva al posto di Dio
Elenchiamo alcuni aspetti della prassi di Gesù che verificano questa affermazione:
1. Gesù siede a mensa coi pubblicani e coi peccatori. È una tradizione evangelica solidamente attestata e confermata anche dalla designazione con la quale Gesù dovette presto essere bollato: «amico dei pubblicani e dei peccatori» (Mt 11,19). Come abbiamo già rilevato, la comunità di mensa nel giudaismo significava comunione di vita e accettazione reciproca. In alcuni casi il pasto preso in comune aveva addirittura il significato di anticipazione del banchetto celeste. I banchetti di Gesù coi peccatori, stante queste concezioni del tempo, acquistavano densità teologica: col suo comportamento, che suscitava scandalo (Mt 11,19 par.; Lc 5,30; 15,24; 19,7), Gesù accoglieva praticamente i peccatori nella comunione con Dio. Con tale prassi, Gesù rivendicava il potere di rimettere i peccati, unitamente al potere di ristabilire in modo definitivo le relazioni fra Dio e gli uomini infrante dal peccato.
Agendo in questa maniera, Gesù pretende «indirettamente» di avere una perfetta consonanza di intenti con Dio e manifesta nello stesso tempo di avere una relazione intima e profonda con Dio stesso. Alla prassi di convivialità coi peccatori fa riscontro in Gesù la prassi di perdono esplicito dei peccatori. Gesù non si limita ad annunciare che Dio perdona i peccati: questo lo crede ogni
Il comportamento di Gesù che perdonava i peccati doveva suscitare in tutti i benpensanti di allora una reazione di questo genere: «Un uomo anticipa qui il giudizio di Dio. Contro tutte le tradizioni di Israele, qualcuno qui sta facendo ciò che è riservato a Dio solo: la sua è un'ingerenza nella sfera divina, una usurpazione del più divino tra i diritti divini» [8]. All'accusa di bestemmia, Gesù risponde, tra l'altro, con le parabole che parlano della gioia di Dio per il ritrovamento della pecorella smarrita, per il ritorno a casa del figlio perduto, per la riscoperta della moneta preziosa (Lc 15). 0 ancora con la parabola del fariseo e del pubblicano (Lc 18,9-14) e con quella del padrone della vigna (Mt 20,1-15). Significativo è il fatto che in tutte queste parabole «Gesù giustifica la sua condotta rifacendosi al comportamento di Dio: egli agisce quale rappresentante di Dio» [9].
2. Gesù compie miracoli. Essi, come s'è visto sopra, significano che la signoria di Dio, che vuole salvare l'uomo integralmente, è entrata nella storia umana proprio mediante l'azione di Gesù. Dio agisce come signore e salvatore mediante la persona e l'opera di Gesù come attesta il celebre detto riferito da Lc 11,20: «Se io scaccio i demoni con la potenza di Dio, è dunque giunto a voi il regno di Dio».
Questa coscienza, che Gesù manifesta, di essere egli stesso la signoria salvifica di Dio che si attua qui e adesso nella storia degli uomini, e inaugura la nuova creazione, traspare anche da una serie di immagini e di espressioni alle quali Gesù fa ricorso:
– Gesù è l'inviato del Padre ed è venuto per chiamare i peccatori (Mc 2,17 par.; Lc: 19,10);
– Gesù è il medico degli ammalati (Mc 2,17 par.);
– con Gesù il tempo della salvezza si compie (Mc 1,15 par.): per questo egli proclama: «Beati i vostri occhi perché vedono, e i vostri orecchi perché odono» (Mc 13,17);
– Gesù è lo sposo (Mc 2,19) che porta la novità del regno, simboleggiata dal vestito nuovo e dal vino nuovo (Mc 2,21-22);
– là dove Gesù entra e viene accolto, giunge la salvezza, come succede a Zaccheo, al quale Gesù dice: «Oggi la salvezza è entrata in questa casa» (Lc 19,9);
– Gesù è colui che ha il potere di ricostruire il nuovo tempio di Dio (Mc 14,58 par.).
Le azioni di Gesù, delle quali i suoi ascoltatori percepivano la portata, sollevavano la domanda sulla sua persona: «Con quale autorità fai queste cose? O chi ti ha dato l'autorità di farle?» (Mc 11,28).
