Bellezza e resurrezione

Lilia Sebastiani

La Resurrezione di Gesù come realtà permanente e trasformatrice viene anticipata e prefigurata nella Trasfigurazione. Evento misterioso e tuttavia per noi più naturale da pensare rispetto alla Resurrezione, forse perché circoscritto, forse perché appartiene in qualche modo alla dimensione nostra anche se evoca la realtà 'altra' per mezzo di un aspetto 'altro'.
In questa scena, un'irruzione del nuovo di Dio nel tempo umano, siamo indotti ad assumere il punto di vista dei tre discepoli «presi dallo spavento»: hanno contemplato la radiosità inedita e relazionata di Gesù, ma in uno stato quasi di inconsapevolezza. Il senso di ciò che hanno visto si deposita in loro quasi sotto la soglia del pensiero e si chiarirà solo molto tempo più tardi, dopo la Resurrezione e dopo il dono dello Spirito. In questo momento non comprendono ancora, hanno solo il sentimento confuso di un'esperienza straordinaria, non sanno quello che dicono; e tuttavia la salvezza è presente, la nube luminosa li 'avvolge', li accoglie, con tutto il loro timore, la loro imperfetta comprensione, le loro opacità residue. E talvolta anche a noi sembra di essere all'ombra di una luce.

Mistero di bellezza e di gloria

La Pasqua, culmine del dono di Dio, è supremo mistero di bellezza, e ha al centro la bellezza di Gesù; la Trasfigurazione anticipa la Pasqua, la fa assaporare nel tempo. Possiamo chiamarla un evento mistico; non però nel senso disincarnato e un po' gnostico che pervade talvolta la spiritualità cristiana. Che significa contemplare la bellezza di Gesù?
Contemplare è qualcosa di più rispetto al guardare e vedere, anche se lo presuppone: lo spirituale è sempre in continuità con le realtà terrene. Significa entrare sempre più in ciò che si vede, ma sempre mantenendo il senso della propria distanza. La trasfigurazione sottolinea l'importanza della corporeità come luogo di rivelazione. Contemplare la bellezza di Gesù significa aprirsi al volto di Dio che raggia attraverso la sua fisionomia di uomo. Gesù stesso si definisce altrove «il Pastore bello» (ho poimén ho kalòs): è bello colui che compie un'opera bella, che cioè riflette la bellezza di Dio, lo stile con cui Dio opera. Anche l'atto di amore e di venerazione compiuto dalla donna di Betania nei confronti di Gesù e non capito dai discepoli viene da Gesù stesso chiamato un'opera bella (èrgon kalòn), anche se poi le traduzioni consuete, sempre un po' timorose della bellezza, hanno tradotto «un'opera buona».
A risplendere nella Trasfigurazione non è solo l'anima di Gesù (che gli evangelisti nemmeno avrebbero potuto pensare, separatamente dal corpo), ma il suo corpo che manifesta l'essere intero. Anzi, secondo Marco la trasformazione visibile riguarda le sue vesti, l'involucro della sua totalità fisica e spirituale.
La bellezza nel senso spiritualmente significativo non è solo interiore, non riguarda l'anima ma anche la sfera corporea; è irradiazione di una speciale luminosità, non riflessa dall'esterno, ma proveniente dal corpo stesso come segnale e manifestazione dell'interiorità.
C'è una percezione 'rivelativa' della bellezza corporea che è già rivelazione dell'anima, della persona. In una tale rivelazione è fondamentale la 'luce': reale e non metaforica, ma non riducibile al puro dato fisico. Per esprimere questa irruzione della luce, E. Lévinas usa il termine epifania. Noi ci sentiamo troppo evoluti per osare un certo tipo di domande che ci sembrano (e forse sono) troppo primitive e puerili, ma gli antichi scrittori cristiani non avevano i nostri scrupoli, e talvolta lasciano tranquillamente affiorare la domanda: era bello l'uomo Gesù? Il suo aspetto com'era? È difficile rispondere su ciò che gli evangelisti non dicono e non hanno mai pensato di dire, ma nell'antichità e nel Medio Evo qualcuno ha tentato di rispondere. In modi opposti, quanto alle affermazioni, che scaturiscono però dallo stesso stile di ricerca: dal Primo Testamento letto con lo sguardo fisso a Colui che deve venire nel mondo.
Così qualcuno sosteneva che Gesù era fisicamente insignificante, perché pensa al Servo del Signore nel libro del secondo Isaia: «Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per provare in lui diletto...» (Is 53,2). Altri sostenevano invece che era bellissimo, l'uomo più perfetto mai vissuto, anche nel corpo, e questo perché riferivano a lui le parole del Salmo regale: «Tu sei il più bello tra i figli degli uomini, sulle tue labbra è diffusa la grazia, Dio ti ha benedetto in eterno» (salmo 45,3).
Non è male che questo aspetto resti indeterminato e misterioso, che ritratti di Gesù né esistano né si possano immaginare, che ognuno tenda sempre un po' a dare a Gesù i connotati del proprio ideale umano, di dentro e di fuori. E tuttavia noi possiamo sapere con certezza che Gesù era bello, pur se ignoriamo tutto delle sue fattezze, bello anche nella sua vita quotidiana e 'feriale' e non solo sul Tabor, bello perché irradiante armonia interiore, perché accogliente e pieno di Spirito, perché il suo volto riflette la bellezza di Dio più di ogni altro volto umano, e la bellezza, per usare una bella espressione di Enzo Bianchi, è «dimensione in Dio che si rivela in Cristo». È una dimensione della rivelazione di Dio e riflette la sua gloria.
Contemplare questa bellezza significa e chiede in primo luogo ascolto e attesa, capacità di entrare in se stessi (quindi silenzio vero, non pura assenza di parole), di solitudine e di relazionalità, di preghiera e di attesa e soprattutto di gratuità.