3. Gesù agisce anche di sabato, quando è necessario per il bene degli uomini. Ciò suscitava scandalo. Il sabato era, infatti, il giorno del riposo nel quale anche Dio, secondo il racconto sacerdotale della Genesi, si era riposato dopo la fatica dei sei giorni della creazione (Gn 2,2). Gesù giustifica il suo agire affermando che «il Figlio dell'uomo è signore anche del sabato» (Mc 2,28). Chiaramente, con tale affermazione Gesù si poneva implicitamente su di un piano di parità con Dio, allo stesso modo come lasciava intendere il suo singolare rapporto con la legge.
4. Gesù chiede agli uomini di decidersi per Dio (conversione e fede). Questa decisione si attua concretamente nel rapporto che gli uomini instaurano con Gesù stesso. Per giungere a Dio, gli uomini devono riconoscere e accettare Gesù e il suo messaggio: «Chi si vergognerà di me e delle mie parole davanti a questa generazione adultera e peccatrice, anche il Figlio dell'uomo si vergognerà di lui, quando verrà nella gloria del Padre suo con gli angeli santi» (Mc 8,38).
Gesù esige un amore totale ed esclusivo, superiore a quello che ognuno porta verso le persone più care: «Chi ama il padre o la madre più di me, non è degno di me» (Mt 10,37).
Giunge persino a esigere, se è necessario, il dono della vita: «Chi avrà perduto la sua vita per causa mia e del vangelo, la troverà» (Mc 8,35). Accogliere Gesù è pertanto decisivo e determinante in rapporto alla salvezza finale (Lc 12,8ss).
Tutte queste richieste di Gesù pongono il problema della sua persona. In effetti, Gesù avanza pretese che solo Dio può accampare nei confronti degli uomini. Significativo è anche il fatto che quel Gesù, il quale invita a non giudicare mai il prossimo (Mt 7,1-5), riservi a sé il potere di giudicare tutti gli uomini, un potere che, evidentemente, spetta a Dio solo (Mt 16,27; 25,31-46).
5. L'agire di Gesù e le risposte che egli dà ai suoi interlocutori lasciano intendere che egli è superiore a tutti i personaggi, a tutte le istituzioni e a tutte le realtà religiose di Israele. L'atteggiamento di Gesù nei confronti della legge attesta la sua superiorità rispetto al massimo legislatore di Israele, Mosè, e rispetto alla più importante istituzione ebraica, la legge (Mt 5,21-48). Gesù non si lascia neppure inquadrare perfettamente nello schema del profeta, un'altra importantissima istituzione di Israele, anche se molta gente pensava che egli fosse uno dei profeti (Mc 6,15).
Anche Gesù considerò se stesso come profeta. Anche la cristologia più arcaica, nel suo primo tentativo di identificazione personale di Gesù, lo considerò come il profeta degli ultimi tempi, il profeta del regno finale di Dio [10]. E tuttavia la figura del profeta non si attaglia perfettamente alla persona di Gesù. Il suo modo di parlare non è quello dei profeti. Questi si premuravano di distinguere con cura le proprie parole dalla parola di Dio. Ciò che esse annunciavano come parola di Dio veniva introdotto, intercalato o concluso dalle espressioni: «Così parla il Signore», «Oracolo del Signore», «Parola del Signore» (ad esempio: Ger 2,2ss.5.9.12.19). In Gesù non c'è traccia alcuna di queste tipiche distinzioni dei profeti. Evidentemente Gesù pretende di avere autorità divina non soltanto nel proferire questa o quella parola. Tutto il suo annuncio è «parola di Dio». Praticamente, Gesù pone sullo stesso piano la sua parola e quella di Dio.
Al di sopra della parola del profeta non ci può essere altro che la parola stessa di Dio!
Se Gesù accetta di essere considerato profeta, vuole però che sia chiara la sua superiorità assoluta rispetto agli altri profeti: «Molti profeti e giusti – dice Gesù – hanno desiderato vedere ciò che voi vedete, e non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, e non l'udirono» (Mt 13,17).
Gesù è superiore ai sapienti di Israele che riconoscevano in Salomone il maestro insuperabile di saggezza: «Ecco, ora qui c'è più di Salomone!» (Mt 12,42), dichiara Gesù agli scribi e ai farisei che vorrebbero vedere un segno. Gesù è superiore al re Davide, come risulta dalla questione che Gesù pose ai suoi uditori, se il Messia fosse figlio oppure signore di Davide (Mc 12,35-37). Nel Vangelo di Giovanni, in alcuni passi già teologicamente elaborati, viene manifestata la superiorità di Gesù rispetto ai patriarchi del popolo di Israele: Abramo (Gv 8,52-59), Giacobbe (Gv 4,12-14).