Bellezza, grazia e mistero di relazione

La bellezza in senso cristiano (ma non sarebbe impossibile declinare la stessa idea in termini più 'laici') rinvia sempre al dono di Dio, all'instaurarsi di una relazione di grazia. Dio ha la sua dimora «in una luce inaccessibile», secondo 1 Tm 6,16, e quindi non può essere raggiunto dallo sguardo né dalla mente umana, eppure si può sperimentare: si sperimenta Dio come bellezza guardando la luce del volto di Gesù.
Un raggio dello splendore di Dio si può cogliere guardando con sguardo aperto e trasparente l'essere umano, che è immagine di Dio perché relazionale, cioè capace di amare, riflesso dello splendore di un Dio che è relazione in se stesso (nella Trasfigurazione si coinvolge la Trinità tutta intera, e Gesù sul Tabor non è solo, ma in dialogo con Mosè ed Elia) e ogni essere umano ha in sé la vocazione alla bellezza, a rendere bella la sua vita, a illuminarla con la luce di un Dio in relazione.
Questo vale anche per quel riflesso della bellezza divina che risplende nelle creature umane fatte a sua immagine.
La bellezza è fondamentale nel vissuto cristiano, nell'etica teologica cristiana, che significa 'diventare simili a Gesù'. Un processo che non appiattisce, ma sviluppa e illumina l'originalità personale, che in tempi passati fu chiamato imitazione di Cristo e oggi preferiamo chiamare più evangelicamente 'sequela'. Senza bellezza la vita morale cristiana si involgarisce, lo spirito diventa opaco, la novità della salvezza viene tradita e perde la capacità di essere irradiante.
Nella nostra esperienza terrena la bellezza è fondamentale ma non è mai piena e perfetta, mai appagante: anche nelle esperienze più sublimi e gratuite, è sempre una promessa. Illumina il nostro cammino, accentua il senso, indica una direzione, è memoria e caparra del futuro sperato. L'intuizione della perfetta bellezza è sempre istantanea e sempre, anche nel primo suo manifestarsi, ha già un colore di nostalgia.
Pietro sul monte della Trasfigurazione sperimenta quasi ai limiti dell'inconsapevolezza, senza sapere che cosa sta dicendo, l'infinita felicità di quel momento («Signore, è bello per noi stare qui»; dice «è bello», non «è buono», «è utile», «è giusto...», anche se sentiamo che tutti gli altri significati vi sono misteriosamente implicati). La bellezza non rinvia al 'fuori', almeno non primariamente, forse come punto di arrivo. L'estrinsecismo è il principale limite della comprensione umana del bello, e tra parentesi è anche all'origine della demonizzazione: il luogo proprio della bellezza è l'interiorità. Un articolo del card. Carlo M. Martini, pubblicato nel 1999 sul mensile Il  Segno, si intitolava «Quale Bellezza salverà il mondo?» (e intenzionalmente rinviava alla domanda che un ateo rivolge a un credente nel romanzo di Dostoevskij L'idiota). Domanda importante perché lascia supporre che il bello ha in sé una possibilità di salvare. Il bello riflette la gloria di Dio, è uno dei suoi modi di manifestazione. La bellezza 'salva' in quanto rende presente il dono di Dio e lo fa sperimentare.