Della superiorità di Gesù sull'istituzione del sabato abbiamo già parlato. Infine, l'affermata superiorità di Gesù rispetto al tempio di Gerusalemme (Mt 12,6; Mc 14,58 par.) costituirà uno dei capi di accusa nei suoi confronti davanti al tribunale del sinedrio.
Persino agli angeli è superiore il Figlio, dichiara Gesù nel discorso escatologico (Mc 13,32).
Dalle parole di Gesù, pronunciate con autorità, e dalle opere da lui compiute con potenza, emerge la «cristologia indiretta». Non già una cristologia qualsiasi, ma la cristologia del Figlio di Dio. I poteri che Gesù rivendica (sulla legge, sul sabato, sul peccato, sul giudizio), e la sua pretesa di inaugurare e di mediare la salvezza definitiva di Dio, lo collocano su di un piano divino. Nell'incontro con lui – questa è la pretesa inaudita di Gesù – si sperimenta la presenza salvifica di Dio. In Gesù «si entra a contatto con Dio e il suo regno; in lui s'incontrano la gloria di Dio e il suo giudizio; egli è il regno di Dio, la parola di Dio, l'amore di Dio in persona» [11]. Donde viene a Gesù questa certezza e questa coscienza? I vangeli ce ne danno la risposta: dalla relazione unica, senza termini di paragone, che Gesù ebbe con Dio Padre.
Gesù ebbe col Padre una relazione filiale unica e incomparabile
Anche su questo punto Gesù si differenziò profondamente dal suo tempo e dalla tradizione alla quale ogni ebreo si rifaceva continuamente, quella contenuta nei libri dell'Antico Testamento. Col Padre, che lo ha inviato, Gesù ha un rapporto così intimo e profondo che lo colloca su un piano di parità, con lui.
Anche alcuni esponenti della teologia protestante liberale, come Harnack, notarono che Gesù aveva vivissimo il senso della paternità divina. Ma per la teologia liberale, Gesù era Figlio di Dio come lo siamo noi. Variava solo il grado di intensità. Harnack giunse addirittura ad affermare che «il vangelo, così come Gesù l'ha annunciato, non parla del Figlio, ma solo del Padre». Come se si potesse parlare di Dio Padre senza parlare di colui che ne è il Figlio!
Un'attenta analisi di quanto attestano i vangeli ci permette invece di concludere che il vangelo annunciato da Gesù parla del Padre e del Figlio o, meglio, del loro rapporto totalmente unico e singolare per cui Gesù è Figlio di Dio in maniera qualitativamente diversa da come lo siamo noi. Innanzitutto colpisce il modo nuovo e insolito col quale Gesù si rivolge al Padre. Una sola volta, al momento della passione, Gesù si rivolge in preghiera al Padre col termine aramaico Abba: «Abba, Padre!» (Mc 14,36).
J. Jeremias ha però mostrato in modo abbastanza convincente che, nelle sue preghiere, Gesù si sarebbe sempre rivolto a Dio con l'invocazione «Abba», con la sola eccezione del grido in croce (Mc 15,34 par.), eccezione motivata dal fatto che in quel momento Gesù cita il salmo 22,2. Lo stesso Jeremias ha mostrato che in tutti e cinque gli strati della tradizione evangelica Gesù si è rivolto a Dio con l'espressione «Padre mio» (una volta in Mc 14,36; tre volte nella fonte Q, comune a Matteo e Luca; due volte nel materiale proprio del Vangelo di Luca; una volta nel materiale proprio del Vangelo di Matteo; nove volte in Giovanni). Questa «attestazione molteplice» è un buon indizio di storicità.
Questo modo costante di Gesù nel rivolgersi al Padre con «Abba» e «Padre mio» è particolarmente significativo per il fatto che «noi non possediamo una sola prova
che nel giudaismo ci si rivolgesse a Dio con "Abba"» [12].