Bellezza e santità

Preferiamo meditare sulla Trasfigurazione come anticipo della Pasqua, perché la Pasqua in sé si sottrae a ogni descrizione. Osserviamo così che nella vita cristiana la Trasfigurazione è memoria; ma rivolta in avanti. Memoria della centralità del bello in primo luogo, anche per quanto riguarda il buono, anzi il santo; ma ciò significa anche primato della logica del dono, primato dell'essere sull'avere (e anche sul fare, che conserva tuttavia una grande importanza, perché nel fare l'essere si storicizza). Per un credente il bello evoca con immediatezza l'apertura al trascendente che è insita nella persona. Nella Scrittura e nel linguaggio dei mistici bellezza e santità sono sinonimi. Bellezza dice 'santità', in un senso più completo; anzi, dice insieme la santità e la giusta gratificazione che ne scaturisce, la santità e la gioia che ne rende testimonianza, la santità e la pienezza futura. Rapportandosi con il bello in un modo giusto - cioè intero e propriamente umano -, si impara a trascendere l'ambito del profitto e dell'utilità, quindi a vivere e pensare da redenti: senza apertura esistenziale al bello non è possibile elaborare un'etica morale redenta e proporla al mondo.
Osservava già Bernhard Häring alla fine degli anni Settanta che la morale del «tu devi» deve essere trascesa in direzione di una morale fondata sui valori, sul loro richiamo affascinante e liberatore, sulla Grazia.
È perfettamente bella, splendente di bellezza, la Gerusalemme celeste, figura della storia umana rinnovata e compiuta: perché perfettamente rispondente al progetto di Dio, riflesso del suo sguardo. Pietro parlerà di 'condotta bella' dei cristiani (1 Pt 2,12), sinonimo della condotta santa di cui ha parlato poco prima (1 Pt 1,15-16). E noi sentiamo che questa vita cristiana 'bella' è chiaramente altra cosa dalla miseria del comportarsi bene, nel senso di non trasgredire le regole: esistono impeccabilità assolutamente mediocri, ed esistono anche eroismi patologici e
autocentrati, che risultano veramente agli antipodi di una logica redenta e di ostacolo alla vita nuova in Cristo. Vivere una vita santa dice radicamento nel mistero pasquale e apertura progrediente allo Spirito, e non può sussistere senza bellezza.
La bellezza, fatta eccezione per quella 'spirituale' - nel senso deteriore, tanto spirituale da risultare evanescente e disincarnata, è stata considerata una cosa superflua, quando non proprio un rischio. I frutti: una salvezza non sperimentabile, non comunicativa, una salvezza che non 'salva' - è un vero e proprio peccato contro lo Spirito Santo.
Per lungo tempo l'etica cristiana ha considerato con sospetto la bellezza, intesa come la bellezza delle persone e in genere come quella percepibile per mezzo dei sensi. Nel migliore dei casi, l'ha trattata come qualcosa di assolutamente superfluo, irrilevante ai fini del discorso morale. Più spesso come un rischio. Rudolf Bultmann nella sua opera Glauben und Verstehen affermava che «l'idea del bello non ha nessun significato vitale per la fede cristiana». Oggi cominciamo a intuire che togliere la bellezza al messaggio cristiano significa appannarne la forza salvifica. La Redenzione in cui crediamo ci raggiunge attraverso segni; e questi segni devono essere 'efficaci', cioè operare quello che significano e rendere possibile una vera trasformazione all'interno e all'esterno della persona.
L'esperienza del bello non è mai l'esperienza di qualcosa di aggiunto rispetto al vero e al buono, ma è un'esperienza di totalità a cui ci si apre con tutto intero il proprio essere, un senso di armonia, di espansione, di pienezza di vita: rinvia alla salvezza e alla trascendenza in quanto tali (e così la felicità, quella vera); il brutto, la tristezza e la disarmonia sono sempre in rapporto con un'esperienza di vita compressa, di umanità negata, di qualcosa che non va come dovrebbe.
Anch'essi rinviano alla salvezza, ma in quanto la invocano; in quanto ricordano che di tutte queste cose, e di ogni limite umano, «noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati» (Rm 8,37), e chiamano al superamento, alla liberazione, alla trasfigurazione. Ma la bellezza e la felicità mediano la salvezza direttamente.

(Rocca 8/2017, pp. 47-49)