Già il rivolgersi a Dio col titolo di «Padre» era, nel giudaismo, cosa piuttosto infrequente. Ma il rivolgersi a lui con «Abba» era una novità assoluta. «Abba», infatti, faceva parte del linguaggio quotidiano e familiare (non Nolo infantile, come si dice talora). «Alla sensibilità dei contemporanei di Gesù – fa osservare Jeremias – sarebbe sembrato irriverente, anzi impossibile, rivolgersi a Dio con questo gergo familiare» [13].
Il fatto che Gesù, nel rivolgersi al Padre, adoperi questa espressione del linguaggio familiare, apre a noi uno squarcio molto importante sulla sua relazione con Dio. E una relazione unica, diversa da tutte quelle a noi note, una relazione fatta di fiducia totale, di piena consapevolezza di essere «il Figlio». Questa coscienza di essere Figlio di Dio in modo unico brilla luminosa nel quarto vangelo che l'ha fortemente esplicitata. [14]
Qui troviamo l'ultimo fondamento della storia e della persona di Gesù, di qui derivano la sua autorità e il suo potere. Il termine «Abba», si potrebbe dire con un po' di esagerazione, contiene in germe tutta la cristologia del Figlio di Dio, quella che nel 325 d.C. sarà esplicitata dal concilio di Nicea, che professa che Gesù Cristo ha la stessa natura del Padre («consostanziale al Padre»).
Gesù, pur avendo insegnato ai suoi discepoli a rivolgersi a Dio col titolo di «Padre» (Lc 11,2), distingue tuttavia la sua filiazione divina da quella degli altri uomini. Gesù non dice mai, eccetto che nella preghiera insegnata ai discepoli, «Padre nostro». Rivolgendosi ai discepoli, Gesù parla loro del «Padre vostro» (Mt 6,8.15; 10,20.29 ecc.), del «Padre loro» (Mt 13,43).
La formulazione più netta della distinzione la troviamo nelle parole di Gesù alla Maddalena, dopo la risurrezione: «Io salgo al Padre mio e Padre vostro» (Gv 20,17). «Una tale costanza nella distinzione – osserva J. Galot – deve corrispondere a un uso molto netto da parte di Gesù». Gesù ha reso partecipi della sua filiazione i discepoli, «lasciando tuttavia sussistere la distinzione. La filiazione di Gesù rimane unica, pur prendendo un'estensione universale» [15].
È particolarmente eloquente al riguardo la parabola dei cattivi vignaioli (Mc 12,1-12). Dopo l'invio, più volte ripetuto, dei servi (i profeti), il padrone della vigna (Dio) invia il Figlio prediletto, unico perché erede (Gesù). Paragonati a Gesù, i profeti sono dei servi. Egli solo è il figlio.
Anche un celebre detto di Gesù è molto illuminante per comprendere la sua relazione unica e irripetibile col Padre: «Tutto mi è stato dato dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio, e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare» (Mt 11,27).
Per molto tempo ci fu chi screditò questo detto, ritenendolo «un tardo prodotto della comunità ellenistica», oppure «un meteorite caduto dal cielo giovanneo». J. Jeremias, invece, ha mostrato che tale detto appartiene «senza possibilità di equivoco» all'ambito linguistico semitico. «Nulla – scrive Jeremias – sta contro l'autenticità di Mt 11,27 par., anzi sta decisamente in suo favore l'intimo rapporto di questo detto con l'appellativo di Abba dato da Gesù a Dio» [16]. Con questo detto, Gesù vuole esprimere che il Padre gli ha trasmesso la manifestazione piena di se stesso, e che pertanto unicamente Gesù può dischiudere agli altri la vera conoscenza di Dio.
J. Jeremias traduce Mt 11,27 con la seguente versione non letterale, ma a senso, allo scopo di farne percepire la portata teologica: «Come il padre parla con suo figlio, come gli insegna le lettere della Torah (legge), come lo introduce nel segreto geloso del suo mestiere, come non tace nulla a lui, ma apre a lui il suo cuore a differenza di tutti gli altri, così Dio mi ha partecipato la sua conoscenza» [17].
La consapevolezza di Gesù di essere, in modo unico e singolare, il destinatario e il mediatore della conoscenza del Padre, non si trova espressa soltanto in Mt 11,27. Altri detti vanno nella stessa linea di pensiero. Così, ad esempio, la proclamazione che Gesù fa: «Beati gli occhi che vedono ciò che voi vedete. Vi dico che molti profeti e re hanno desiderato vedere ciò che voi vedete, ma non lo videro, e udire ciò che voi udite, ma non l'udirono» (Lc 10,23ss; cfr. Mt 13,16ss; Mc 4,11; Lc: 15,1ss).
Vanno segnalate ancora alcune espressioni dalle quali traspare la singolare coscienza che Gesù aveva del suo rapporto incomparabile con Dio. Si tratta delle espressioni: «Sono venuto», «Sono stato inviato», «Sono uscito». Esse attestano la preesistenza di Gesù col Padre. «Il Gesù terreno non concepì mai se stesso "dal basso"; egli si concepì come proveniente da una missione "dall'alto", come annuncio e segno del regno di Dio che stava venendo, come Figlio di colui che egli chiamava Padre suo in maniera tutta particolare» [18].
NOTE
1 J. Galot, Chi sei tu, o Cristo?, Lef, Firenze 1977, p. 14.
2 Sulla difficile questione storica del messianismo si veda: P. Sacchi, Il messianismo ebraico dalle origini al II secolo d.C., in Quaderni di vita monastica, n. 46, Camaldoli 1987, pp. 14-38, ora anche in Fist-Informazione, 1/1989-90, pp. 27-52; Id., Il problema delle origini cristiane: il cristianesimo come setta giudaica, in Fist-Informazione, 1/1989-90, pp. 9-26. Lo stesso autore è intervenuto recentemente sulla questione in Id., Gesù e la sua gente, San Paolo, Cinisello B, 2993, pp. 102-105.
3 P. Sacchi, Il messianismo ebraico, op. cit., p. 51.
4 H. Küng, Essere cristiani, Mondadori, Milano 19, p. 447. Si veda, ad esempio, l'obiezione fatta a Giustino dal suo interlocutore nel Dialogo con Trifone, cap. 32: «Le Scritture ci obbligano a sperare che sia glorioso e grande chi riceve.., il regno eterno. Invece, costui che voi chiamate Cristo, è vissuto disonorato e senza gloria fino al punto di sottostare all'estrema maledizione della legge di Dio: è stato infatti crocifisso».
5 J. Galot, Chi sei tu, o Cristo?, op. cit., p. 165.
6 G. Bornkamm, Gesù di Nazareth, Claudiana, Torino 1968, p. 54.
7 J. Jeremias, Teologia del Nuovo Testamento, Paideia, Brescia 1976, pp. 288-289. Ho tradotto in italiano le parole greche e quelle ebraiche. Sono pure miei i corsivi nel testo.pio ebreo. Gesù accampa invece il diritto di dire a una persona concreta: «Ti sono rimessi i tuoi peccati!». La reazione non tarda a farsi sentire da chi è sconcertato da questa inaudita pretesa: «Perché costui parla così? Bestemmia! Chi può rimettere i peccati se non Dio solo?» (Mc 2,7).
8 H. Küng, Essere cristiani, op. cit, p. 306.
9 J. Jeremias, Teologia del Nuovo Testamento, op. cit., p. 289.
10 E. Schillebeeckx, Gesù, la storia di un vivente, Queriniana, Brescia 1976, pp. 499ss.
11 W. Kasper, Gesù il Cristo, Queriniana, Brescia 1975., p. 138.
12 J. Jeremias, Teologia del Nuovo Testamento, op. cit., p. 81.
13 Ivi, p. 82. Cfr. anche C. Perrot, Gesù e la storia, Borla, Roma 1981, pp. 234246 (su Gesù e il Padre). La tesi di Jeremias è stata ridimensionata da altri studiosi: si veda una buona informazione al riguardo in R. Penna, I ritratti originali di Gesù il Cristo. Inizi e sviluppi della cristologia neotestamentaria. I: Gli inizi, San Paolo, Cinisello B. 1996, pp. 113-118.
14 Cfr. F. Dreyfus, Gesù sapeva di essere Dio?, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 1985. Cfr. anche G. Marchesi, Gesù di Nazaret: tu chi sei? La coscienza filiale del Cristo, in La Civiltà Cattolica del 7.3.1981, pp. 429-443.
15 J. Galot, Chi sei tu, o Cristo?, op. cit., p. 114.
16 J. Jeremias, Teologia del Nuovo Testamento, op. cit., p. 74.
17 Ivi, p. 75.
18 A. Schilson — W Kasper, Cristologie oggi, Claudiana, Torino 1979, p. 146.
(Gesù Cristo, Figlio del Dio vivente, San Paolo 1992, pp. 107-121)